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DAVIDE CAOCCI
2
Pillole di Management di Strada
- per chi crede in un mondo migliore -
Davide Caocci

prefazione di Maurizio Testa
3
Gli articoli qui raccolti sono il frutto della mia elaborazione originale per
il blog aziendale di TEAMFORCE,
azienda innovativa e un po’ “folle” con cui collaboro;
tranne uno, richiesto da Cesare.
Ringrazio, dunque, TEAMFORCE,
Cesare Pastore e Maurizio Testa che mi hanno offerto
la possibilità di condividere con loro questa impresa;
ringrazio Giorgio Borgonovo che, con simpatia, pazienza e
competenza, mi ha “iniziato” alle arti digitali;
ringrazio Guido Bongo che ha ispirato alcune delle riflessioni;
ringrazio Antonio D’Ovidio che mi ha convinto a pubblicarle;
ringrazio Antonio Pucacco, fratello di strada da molti anni,
che le ha lette col cuore e meditate “coi piedi”;
ringrazio Gabriele Avellis, compagno di sempre,
che mi ha dato un po’ di “colore”.
Sarò lieto di dialogare con chiunque vorrà presentarmi domande,
dubbi, perplessità, angosce o semplici osservazioni.
Potrete contattarmi a questo indirizzo: davide.caocci@libero.it.
GRAZIE a tutti!
III edizione riveduta, corretta e ampliata
2014 © Davide Caocci - Tutti i diritti riservati
4
A tutti i fratelli incontrati sulla strada,
alla strada percorsa insieme,
a quella ancora da percorrere!
5
6
Prefazione
Che il mondo moderno stia diventando sempre più complesso
non è certo una novità. È sempre verde la battuta che ci
ricorda che “il futuro non è più quello di una volta”. Noi italiani
in particolare ne viviamo e ne soffriamo le conseguenze più
che in altre nazioni, avendo volenti o nolenti imboccato il viale
che sta portando ad un profondo cambiamento per la nostra
società.
Cambiamento: problema o opportunità. Una visione
problematica evidenzia quanto i segnali di degrado politico,
economico e sociale nel nostro paese portino a ridurre nella
gente la speranza nel futuro, in una prospettiva di implosione
che a molti sembra ormai ineluttabile, così le piazze iniziano a
riempirsi di folle sempre più urlanti, mentre i nostri giovani
laureati riprendono la via della emigrazione anticamente
percorsa dai nostri avi contadini.
Cambiamento: problema o opportunità. Se indossiamo con
coraggio gli occhiali della “opportunità”, tra le pieghe della
storia e degli avvenimenti pur problematici, intravediamo una
gamma di futuri, plausibili e auspicabili, che proiettano la
concretizzazione di una società diversa, globalizzata ma
ancorata sul locale, centrata sull’uomo, dove l’essere piuttosto
che l’avere spinge allo scambio di prodotti e servizi
caratterizzati da quei beni relazionali che consentono rapporti
nuovi e più veri tra gli uomini, unica condizione per vero “ben-
essere” e felicità.
E la nostra nazione. Culla di un popolo empatico e brillante,
ricco di storia, cultura, stili di vita invidiati da tutto il mondo, se
riletta in questa ottica, sembra improvvisamente capace di
rigenerarsi e diventare una fabbrica di ben-essere e
accoglienza a favore dei popoli di tutto il mondo.
Insomma “Problema o Opportunità”? In funzione degli occhi
con cui oggi guardiamo il mondo alieniamo o costruiamo
prospettive di sviluppo futuro per le nuove generazioni.
7
Certamente le chance di sviluppo sono vincolate ad una
nuova concezione dell’uomo, al cambiamento delle relazioni
tra gli individui e i popoli, in un contesto di necessaria
sostenibilità complessiva. Perché questa modalità di sviluppo
si possa concretizzare dobbiamo sperare che persone e
organizzazioni che condividono questa prospettiva si
incontrino e possano imparare a collaborare per generare
“mondo nuovo”.
In fondo è proprio quello che è successo nel mio incontro con
Davide Caocci, che ha dimostrato una volta in più il motto che
“i simili finiscono sempre per attrarsi”.
Una simpatica sequenza di avvenimenti e coincidenze
portarono il mio caro amico Cesare Pastore ad invitarmi a
prendere un caffè con Davide in un tiepido pomeriggio di
inizio Primavera del 2011.
Da quel primo incontro, sorge la consapevolezza di
condividere lo stesso desiderio di futuro, scintilla che ha
portato poi ad una collaborazione in Teamforce, a una
conoscenza sempre più profonda e a un’amicizia corroborata
da intrepide esperienze vissute insieme.
Dal 2013, Davide ha poi iniziato ad animare il blog di
Teamforce [blog.teamforce.it], con i suoi scritti sempre più
intriganti, ricavando un notevole seguito e interesse. Da qui
l’idea di mettere insieme questi pensieri e pubblicarli in una
raccolta più organica e integrata per offrire la possibilità ad un
pubblico sempre più vasto di confrontarsi con una persona
come Davide, capace di punti di vista e di interpretazioni
originali di un mondo in cambiamento.
Uomo colto, giurista, bravo scrittore, ben preparato da un
lungo background sulle politiche di sviluppo internazionale,
conosce il mondo del nord ma ha una particolare familiarità
con il sud e di come esso stia prendendo piano piano uno
spazio di rilievo nell’arena economica mondiale.
Gli scritti di Davide ci parlano della sua visione del mondo ma
sono anche rappresentativi della sua personalità e della sua
storia personale. L’anima scout e in generale una prospettiva
aperta alla collaborazione e all’associazionismo, gli
consentono di manifestarsi come uomo aperto, sensibile,
8
attento a chi gli sta di fronte e accogliente verso la ricchezza
delle diversità che caratterizzano la nostra sempre più
poliedrica società.
Davide ci fa navigare tra i temi della nuova globalizzazione,
del management, della gestione del credito, dei nuovi
paradigmi del marketing, dando prova di una innata capacità
di visione olistica e sistemica dei fenomeni.
Auguro a tutti i lettori di accogliere questa raccolta con anima
e mente aperte, in una prospettiva gioiosa e giocosa che ben
rappresenta il carattere solare e familiare dell’autore,
caratteristiche che descrivono una persona “bella”,
apprezzata e cara a tutti coloro che hanno la fortuna di vivere
con lui brani di vita di mondo nuovo.
Maurizio Testa
.r
9
10
Due parole di necessaria introduzione, ma proprio due
Queste Pillole di Management di Strada rappresentano il
tentativo di declinare per un pubblico attento, e non
necessariamente esperto, esperienze vissute e pensieri
maturati in anni di lavoro accanto agli imprenditori e dentro le
aziende: proprio “sulla strada”!
Tutto quello che viene descritto è entrato dai piedi, è stato
digerito a livello di pancia, ha attraversato il cuore ed è poi
giunto alla testa per trasformarsi dunque in comandi alle mani
per operare e, infine, tornare alle gambe per muoversi.
Alla luce della nostra esperienza italiana, unica e irripetibile,
irriducibile a formule alchemiche di sorta, con queste pagine
provo a formalizzare suggerimenti e riflessioni utili da
applicare al mondo dell’impresa, agli affari, al lavoro dei
“grandi”, e far così del mio meglio per “lasciare il mondo un
po’ migliore di come lo abbiamo trovato” (B.-P.): buona strada
a tutti, e buona lettura!
Davide Caocci
11
12
Lo stile
13
14
SCR – Scoperta, Competenza, Responsabilità: 3
“semplici” passi per un mondo migliore
Il mondo è cambiato, non ci sono dubbi su questo!
E in tale contesto, anche l’imprenditore che desidera
raggiungere l’autentico successo deve modificare il suo
atteggiamento nei confronti della realtà in cui opera:
basta con la concorrenza aggressiva, basta con lo spirito
di conquista distruttiva, basta con il “prendi i soldi e
scappa”!
Lo stesso concetto di successo è evoluto e non si misura
più nel numero di copertine patinate di Fortune che il
manager conquista, o nelle Lamborghini schierate nel
box.
La conquista della vera felicità
Per “successo”, voglio proporre la definizione di un grande
uomo, Robert Baden-Powell (1857-1941), che già all’inizio del
‘900 riteneva che «L’unico vero successo è la felicità» per poi
subito specificare che «Il vero modo di essere felici è quello di
procurare la felicità agli altri».
Dunque, nessun narcisismo edonistico né vuoto materialismo,
ma un’apertura proattiva al mondo e alle persone che
abbiamo intorno, colleghi, dipendenti, superiori, o familiari,
vicini di casa, concittadini.
Ma per far questo, è necessario darsi una mossa! Dobbiamo
responsabilmente muoverci!
15
La strada da percorrere
Se accettiamo la responsabilità che tutti abbiamo nel
contribuire al nostro successo con il realizzare le condizioni di
felicità per noi stessi e la nostra comunità di riferimento (la
famiglia, l’impresa, il villaggio, il Paese, il mondo), dobbiamo
allora accettare di applicare un nuovo stile, delle nuove
technicalities o, per essere più sinceri, dei vecchi strumenti
ma con rinnovate modalità.
Partendo da queste, vorrei suggerire la riscoperta del sempre
valido collegamento 3H (Head, Heart, Hands) o, all’italiana,
TCM (Testa, Cuore, Mani), che già il filosofo svizzero Johann
Heinrich Pestalozzi (1746-1827) proponeva in questo modo:
«Solo ciò che colpisce l’uomo nella forza comune della natura
umana, cioè nel cuore, nello spirito e nella mano, è per esso
veramente, realmente e naturalmente formativo».
Non abbiamo, quindi, nulla da inventare: ci serve solo
riscoprire il grande patrimonio che è da tempo in nostro
possesso! E, con questo, percorrere il proficuo cammino della
SCR – Scoperta, Competenza, Responsabilità, a 360°.
Scoperta del nuovo mondo che si è profilato intorno a noi e in
cui, spesso, ci muoviamo come alieni incapaci di interagire
efficacemente.
Competenza da acquisire per renderci abili a crescere e far
crescere in maniera sostenibile tutto ciò che incontriamo, noi
per primi.
Responsabilità verso sé e la propria comunità, verso il medio
ambiente e le generazioni future, verso il passato che ci
portiamo addosso e il futuro che andremo a costruire.
Verso un mondo migliore
Se saremo in grado di operare in questo modo, allora avremo
dato il nostro contributo a far sì che questo mondo nuovo sia
anche almeno un po’ migliore di quello che abbiamo trovato al
nostro arrivo su questa Terra. E in questo modo avremo fatto
veramente del nostro meglio per offrire a noi e agli altri quella
felicità che rappresenta il vero successo della vita!
16
4 dimensioni per una scoperta
Non serve chiamarsi Cristoforo Colombo per gettarsi alla
“scoperta” di qualcosa di nuovo, anzi proprio oggi, nel
contesto mutevole in cui ci troviamo, appare sempre più
necessario essere pronti a esplorare vie sconosciute per
cogliere le opportunità del mondo nuovo.
Abbiamo a disposizione ben 4 dimensioni da percorrere e
attraversare: quella che ci porta dentro di noi, quella che
abbraccia gli altri, quella che ci fa elevare e quella,
limitata ma potentissima, del tempo.
A noi sfruttarle al meglio!
Il significato
Se il vocabolario della lingua italiana indica tra i primi
significati di “scoperta” ciò che viene reso visibile e manifesto,
io preferisco quello ulteriore per cui si ha una acquisizione alla
conoscenza e all’esperienza umana di nozioni, fatti, oggetti,
luoghi prima ignoti, e rischiando di scivolare nel poetico
aggiungerei quasi “ciò che prima per qualche motivo non si
vedeva o che comunque si presenta alla vista come
un’apparizione nuova” (cfr. Treccani.it). Con ciò compiendo
anche una scelta consapevole sull’impegno che si deve
profondere da parte dello scopritore per perfezionare l’atto e
giungere all’autentica e piena scoperta.
Non siamo quindi dinanzi a un fatto casuale: non è un
rinvenimento fortuito bensì una ricerca scientemente condotta
al fine di un desiderato accrescimento del proprio patrimonio,
17
beninteso composto da tutti quei beni intangibles che
rappresentano la vera ricchezza della persona.
Le dimensioni
Affinché una simile attività sia fruttifera, però, è necessario
muoversi in terreni ancora inesplorati, su piani nuovi,
attraversando dimensioni non intercettate dalla geometria
classica. Propongo allora in questa sede una sorta di itinerario
attraverso le 4 dimensioni in cui ritengo si possa vivere
appieno l’esperienza della scoperta. La rappresentazione
cartesiana è da considerare una semplificazione che ci
permetterà di visualizzare il percorso che andremo a fare.
La prima dimensione, quella dell’ad intra, rappresenta il sé,
l’io, gli interna corporis di ciascuno di noi: ciò che siamo e
portiamo dentro, la nostra storia, i nostri valori. La mole di
materia accumulata negli anni, pochi o tanti che siano,
trascorsi nel mondo e modellata dalla nostra esperienza
quotidiana.
La seconda, quella dell’ad extra, si apre agli altri, agli externa
corporis. È qui che andiamo a riporre tutto ciò che dall’esterno
ci perviene, in dono gratuito o per rapina, quale oggetto di
scambio o per sorte. Le nozioni che ci rendono persone
erudite, i sentimenti d’amore e di rabbia per qualcuno o
qualcosa, le esperienze tragiche ed eroiche che completano
di sfumature i contorni definiti e netti di chi siamo.
Insieme, queste prime due rappresentano l’immanenza nella
quale ci muoviamo, costituita da strette di mano e baci
appassionati, nottate insonni sui libri e accese discussioni
politiche, lasagne al forno e viaggi in treno in seconda classe.
A questo punto, la terza dimensione, quella della
trascendenza o super, porta invece ad alzare lo sguardo,
fisico e metafisico, per cercare di cogliere e catturare il di là o
il di più. Alcuni lo identificano con Dio, l’Essere supremo, altri
con il principio del tutto, altri ancora dichiarano con forza che
non esiste, e si privano in questo modo di un’intera
dimensione, per risparmiar energie e magari accontentarsi
d’altro.
Da ultimo, la dimensione dell’in fieri, del tempo, che attraversa
le precedenti e le trasforma, le fa maturare e porta a
realizzazione o rinsecchire e alfin morire. Qui, tutti possiamo
tutto, sol volendolo.
In ciascuna di queste grandezze, ognuno può e deve
applicarsi al meglio per rinvenire, scoprire, e conquistare i
18
tesori celati per noi per poi farli fruttare secondo quanto il
cuore e il cervello ci suggeriscono e le mani ci permettono.
Le applicazioni
Se un discorso simile non si concludesse con delle
declinazioni concrete, potrebbe apparire un irenico sermone
tratto da qualche vecchio libro di dottrina; tutt’altra è la mia
intenzione!
E allora, il cammino di ricerca che si snoda attraverso le 4
dimensioni della scoperta offre concrete occasioni di
miglioramento (e autentico arricchimento) in ogni settore della
vita: dal personal empowerment alla capacità relazionale,
dall’efficacia ed efficienza professionale alle doti di leadership
dentro e fuori dall’azienda, dalla profondità umana allo
spessore sociale.
Questo e altro, molto altro, si schiude a chi si pone
proattivamente alla ricerca per crescere e per migliorare se
stesso e il mondo intorno. E così facendo, contribuire a
rendere il mondo migliore!
19
20
Modello CTRE, competenza completa & competitiva
Competenti perché esperti di vita: questo è ciò che si
richiede agli uomini e alle donne del nostro tempo per
affrontare al meglio le prove che vengono poste
quotidianamente.
Non servono titoli formali, conseguiti nelle sontuose
accademie d’oltreoceano, spesso è sufficiente accogliere
e trattenere l’insegnamento di un mentore, le parole di
conforto di un vicino, l’esempio virtuoso di un testimone
di autenticità.
E allora chiunque può divenire portatore di competenza
per contribuire alla realizzazione di un mondo migliore.
La competenza
Uno dei maggiori guru della formazione aziendale, il francese
Guy Le Boterf, definisce la competenza come «Un insieme,
riconosciuto e provato, delle rappresentazioni, conoscenze,
capacità e comportamenti mobilizzati e combinati in maniera
pertinente in un contesto dato»; se invece desideriamo essere
più ampi e comprendere tutto possiamo riproporre la classica
sommatoria di “sapere, saper essere, saper fare”.
21
Gli studi in materia classificano più di 30 definizioni, ma in
questa sede mi riservo di proporre quel significato primo
dell’originario termine latino “compententia”, vale a dire
“capacità”, pur se in maniera amplia, di ottenere, richiedere,
sollecitare, essere adatto, magari insieme ad altri portatori di
ulteriori e diverse competenze per raggiungere un proprio
obiettivo, magari una vittoria (da cui “competizione”).
Ecco il motivo che mi ispira a proporre il modulo CTRE
, per
illustrare la completa competenza competitiva (3 volte c) che
deve rappresentare il bagaglio di ciascuno nell’affrontare le
sfide della vita o, concretamente, di un imprenditore di fronte
alle quotidiane necessità della propria azienda, ma pure gli
ambiti che tale competenza deve abbracciare: tecnico,
relazionale ed esperienziale.
3 volte competenti
Dunque, per essere piena, la competenza deve svilupparsi
innanzitutto sul piano tecnico delle conoscenze utili e
necessarie per “far bene” ciò che si è chiamati a fare,
svolgere nel migliore dei modi possibili il proprio ruolo nella
società complessa in cui ci si trova, apportare quel contributo
unico e originale senza il quale il mondo sarebbe
impercettibilmente incompleto.
Può sembrare poco, ma è questo che fa la differenza e, come
recitava Douglas Malloch, «Se non puoi essere un pino sul
monte, sii una saggina nella valle, ma sii la migliore piccola
saggina sulla sponda del ruscello».
E per acquisire tali conoscenze, sicuramente sono necessari
forza di volontà e spirito di sacrificio, tempo e coraggio: poi,
tanta testa e un po’ di cuore.
Cuore che diviene indispensabile per la competenza
relazionale, quella che si patrimonializza dalle frequentazioni
di valore, in famiglia, nella scuola, sul lavoro, ma pure per
strada, dall’incontro fortuito con un allevatore di pangolini o
dalla convivenza diuturna con un fratello.
Le relazioni costituiscono il valore più genuino che a ciascuno
di noi è concesso acquisire in vita: uniche e irripetibili, non
formalizzabili né trasferibili, ricche o povere che siano vanno a
costituire quel bagaglio che ci distingue e ci rende meraviglie
originalissime.
E quindi la competenza derivante dalle esperienze: il sudore
versato nelle torride giornate d’estate a coltivar la terra o le
lacrime dinanzi a un tramonto sul mare; il bacio dell’amata e
la prima busta paga ricevuta dal proprio datore di lavoro.
22
Esperienze che permettono alle relazioni di acquistare un
valore inestimabile e, insieme, consentono alle proprie
conoscenze tecniche di caratterizzare ciascuna persona in sé
come ganglio di relazioni significative che si attuano nello
spazio-tempo.
Arrivare per ripartire
Ma allora dove andiamo con un simile bagaglio?
Che diplomi e attestati, lauree e master siano indispensabili
penso che siamo tutti d’accordo, ma non possono da soli
essere bastanti per renderci completi, competenti e
competitivi in un panorama in continuo divenire ove la
conoscenza è il bene che sconta la più alta deperibilità e deve
essere rinnovata continuamente per non perdere il suo valore.
Ben vengano allora quei luoghi fisici e morali ove si possono
arricchire le conoscenze tecniche con esperienze di crescita
(umana, professionale, di formazione), magari veicolate da
relazioni di valore.
Sempre con l’assunto che non si giunga mai definitivamente
alla meta, ma ogni traguardo rappresenti solo una tappa di un
cammino continuo e che ogni arrivo apra alla successiva
partenza.
23
24
RSP, Responsabilità Sociale della Persona: ecco la
differenza!
Dalla Responsabilità Sociale d’Impresa, RSI o Corporate
Social Responsibility (CSR) all’inglese, si è da tempo
passati a riportare l’attenzione sulla Responsabilità
Sociale della Persona, RSP o Personal Social
Responsibility (PSR), per richiamare il ruolo e
l’importanza che ciascuna persona porta in sé nel grande
gioco della vita dove, dopo aver scoperto cosa fare (fase
della scoperta) e imparato a farlo (fase della competenza),
ci si deve impegnare a farlo al meglio (fase della
responsabilità).
E ciò è condiviso tanto dagli studi sociologici quanto da
quelli economici, per evidenziare l’importanza che
riveste, nel nuovo mondo in cui ci troviamo, il vivere da
protagonisti consapevoli per contribuire a realizzare un
mondo migliore. Per tutti e per ciascuno!
Perché responsabili
Se Arvind Devalia, nel suo famoso saggio dedicato
all’argomento della Personal Social Responsibility, ce ne offre
la seguente definizione, al contempo semplice e illuminante:
«la capacità di riconoscere come il proprio comportamento
produca effetti sugli altri», Nicola Abbagnano, invece,
parlando di responsabilità nel suo “Dizionario di filosofia”
ricorda che oltre alla «possibilità di prevedere le conseguenze
25
del proprio comportamento» risulta imprescindibile poter
«correggere lo stesso sulla base di tale previsione».
Netti risultano quindi gli elementi di questa attitudine che deve
caratterizzare qualunque persona e che si possono
sintetizzare con la consapevolezza che ogni nostra azione
produce degli effetti nel mondo intorno a noi, unita alla
capacità di prevedere simili effetti e, se del caso, con la libertà
di modificare i nostri comportamenti proprio in ragione di tale
previsione.
Proprio questo ultimo aspetto offre una connotazione etica
alla responsabilità dal momento che ci rende capaci di
“rispondere” a una chiamata, a una vocazione, per modificare
il nostro agire al fine di permettere il realizzarsi o viceversa
evitare determinati accadimenti.
Ma ciò presuppone il possesso di un bagaglio valoriale che
guidi la nostra condotta.
Verso chi responsabili
Per quale motivo dovremmo allora orientare le nostre azioni in
forza delle conseguenze che un certo comportamento
potrebbe causare?
In maniera abbastanza categorica, possiamo dire che la
responsabilità di cui siamo investiti riverbera su noi stessi,
sugli altri intorno a noi e su tutti i nostri simili; sulla Storia che
viviamo e sul mondo che attraversiamo nella nostra vita.
E questo a prescindere dal ruolo sociale, politico o economico
cui assolviamo in concreto, ma solo e soltanto per il fatto di
essere nati e vivere scientemente su questo pianeta.
Tutto quello che produciamo in termini di interscambio tra noi
e l’ambiente circostante, siano emozioni o rifiuti, beni
relazionali o cose tangibili, è segnato indelebilmente dal
nostro marchio personale e ce ne rende autori, degni o
indegni a seconda dei casi.
A noi il compito di portarne i meriti e di evitare le colpe.
Io, noi, tutti, persone responsabili
Per vivere in maniera responsabile la propria responsabilità,
risulta fondamentale richiamare l’essenza dell’essere
persona, per sé e per gli altri, in quanto portatrice di relazioni
e, partendo da queste, l’importanza dell’operare ad un
autentico sviluppo integrale della persona (di tutta la persona
e di tutte le persone) quale unica via per realizzare un mondo
migliore.
26
Solo in una realtà ove i rapporti saranno improntati ad una
simile qualità comune, il perseguimento delle migliori
condizioni per tutti non sarà più un’utopia ma un comune
programma d’azione e la personal social responsibility sarà
semplicemente la responsabilità di tutti verso tutti!
27
28
Novazione 3.1, ovvero il change management secondo
ERIC
Oggi, la gestione del cambiamento richiede la capacità di
condurre se stessi e la propria organizzazione, l’azienda
o l’intera società, verso una “novazione” integrale: non
abbiamo sbagliato, non volevamo dire “innovazione” (che
ne è una componente) ma proprio “novazione”, nel senso
di “nuova azione”.
Solo con un atteggiamento consapevole rivolto in questa
direzione è possibile governare saggiamente e da
protagonisti il cambiamento che il mondo sta vivendo e
che noi non possiamo, né dobbiamo, subire
passivamente: ma noi dobbiamo cambiare, ed ERIC ci
può aiutare!
Novazione 3.1
Il programma di “Novazione” che qui si intende proporre
necessita di alcune premesse metodologiche per poi essere
lanciato e attuato in maniera efficace e proattiva.
Innanzitutto, il termine “novazione”: esso indica la novità
dell’azione che si deve porre in essere per gestire al meglio la
trasformazione che il mondo sta attraversando. Una novità
dell’agire che implica e coinvolge tutti i caratteri propri
dell’agente e del suo ambiente e che deve portare a un
rinnovamento anche delle modalità di pensiero e d’azione,
delle capacità di vision e di sentiment, delle possibilità di
interazione con cose e persone.
29
Questa “nuova azione” si declina oggi in tre stili per tre
contesti differenti (l’Evoluzione per la persona, la Rivoluzione
nella società, l’Innovazione in economia), che devono essere
affrontate insieme, per un sistema unico e integrato (il nostro
nuovo mondo che vive il Cambiamento).
Su questo cammino, ci lasciamo accompagnare da ERIC,
nostra guida esperta!
3, Evoluzione Rivoluzione Innovazione
Il primo stile è quello che semplicemente possiamo definire
Evoluzione e che riguarda la persona.
Già Charles Darwin (1809-1882), in un certo senso padre
della teoria dell’evoluzione, sosteneva che «Non è la più forte
delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella
più reattiva ai cambiamenti», e ciò comporta che la
dimensione personale è la prima ad essere interessata dalle
sollecitazioni provenienti dal contesto. E al contempo è la
prima in cui si deve essere in grado di reagire per individuare
gli strumenti più idonei per rispondere in modo efficace ed
efficiente e, dunque, “sopravvivere”.
Il secondo passo coinvolge la dimensione sociale e richiede la
Rivoluzione.
Per la società, spesso è necessario un vero e proprio
stravolgimento per conseguire un obiettivo che sia valido per
tutti, ma ricordiamo quanto affermava un rivoluzionario doc,
Ernesto Guevara de la Serna (1928-1967), Che Guevara, «La
rivoluzione del mondo, passa attraverso la rivoluzione
dell’individuo», riposizionando il centro sul singolo attore da
cui tutto deve partire.
La fase successiva è quella dell’Innovazione per la
dimensione economica dell’agire umano.
L’economia, l’impresa, il lavoro devono procedere per passi
successivi che comportino elementi di novità anche minimi ma
continui. Steve Jobs (1955-2011), che dell’innovazione ha
fatto un must del suo impero, ripeteva ai suoi collaboratori che
«Le nuove idee nascono guardando le cose, parlando alla
gente, sperimentando, facendo domande e andando fuori
dall’ufficio!», nel vivere autenticamente e pienamente la
propria vita!
1, Cambiamento
Ma ERIC non sarebbe completo e tale se non riconducesse
tutto all’unico e ampio Cambiamento sistemico che la realtà
sta attraversando.
30
Se siamo d’accordo che consapevolezza e responsabilità
personale sono i caratteri fondamentali per attivare e vivere
un cambiamento intelligente, sostenibile e proficuo per tutti
possiamo convenire con il Mahatma Gandhi (1869-1948) e
invitare fortemente a «diventare il cambiamento che vogliamo
vedere» senza accontentarci di sopravvivere alle cose che
cambiano.
Dobbiamo avviare modalità virtuose al fine di portare tutti e
ciascuno a contribuire con modalità consapevoli e
responsabili non solo alla trasformazione (per la costruzione
di un mondo nuovo) ma altresì al miglioramento (verso la
realizzazione di un mondo migliore) del contesto che ci ospita.
Questa non è un’utopia: è una opportunità!
31
32
Personal Quality Management, la nuova frontiera della
qualità
Il modello del Total Quality Management poneva il focus
su processi e prodotti, dimenticandosi delle persone, e
ha contribuito a portare il mondo delle imprese al punto
in cui ci troviamo oggi; il Personal Quality Management,
invece, ripone al centro la persona e la sua
responsabilità, nel gestire processi, nel creare prodotti,
nel costruire impresa, nel vivificare l’economia e la
società.
Un concetto di qualità che va ripensato e arricchito alla
luce dell’insita dignità che ognuno porta inscritta in sé.
Una sfida avvincente, una opportunità da non lasciarsi
sfuggire!
La persona
Sviluppato a partire dagli anni ‘50 nel Giappone della rinascita
dalle macerie del secondo dopoguerra, il Total Quality
Management si è poi diffuso nel mondo grazie ai contributi e
ai modelli offerti dagli Stati Uniti: ma in tutte le sue
elaborazioni, a 8 o 9 componenti secondo le più attuali,
manca un elemento fondamentale. Anzi, quello che deve
essere considerato il più importante: la persona!
Ecco perché in un nuovo approccio di Personal Quality
Management, la persona riguadagna il suo ruolo centrale, non
33
in quanto cliente da soddisfare o risorsa umana da impiegare
al meglio, bensì proprio e pienamente perché “persona”,
dotata di una sua identità e coscienza a prescindere dai ruoli
giocati nello specifico contesto di riferimento.
Con la consapevolezza che l’aggettivo “personal” si riferisce a
tutti e a ciascuno, coinvolgendo tutti a titolo diretto e in
relazione agli altri secondo la relazione esponenziale xn.
Un sistema innovativo, dunque, per riformare l’approccio
economico deve ricondurre tutte le scelte a quel soggetto che
ne è ideatore, fautore e destinatario, la persona. Parrebbe
rivoluzionario ma è solo naturale!
La qualità
Parimenti, concetto e definizione di qualità hanno visto
un’evoluzione bulimica nel corso degli anni per giungere a
ricomprendere tutte quelle caratteristiche che soddisfano
predeterminati requisiti (come prevedono i fondamenti della
norma ISO 9000) ma anche in questo caso dimenticandosi
del ruolo fondamentale ricoperto dalla responsabilità per la
realizzazione di un sistema autenticamente di qualità.
Responsabilità che è una caratteristica tipica della persona,
giacché solo una persona può rispondere consapevolmente
dei propri comportamenti attivi od omissivi e, quindi, solo
persone responsabili possono garantire la qualità di azioni
che si traducono in processi, che permettono la realizzazione
di prodotti.
Risulta al fine evidente che l’unica via per realizzare la piena
qualità, modernamente intesa, è quella di avere persone
responsabili o, da un differente punto di vista, di porre la
responsabilità personale alla base di ogni sistema.
La gestione
Il tutto, però, necessita di rinnovate competenze gestionali, di
un nuovo stile di management.
E a questo proposito, mi piace ricordare come il termine
inglese management, da cui i tanto incensati manager,
spesso esageratamente pagati o criminalizzati, derivi dal
tardo latino “maneggiare”, ancora in uso in italiano seppur con
significato negativo, vale a dire «trattare con le mani»: in
maniera semplice e diretta, lavorare!
Una parola che riporta dunque al lavoro manuale, forse più
pesante, ma al contempo creativo che richiede continua e
costante attenzione.
34
Capacità di gestione, di management, di “maneggio” che
torna ad essere competenza tecnica quasi artigianale per
affrontare la complessità aumentata del nostro tempo per
modellare la creta del XXI secolo e realizzare vasi per post-
moderni fiori virtuali.
Per far ciò, sono necessarie particolari competenze
manageriali? Corsi di innovative business school?
Probabilmente, è sufficiente riscoprire quelle doti proprie della
persona umana, giacché il buon senso torni a governare
l’humanum.
Un’impresa da vivere con entusiasmo e coraggio, sicuri che
l’opportunità che ci si propone è unica e l’esito finale dipende
dalla nostra disponibilità a lasciarci coinvolgere, testa, cuore
e, ovviamente, mani!
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Dall’homo viator, insegnamenti per l’imprenditore d’oggi
Sono state proposte differenti metafore per rappresentare
l’odierno imprenditore: qui vorrei tratteggiare quella non
usuale, almeno nelle discipline aziendaliste, di “homo
viator”, uomo in movimento.
In movimento perché solo “muovendosi” l’essere umano
può dimostrare a se stesso e agli altri di essere attivo. Nel
presente contesto glocale, poi, il movimento può essere
fisico, pedibus calcantibus, della mente (o del genio) e
pure virtuale surfando nella rete, e si declina in almeno 3
stili differenti: quello del nomade, del migrante e del
pellegrino.
L’homo viator
Stiamo vivendo un momento storico molto particolare: non
possiamo usare solo il termine “crisi” per definirlo; occorre uno
sguardo più ampio. Allo stesso modo, per parlare
dell’imprenditore si devono elaborare immagini nuove e più
evocative.
In questa occasione, vorrei proporre l’immagine dell’homo
viator, l’uomo in movimento, l’uomo che va per via, quale
modello per l’imprenditore italiano, nella certezza che nelle
sue differenti declinazioni esso ha molto da insegnare.
Il nomade
La prima categoria di imprenditori che si possono ricondurre
all’homo viator è quella del “nomade”.
Il nomade, sin dall’antichità, si sposta seguendo la natura sua
e dell’ambiente che lo ospita: il proprio istinto, il susseguirsi
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delle stagioni, le migrazioni degli animali. Il tutto nel rispetto di
ritmi precisi e regolari, con modalità totalmente sostenibili e
compatibili.
Non ha un particolare legame con una terra perché si sente a
casa propria su tutto il pianeta Terra, che gli dà da vivere e
che rispetta.
Il migrante
Viene poi il “migrante”, colui che è spinto a muoversi verso
una terra promessa per necessità, per assicurare a sé e alla
propria famiglia una vita migliore e un destino più prospero.
Difficilmente il migrante ritorna a casa; appena gli è possibile,
anzi, si fa raggiungere da parenti e compaesani per
condividere le opportunità e le occasioni che ha trovato.
Nel cuore conserva un ricordo romantico della terra d’origine
e, a seconda delle fortune, contribuisce in maniera più o meno
consapevole alla creazione di mitologie delle migrazioni che,
nelle grandi aziende, assurgono a vere e proprie saghe.
Estremizzazione del migrante è il “profugo”: colui che è
obbligato a fuggire per salvare la vita.
Purtroppo le cronache, anche attuali, riportano
quotidianamente casi di persone che fuggono da carestie,
guerre, persecuzioni o cataclismi: la disperazione è il tratto
che accomuna tutti, l’istinto di sopravvivenza Ia forza che
consente loro di muovere un passo dopo l’altro in qualsiasi
direzione.
Il migrante ha ancora lacrime da spargere, e spesso lo fa
copiosamente; il profugo conserva le sue forze per
sopravvivere e non riesce più nemmeno a piangere.
Il pellegrino
Ultima figura di imprenditore in cammino è il “pellegrino”.
Questo è mosso da energie particolari: una “fede” forte, una
“vocazione” particolare, una visione “profetica”. Tutte
motivazioni che rimandano ad una dimensione “altra”
dell’esistenza ma che costituiscono le fondamenta dell’essere
umano.
Il pellegrino parte perché “crede” in qualcosa di grande anche
se non è in grado di offrire una spiegazione razionale del suo
andare; si muove con mezzi poveri, spesso solo a piedi, verso
una destinazione precisa anche se non conosciuta; valorizza
ogni metro del suo cammino e ogni incontro entra a far parte
del suo bagaglio.
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La meta poi non è mai definitiva, perché rappresenta un
momento del compimento di un progetto più grande che si
realizzerà poi con il ritorno a casa, nella propria comunità, con
la quale condividere la ricchezza e bellezza dell’esperienza.
E, magari, spingere altri a partire, accompagnarne alcuni,
aprire strade alla volta di nuovi santuari.
Buona strada!
Homo viator, dunque, nomade, migrante e profugo, pellegrino:
diversi i cuori, diversi gli occhi, diversa la strada percorsa.
Metafora per i moderni uomini d’azienda che, nel nostro
Paese, vogliono “intraprendere”.
A ciascuno lascio il compito di trarre gli insegnamenti che più
si sentono propri; a ciascuno la libertà di seguire un modello o
di escluderlo; a tutti auguro, comunque, “buona strada”!
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Non serve nascondere la testa nel calcestruzzo
In questo tempo di falsi profeti e di fugaci illusioni a molti
può apparire facile, per non dire opportuno, fuggire dalle
proprie responsabilità (e tutti ne abbiamo!) per
nascondersi nell’individualismo più nero: comportarsi
come uno struzzo e cacciare la testa, e il cuore, sotto la
sabbia. Invece, proprio ora, la testa va usata, e ancor
meglio di prima!
Struzzo o calcestruzzo
Ci troviamo indubbiamente in una fase cruciale della storia
contemporanea: alcuni denunciano la perdita delle virtù, altri
quella delle passioni, c’è chi grida alla fine del mondo e chi la
invoca, giovani che seguono ideali antichi (pochi) e anziani
rimbambiti da pillole dell’eterna giovinezza (troppi).
In questo scenario, diviene quasi naturale richiamare
l’immagine dello struzzo che, proverbialmente, nasconde il
capo nella sabbia. Ma forse, ancor più appropriato sarebbe
parlar di calcestruzzo perché, al di là dell’assonanza, chi si
dovesse trovar oggi a nascondere la testa per fuggire dal
confronto aperto richiesto dalla sfida del tempo presente
meriterebbe solo di finire impastato nel conglomerato in uso
nei cantieri edili e non certo solo a far “sabbbiature” riposanti.
Dunque, con tutto il rispetto per il pennuto corridore, diciamo
che l’esempio che offre non rappresenta un modello
condivisibile.
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Perché nascondersi
Infatti, si dà il caso che nei momenti più difficili sia necessario
l’impegno di tutti e di ciascuno, ognuno secondo le personali
possibilità e capacità, apportando quei talenti e carismi che
tutti possediamo e che possiamo condividere. E così facendo
centuplicarne la forza e l’effetto intorno a noi.
L’individualismo non conduce da nessuna parte e la codardia
paralizza: solo il coraggio smuove anche le montagne e la
solidarietà fa in modo di condividerlo anche con chi ne fosse
sprovvisto.
Dunque, mai nascondersi e ancor meno in un momento di
grave difficoltà, o profonda crisi che dir si voglia, quale quello
che stiamo vivendo e che, dobbiamo riconoscere, non finirà:
dobbiamo solo, ed è tanto, alzare la testa e usarla!
Usiamo la testa
Ma cosa significa “usare la testa”? E poi, come usarla?
Qualcuno, preso dalla disperazione, la usa per spaccare il
naso ad un interlocutore inopportuno; altri, forse meno arditi,
si limitano a sbatterla contro il muro più vicino; il nostro
consiglio, invece, muove da considerazioni più pragmatiche e
vuole aprire soluzioni meno sanguinarie e più performanti per
tutti.
Partiamo dalle considerazioni: il denaro sembra essere la
risorsa meno diffusa, non solo in Italia; il desiderio di lavorare,
invece, il sentimento che maggiormente ci accomuna. Chi non
ha un lavoro, poi, ha molto tempo a sua disposizione: giornate
di ricerca e notti insonni, da cui scaturiscono certamente
emicranie e stress ma pure idee, e tante, e proprio queste
debbono venire rivalutate. Queste idee sono la nostra risorsa
fondamentale per avviare un cambiamento virtuoso!
Come diceva il commediografo inglese George Bernard Shaw
«Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo,
allora tu ed io avremo sempre una mela per uno. Ma se tu hai
un’idea, ed io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora avremo
entrambi due idee», e allora perché non creare una “banca
delle idee” ove chiunque possa condividere le sue e arricchirsi
delle altrui?
La testa dovrebbe farci comprendere quanto sia proficuo un
simile comportamento di reciproco arricchimento dove il
susseguente e naturale passo sarebbe poi quello di un attento
scouting per l’individuazione di concrete modalità di
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realizzazione delle idee geniali, originali, promettenti o
semplicemente realizzabili che si presentino volta per volta.
Diamo un calcio al calcestruzzo, dunque, e leviamo la testa:
possiamo farcela, e ce la faremo!
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Le 4P dello stile manageriale secondo Walt Disney
Nel marketing, le originarie 4P (Product, Price, Place,
Promotion) di McCarthy e Kotler sono da tempo state
integrate da ulteriori elementi e, oramai, si è approdati a
un mix di 7 (con Physical evidence, People e Process) o
8P, ove si giunge a ricomprendere anche la “Paura”.
Nello stile manageriale, invece, è recente l’elaborazione
che prende spunto da Walter E. Disney e che, per il
momento, si ferma a proporre le prime 4P: Pluto, Pippo,
Paperinik e Paperone.
In questo modello, Topolinia e Paperopoli rappresentano,
a modo loro, un “mondo migliore” a cui ispirarsi nel
nostro agire imprenditoriale!
Il modello ideale di Disney
Edmund J. McCarthy e Philip Kotler hanno nel secolo scorso
avviato quegli studi di marketing che hanno portato a definire
il famoso mix delle 4P che poi, col tempo, sono cresciute sino
a 7 e, con l’acuirsi dell’attuale crisi, 8P: alle originarie P di
Product, Price, Place e Promotion, si sono aggiunte quelle di
Physical evidence, People e Process, fino all’ultima Paura,
tutta italiana.
Con molta probabilità, a causa di un eccesso di ottimismo
nelle potenzialità dei mercati, nel recente passato si è abusato
degli strumenti di marketing senza dedicarsi con la dovuta
attenzione alla vera esigenza: quella di elaborare uno stile
manageriale per uomini e donne d’azienda ed ora, siamo
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obbligati a riprendere in mano quelle categorie che, forse, ci
permetteranno di uscire dal pantano della stagnazione.
Ridefinendo gli strumenti e i modelli e giungendo così ad uno
“stile” originale.
In questo nuovo approccio, Walter E. Disney, meglio noto
come Walt Disney, ci offre una cosmogonia ricca di
suggerimenti con le sue “città ideali”, Topolinia e Paperopoli
che, a modo loro, rappresentano un “mondo migliore” a cui
potremmo ispirarci nel nostro quotidiano agire da manager,
imprenditori, cittadini di questo nuovo mondo.
Città in cui animali antropomorfi interagiscono alla pari con
esseri umani e animali animali, ove le relazioni familiari non si
capiscono bene ma rappresentano il nerbo vitale della
società, gli affari si concludono in dollari ma la borsa non
incide più di tanto sul buon umore generale e, in fin dei conti, i
“buoni” trionfano sempre sui “cattivi”.
Un mondo utopico? Semplicemente, un mondo migliore.
Le 4P dello stile manageriale
Prendendo dunque spunto dal fantastico universo disneyano,
proviamo a delineare uno stile manageriale che si sviluppi
attraverso alcuni atteggiamenti incarnati da personaggi assai
noti delle strisce colorate.
La strategia che ne deriva dovrebbe secondo noi condurre
l’uomo d’impresa, manager o imprenditore che sia, ad attivare
dei comportamenti virtuosi e contagiosi che portino alla
generazione di modalità nuove di affrontare le cose.
Le figure che si propongono a modello sono Pluto, Pippo,
Paperinik e Paperone, proprio 4P.
Ma esaminiamoli insieme e cerchiamo di declinarli nell’attività
manageriale.
Pluto, un vero cane, che è divenuto l’emblema della cieca
fedeltà al suo padrone, Topolino, e al contempo caratterizzato
da quella grande sagacia che diviene indispensabile per far
uscire tutti da questioni critiche.
Pippo, un cane completamente umanizzato, miglior amico di
Topolino, di una semplicità al limite dell’ingenuità e, per
questo, capace di essere istintivo e di improvvisare. Sempre
imprevedibile e, all’occorrenza, dotato di “superpoteri”
(ricordiamo che, grazie alle noccioline, Pippo si trasforma in
Super Pippo, un vero e proprio supereroe).
Per la terza P, abbiamo Paperinik: personaggio uguale e
contrario rispetto al precedente. Siamo qui davanti al
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supereroe che possiede mille risorse tecnologiche e
avveniristiche, tutte al servizio del bene comune (o di uno
specifico obiettivo condiviso) perseguito con scrupolo,
efficienza ed efficacia. E questo, comunque, sempre con
grande discrezione e modestia.
Dulcis in fundo, Paperon de’ Paperoni. Indicato sovente a
modello della cupidigia e dell’avarizia umana, nonostante sia
un papero, noi vogliamo riabilitarlo e sottolinearne invece i
tratti positivi della caparbietà, della capacità di operare con
metodo progettuale per obiettivi progressivi e, da non
dimenticare, del fiuto per gli investimenti. D’altronde, partendo
dal suo primo cent, è riuscito a raccogliere nei suoi depositi un
fantapatrimonio di «500 triplitrilioni di multipludilioni di
quadricatilioni di centrifugatilioni di dollari e 16 centesimi»,
come lo stesso Paperone afferma.
In fondo, un buon papero!
L’evoluzione del sistema
Se le 4P della strategia disneyana così delineate vi appaiono
eccessivamente banali, non preoccupatevi: come la tradizione
ci mostra, tutti i modelli e gli schemi elaborati dalle grandi
business school possono, e debbono, venire elaborati,
sviluppati, modificati anche in tempo reale.
E allora indichiamo subito la via sulla quale far evolvere le 4P
aggiungendone una quinta: Paperoga, personaggio istrionico
e, a volte, un po’ folle; capace di tutto e, al contempo,
incapace di un impegno costante. A suo modo, geniale!
L’insegnamento di Paperoga da applicare al modello
manageriale ci è offerto dalla sua prima ed emblematica
battuta, nel 1964: «Mi fermerò da te qualche giorno - STOP -
T’insegnerò un nuovo sistema di vita - STOP». Un
concentrato di efficienza ed innovazione.
E non sono solo fumetti!
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Cambio di stile, evoluzione in linea: dal verticale
all’orizzontale
Se il XX secolo è stato consacrato alla conquista della
dimensione verticale, è indubbio che il XXI sarà invece
caratterizzato dal ritorno al senso orizzontale della vita:
apertasi con l’inaugurazione entusiastica della Tour Eiffel
a Parigi in occasione dell’Esposizione mondiale del 1889
e conclusasi in maniera apocalittica con lo sgretolamento
delle Twin Towers di Manhattan nel 2001, la corsa al cielo
ha visto l’essere umano porre piede sulla Luna
(fisicamente) e su Marte (grazie a droni teleguidati), ma
sempre rincorrendo il mito babelico di arrivare alla
divinità e, magari, sostituirsi ad essa.
Negli ultimi tempi, da più parti, si cerca di recuperare
tutto ciò che crea relazione: reti reali e virtuali, occasioni
di incontro, ponti, strade, vie per incontrarsi. Poi, magari,
non si sa bene come gestire i rapporti, ma tutti sentiamo
il bisogno di averne.
XX verticale: da Parigi a New York
Il XX secolo è stato segnato dall’acuirsi della sfida tra l’essere
umano e la divinità: lo sviluppo delle scienze e della
tecnologia hanno raggiunto risultati impareggiabili rispetto a
tutta la storia precedente. Ma in questa crescita diffusa e
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pervasiva una è rimasta la costante, assunta quasi a
paradigma del secolo, il desiderio di arrivare sempre più in
alto.
Il castigo impartito dal Dio dell’Antico Testamento a chi si
affannava nella edificazione della Torre di Babele non è
bastato, ed ecco allora che a partire dal 1889 con la Tour
Eiffel in occasione dell’Esposizione universale di Parigi,
evento globale ante-litteram, passando per i voli sempre più
sicuri nello spazio e l’approdo dell’Apollo 11 sulla Luna nel
1969, giungiamo all’11 settembre 2001 quando i feticci della
nuova religione monetarista si sbriciolano davanti agli occhi di
tutto il mondo, in un nuovo e tragico spettacolo a cui partecipa
tutta l’umanità in diretta. Ricchissima e terribile parabola della
verticalità del secolo scorso.
L’essere umano desiderava “crescere”, andare sempre più in
alto: picchi nei grafici delle performance azionarie, vette
himalayane da contendersi, bambini sempre più allungati,
tacchi vorticosi per le serate alla moda. Spesso senza
rendersi conto che, cercando di raggiungere l’Olimpo, si
rischiava di perdere Atene, vale a dire la dimensione più vera
della relazionalità, quella che fonda la natura umana della
persona, essere relazionale per definizione.
XXI orizzontale: non solo Facebook
E per rispondere al bisogno di socialità, ecco che grazie allo
sviluppo e alla diffusione di collegamenti internet sempre più
capaci negli ultimi anni si sono moltiplicati strumenti cosiddetti
“social”: dal colosso Facebook, con oltre un miliardo di utenti
a livello planetario, a LinkedIn, MySpace, Youtube, Twitter,
Pinterest, Tripadvisor, Instagram, Chiappala, e altri per ora
meno noti.
Tutti finalizzati a far socializzare le persone, che però
vengono chiamate “utenti”, “users”, e in questo
spersonalizzate, ridotte a codici, username e password per
accedere al proprio profilo.
Proprio questo fatto diventa rilevante: ogni persona non è
altro che un profilo, anche perché nell’universo virtuale di
internet vi sono solo 2 dimensioni e dunque ciascuno può
vedersi solo bidimensionalmente, per l'appunto “di profilo”, in
stile antico Egitto.
Certa è l’esigenza di condividere, di creare legami: foto del
nipotino appena nato, torte di mele improponibili, tramonti ai
tropici o ingorghi metropolitani, pensieri della sera, riflessioni
sotto la doccia e poesie scapigliate, ogni cosa trova il suo
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spazio nella rete e viene messa a disposizione, o alla
mercede, di chiunque ci si trovi a tiro.
Dopo un secolo di chiusa autoaffermazione individualistica,
sembra quasi scoppiata la voglia di riaprirci all’altro, o meglio
agli altri in maniera indifferenziata. Senza per questo riuscire
a comprendere la necessità di affinare gli strumenti con i quali
avvicinarci veramente all’altro e, con lui, avviare un rapporto
autentico. Ci basta premere un “mi piace” per conquistare un
“amico” per poi, eventualmente, “eliminarlo” dalla lista dei
nostri contatti e non pensarci più.
Ma ciò basta?
L’impero romano, nel momento di massima espansione,
aveva una rete viaria che comprendeva oltre 250.000 km di
strade, dall’Oceano Atlantico alla penisola arabica e dalla
Scozia all’Egitto; in molti viaggiavano, parlavano latino e così
facendo davano vita alla prima communitas globalis della
storia. Allora, però, le persone si incontravano veramente,
face-to-face, vis-à-vis, l’una di fronte all’altra!
Oggi, forse, scontiamo l’eccesso di infrastrutture virtuali e la
sottovalutazione di quelle reali: ponti, strade, canali, a volte
semplici porte e finestre (troppo spesso sostituite con quelle
dei nostri pc), non ci dicono più nulla.
Il vantaggio olistico del trasversale
Ecco allora che il nuovo millennio deve da subito aprirci occhi
mente e cuore alla necessità di integrare la dimensione
orizzontale abbracciata dalla rete e dai social media a quella
trasversale nella quale e dalla quale riscoprire il valore della
“profondità” delle relazioni e dei rapporti interpersonali
autentici.
Incontrarci de visu davanti ad un caffè fumante, leggerci ad
alta voce una pagina di Sepulveda, sostare in silenzio accanto
ad una scultura di Rodin, visitare curiosi i sotterranei del
Duomo, tutto ciò si può fare solo mettendo in gioco la nostra
fisicità plastica e facendola interagire con quella dell’altro da
noi e dell’ambiente reale in cui viviamo.
Un simile passo può costar caro: richiede un investimento
psicologico e di maturazione che molti, probabilmente, non si
sentono di affrontare, ma è certo che la possibilità di
penetrare nella dimensione trasversale del rapporto offre un
vantaggio olistico a tutte le parti del sistema e, quindi, al
sistema stesso.
Dopo il verticale, quindi, e oltre l’orizzontale, abbracciamo il
trasversale in profondità!
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Bellezza, libertà, generatività: 3 parole per un futuro
sostenibile
Tempo fa, un caro amico mi chiese di suggerirgli “3
parole per un futuro sostenibile e migliore”; mentre
meditavo sulla difficoltà del compito assegnato e cercavo
di selezionare quelle che potevano costituire il mio
contributo, lui snocciolò le sue: bellezza, libertà,
generatività. Ovviamente, queste mi paralizzarono
aprendomi pensieri e riflessioni infinite ed infinibili.
Cariche di energia e ricche di implicazioni, queste parole
evocano tutto un universo di moti personali e relazionali
facendo emergere desideri, sogni, progetti e
responsabilità di tutti e di ciascuno per la realizzazione di
quel mondo migliore che tutti desideriamo.
3 parole
Riassumere la propria visione del mondo in 3 parole non è
certo un lavoro semplice da svolgere, ancor meno lo è se il
tempo a disposizione trascorre inesorabilmente e si viene
incalzati da altri che coprono i tuoi pensieri con le loro parole,
le loro immagini, le loro fantasie; arduo, per non dire quasi
impossibile, se viene indicata pure una finalità specifica: 3
parole per descrivere un domani sostenibile e, magari,
migliore di oggi e di ieri.
Le parole, lo sappiamo, sono veicoli per trasmettere
sensazioni, emozioni, desideri, per condividere progetti e
idee, per relazionarsi con gli altri e, in estrema sintesi,
manifestarsi e vivere. Ma la richiesta di cercarne 3, solo 3,
considerando il fatto che la lingua italiana conta ormai oltre
800.000 lemmi, può lasciare spiazzati. Qualcuno potrebbe
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obiettare che, nell’uso quotidiano, non se ne impiegano più
7.000, e che le nuove generazioni risultano ancor più
parsimoniose, ma 3 sono sempre pochissime.
E poi, cosa scegliere? Un sostantivo che identifichi un
qualcosa di concreto (mamma) che contiene immensi
addentellati metafisici, o un sentimento astratto (rabbia) che
poi si declina in virulente azioni fisiche; un aggettivo
(magnifico) che richiama anche la storia del nostro paese, o
un avverbio (malamente) che tratteggia tristemente il nostro
presente.
Genio, genialità o geniale? Vita, vivente o vitale? Mah, intanto
il mio interlocutore mi dona le sue 3 parole e, così facendo,
interrompe il mio lavoro neuronale, mi fa perdere il filo dei
ragionamenti che stavano elaborando la mia personale
combinazione e mi obbliga a tuffarmi nel suo futuro.
Bellezza, libertà, generatività
3 parole che riassumono un progetto di futuro migliore:
bellezza, libertà, generatività.
Non serve scorrere le pagine del vocabolario per capire cosa
significano, ma porle insieme l’una di seguito all’altra a
delineare un cammino di miglioramento, provoca un senso di
smarrimento e di stordimento.
Partiamo dalla bellezza, rappresentata da ciò che suscita
piacere all’essere umano attraverso i suoi 5+1 sensi:
edonismo? No, semplice gusto del bello. Categoria di un
soggettivismo puro che, però, ha sempre guidato l’uomo
anche nelle sue relazioni.
E poi, libertà, quello status in cui ciascuno può agire secondo
il proprio convincimento e le proprie responsabilità nei
confronti degli altri, dei vicini, dei prossimi, senza alcun
vincolo che non sia altrettanto liberamente accettato, catena
di cui si possiede la chiave.
Come non arrivare, dunque, alla generatività: meta naturale
ove, liberi e belli, ci si apre alla moltitudine generativa,
aprendosi all’altro da sé sul piano spaziale e temporale per
relazionarsi e generare prospettive di futuro.
Può sembrare un programma rivoluzionario d’altri tempi,
condito d’insana utopia e vagheggiamenti filosofici,
spiritualismo, umanesimo, altruismo e chissà cos’altro, invece
è solo un semplice cammino attraverso il nostro mondo, per
giungere insieme ad una realtà migliore: ciò che è bello, una
volta riconosciuto e valorizzato, ci permette di vivere
pienamente la nostra libertà responsabile e, in forza di questa,
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attivare quelle sinergie che generano nuove opportunità di
vita, sintesi delle stesse bellezza e libertà originarie, per poi
riavviare il ciclo e permettere all'umanità di continuare ad
essere e progredire.
Follia? No, semplice realtà. Ma è necessario crederci ed
impegnarsi per realizzarla.
Un futuro sostenibile
A questo punto, se mi sono perso nel seguire la tortuosa e
splendida via disegnata dalle 3 parole suggerite dal mio amico
per realizzare un futuro migliore, non ho certo dimenticato che
la richiesta da cui tutto questo ragionamento è scaturito era di
offrire le mie 3 parole. Ma ancora una volta, la testa si rivolge
altrove: futuro migliore, sì, ma sostenibile.
Accipicchia, quali responsabilità coinvolge una simile
caratterizzazione del futuro!
Deve essere qualitativamente migliore del presente e del
passato e, per di più, sostenibile. Secondo quali criteri? Per
quanti anni, secoli, millenni? Per chi?
Dinanzi a quesiti di tale portata, anche un elaboratore
elettronico andrebbe in tilt, figuriamoci la semplice testa di un
altrettanto semplice essere umano, limitato e finito, che
dunque torna cercare, nel suo usuale abbecedario di tutti i
giorni almeno 3 termini che possano aiutarlo a muovere i primi
passi verso un mondo migliore.
Persona, amore, tutto: PAT, semplice ed immediato, forse
infantile, ma tempo fa Qualcuno disse che «[...] se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete
nel regno dei cieli» (Matteo 18,3), e quale futuro migliore e
sostenibile se non il Paradiso?
Provate anche voi, allora, a scegliere 3 parole, solo 3, per
descrivere il vostro futuro migliore e condividetele, con amici,
conoscenti, colleghi: e chissà che non sia da questa piccola
rivoluzione delle parole che possa scaturire una corsa ad un
mondo migliore.
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3 marce in più per essere capaci di andare avanti
Le ricette più moderne proposte dai guru del
management per andare avanti anche nei momenti di
maggior difficoltà prevedono ingredienti al limite del
fantaincredibile: pozioni magiche o formule cabalistiche
che ai più restano oscure e che, in definitiva, non portano
risultati.
Qui si propone, allora, la valorizzazione di 3 semplici
capacità: vision, utilità, gratitudine.
Già proprie di ogni persona, in questa nuova ottica
diventano 3 marce aggiuntive per affrontare anche i
terreni più impervi ed andare avanti, nonostante tutto:
anzi, magari raggiungendo pure insperati obiettivi di
successo.
Andare avanti
Discutendo con un giovane e brillante manager, Stefano
Devecchi Bellini, con il quale condivido interessanti ambiti di
impegno, mi sono ritrovato a confrontarmi sul come affrontare
l’impervia fatica del motivare persone provenienti da disparati
ambiti per “andare avanti”, proseguire, continuare con audacia
e convinzione, e questo proprio perché oggi sembra che non
si possa più “andare avanti”.
L’opinione diffusa è che manchino le condizioni basilari per
proseguire qualsiasi cammino intrapreso e, peggio ancora,
che siano venute meno pure quelle per intraprendere
qualsiasi nuova iniziativa. Lo scoraggiamento è il sentimento
che maggiormente si riscontra, a tutti i livelli e in tutti gli
ambiti, dall’economia alla cultura, dalla politica alla famiglia,
dalla società alla fede.
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Ma il messaggio che qui si intende, invece, veicolare è
opposto: possiamo “andare avanti”, anzi dobbiamo farlo!
3 marce in più
Per far questo, non vi sono formule magiche da preparare e
nemmeno corsi di formazione da frequentare, ma
semplicemente delle capacità già proprie di ogni essere
umano da riscoprire e affinare. Quasi 3 marce in più per la
nostra automobile, per permetterle di affrontare anche gli
impervi terreni di questo critico periodo.
Semplice? Forse no, ma ne vale la pena.
Le 3 capacità da sfoderare sono la vision, l’utilità e la
gratitudine: autentiche armi di formazione di massa!
In prima battuta, la capacità di vision, che si declina nelle
distinte dimensioni del tangibile e dell’intangibile, quindi del
vedere ciò che esiste veramente, qui ed ora, e nell’intravedere
quello che ancora non esiste, nel riuscire ad avere delle
visioni, quasi profetiche, per antipare tempi, gusti, modelli che
la società sarà pronta ad abbracciare in un prossimo futuro.
E applicare tale profezia per l’elaborazione di progetti di
costruzione di un mondo migliore per tutti, quindi per la
realizzazione di quel bene comune auspicato da tutti.
In secondo luogo, l’utilità: la capacità di utilizzare al meglio ciò
che si ha e ciò che si è, risorse materiali e personali, di se
stessi e degli altri, dando prova di saper valutare e valorizzare
beni e persone per trarne ricchezza condivisa. Non
sfruttamento, quindi, ma arricchimento condiviso, per sé, per
le risorse impiegate, per i processi sviluppati, per le altre
persone coinvolte, in maniera solistica, per raggiungere una
piena utilità di sistema. Anche in questo caso, pare ripetitivo,
per potenziare la costruzione di un bene comune che sia
autenticamente “buono” e “di tutti”.
Da ultimo, ma non per questo meno importante, la gratitudine:
l’essere capaci di ringraziare, di “dire grazie” e di “rendere
grazie”, dunque di rapportarsi in maniera anche umile con i
propri simili e con il Creatore (almeno per chi ci crede).
Attitudine questa che ci obbliga a prendere coscienza del fatto
che non siamo onnipotenti e che ogni nostro successo o
insuccesso è il risultato di una operazione complessa ove
molti fattori variabili debbono essere posti a sistema.
Risulta allora fondamentale rispolverare la nostra vecchia
capacità di ringraziare, nei due sensi sopra precisati, come
ricorda anche Papa Francesco dicendo che «Grazie, è una
delle parole chiave della convivenza, permesso, grazie,
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scusa, queste sono le tre parole della convivenza: se si
usano, la famiglia va avanti», anche l’intera famiglia umana!
Essere capaci
Se siamo d’accordo che vision, utilità e gratitudine
costituiscono capacità ineludibili per permettere all’umanità di
“andare avanti”, di avanzare, dobbiamo parimenti riconoscere
l’importanza dell’acquisire la consapevolezza di cosa significhi
“essere capaci”, e poi diffonderla generosamente.
Possiamo saccheggiare i vari vocabolari della lingua italiana
per raccogliere definizioni comunque simili che riportano tutte
alla «attitudine a comprendere e a operare», alla «possibilità
potenziale di compiere una azione», all’«essere in grado di
fare qualcosa»: termini quali attitudine, abilità, idoneità,
competenza, facoltà, perizia, si ripetono ed inseguono ma
necessariamente richiedono di essere completati per divenire
realtà.
Dunque, per andare avanti, dimostriamo di essere capaci di
vedere, utilizzare e ringraziare: un modello di processo niente
affatto innovativo ma sicuramente rinnovativo!
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Passione, vero acceleratore di sviluppo
Dice un saggio contemporaneo che «Senza un sogno non
ti metti in cammino, ma senza la passione non continui il
cammino» (Giorgio Borgonovo) ed io sono convinto che
abbia proprio ragione.
Il sogno può rappresentare la fiamma che accende la
miccia, ma se alla fine non abbiamo predisposto il giusto
quantitativo di esplosivo, il tutto si esaurisce in qualche
scintillio pirotecnico ed un po’ di odore di bruciato che
resta nell’aria.
Vero è che, oggi più che mai, si è perduta la capacità di
sognare e, al contempo, pare che la forza della passione
autentica abbia abbandonato l’essere umano: anzi,
parlare di “passioni” sembra non rientrare più nel set di
esperienze che hanno sempre contraddistinto il cammino
dell’uomo.
Dobbiamo riscoprire il sogno, condividerlo con altri e,
poi, alimentarlo di passione per farlo divenire realtà!
La passione per risvegliare i sogni
Tempo fa, Giorgio Borgonovo, noto knowledge manager,
ebbe a dire che la nostra epoca ha «il problema di gente poco
appassionata e che non sa più sognare», considerazione che
ha subito rafforzato riconoscendo che, secondo le più
moderne scuole di pensiero, «sognare è un bisogno
dell’umanità» e che, dunque, perdendo la capacità di sognare
l’essere umano si sta impoverendo e snaturando.
Purtroppo, l’affermazione disegna una drammatica realtà: le
attuali società si sono spogliate della caratteristica tipicamente
umana di sognare e questo fatto ha determinato la
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conseguente inabilità dovuta alla mancanza dell’energia
propulsiva della passione.
Passione, o passioni, che ben conosce chi è innamorato della
bella dama intravista sul balcone del palazzo e, per lei, è
pronto a battersi in torneo con i più valorosi cavalieri del regno
o, ugualmente, chi è disposto a mettere a repentaglio la testa
pur di partecipare ad una rivoluzione per spodestare il tiranno.
A questo punto appare chiaro che la passione, nel significato
che l’Enciclopedia Treccani pone come residuale, vale a dire
«Inclinazione vivissima, forte interesse, trasporto per qualche
cosa», risulta un fattore chiave per riscoprire la potenza del
sogno o, ancor meglio, per ritrovare nella nostra dotazione di
strumenti per la vita quel momento onirico che spesso ha
rappresentato la molla di imprese ed avventure, di follie e di
grandi gesta.
La passione per elaborare progetti
Ma è immediatamente comprensibile che se la passione si
riducesse a far sorgere sogni, avremmo una generazione di
grandi sognatori, frustrati dal non incontrare l’oggetto del
proprio vagheggiamento, e nulla cambierebbe.
La passione, dunque, deve diventare anche la fiamma capace
di accendere la miccia per far detonare un’esplosione creativa
ove, però, il tritolo sia stato preparato con diligenza e
accuratezza. E per far questo è indispensabile che si recuperi
un metodo progettuale che, prendendo le mosse dal sogno
della notte, venga declinato nelle condizioni della realtà
contingente del mattino per poi realizzarsi con la fatica del
lavoro nel meriggio.
Bisogna sì tornare a sognare, ma poi avere il coraggio di
svegliarsi, prendere il proprio sogno e, con competenza,
formalizzarlo in un progetto che sia condivisibile e, per ciò
stesso, capace di aggregare forze e di creare unità, attivando
energie collettive. E, visto che tutto ciò non è da solo
sufficiente, rimboccarsi le maniche e riversare energie nella
sua realizzazione.
Così facendo la passione diviene vero motore di una
macchina sociale produttrice di bene comune o, più
semplicemente, realizzatrice di un obiettivo condiviso.
Da riconoscere, inoltre, che pure le technicalities necessarie
alla progettazione non servirebbero a nulla se impiegate da
sole in maniera fredda e “senz’anima”: sappiamo bene che i
più avanzati strumenti vengono resi più performanti dalla
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passione, dall’atteggiamento di chi li impiega, dalla forza con
la quale si anela a raggiungere il risultato che ci si è posti.
La passione per cambiare la realtà
Se siamo riusciti a comprendere il processo descritto e, anche
solo in parte, a realizzarlo, a questo punto potrebbero sorgere
le domande: perché fare tutto ciò? Quale vantaggio ne posso
o possiamo trarre? A cosa conduce?
L’unica risposta, semplice ma non semplicista, è: questo è il
mio/nostro contributo per cambiare la realtà e «rendere il
mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato» (Robert
Baden-Powell).
Eccessivamente idealista? Forse. Sognatore? Beh sì,
quantomeno perché nato da un sogno. Utopico? No, anzi
molto pragmatico: alcune cose non funzionano, desideriamo
cambiarle, abbiamo una visione, la condividiamo, ne
disegniamo il modello e cerchiamo di fare quanto possibile
per realizzarlo e andare a modificare la situazione di partenza
per migliorarla.
E, come nelle precedenti fasi, la passione si dimostra motore,
combustibile e volano per il buon funzionamento del sistema
che parte dal sogno e, attraverso il progetto, diviene realtà
migliore per tutti. Passione, dunque, come autentico
acceleratore di sviluppo sociale condiviso, autentica
dimensione quantica della crescita.
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Candele o lampadine, l’importante è sognare!
Una storia d’impresa che, come spesso accade in Italia,
può sembrar quasi una favola: candele colorate e
lampadine magiche che fanno luce su un paese assopito
dall’incantesimo di una strega malvagia.
Si parte dal “c’era una volta...” e si arriva al “...e vissero
tutti felici e contenti”; si susseguono sogni, progetti,
realizzazioni; appaiono “illuminazioni”, fisiche e
metafisiche; e pare quasi di intravedere anche un bel
principe e un saggio mago.
Forse è troppo, ma per rilanciare la competitività del
sistema economico serve anche questo, anche se a volte
basta un sogno!
Le candele di ieri
C’era una volta, in una anonima località della grande pianura
padana, un piccolo artigiano che produceva ottime candele di
cera: aveva ereditato la bottega dal padre, e produceva
candele classiche, bianche, lucide, bellissime; da cucina, da
notte, una volta all’anno anche da messa, per il signor
prevosto.
Era imbattibile nel suo lavoro, e vi metteva tutta la perizia che
aveva maturato negli anni condita dalla grande passione, per
liquefare la cera, colarla negli stampi, scegliere gli stoppini
migliori e raffreddare i suoi prodotti in maniera naturale, senza
fretta.
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Durante l’Avvento, poi, aveva iniziato a colorar di rosso la
cera per dare un tocco di festa alle fiammelle che si sarebbero
accese nelle case dei suoi compaesani per il Natale, e così
facendo anche le candele sembravano partecipare alla gioia
del periodo e il nostro brav’uomo si sentiva in parte artefice
del clima che si veniva a creare d’intorno.
Una sera d’estate, però, dopo aver assistito al meraviglioso
spettacolo delle stelle cadenti dalla piazzetta del paese,
venne assalito da un desiderio strano: le sue candele
avrebbero dovuto “dare di più”!
Non capiva bene cosa ciò volesse dire, ma voleva che le sue
candele esprimessero dei sentimenti, suscitassero emozioni,
facessero vivere un’esperienza. Sicuramente, un obiettivo non
facile da realizzare, ma nel quale si sarebbe cimentato senza
risparmiarsi.
Iniziò a disegnare le forme nelle quali voleva che brillassero le
sue candele: stelle, mezzelune, melacotogne, fiori di campo,
secchielli e scarponi da lavoro; poi, prese a sciogliere nel
pentolone della cera alcuni “ingredienti” rubati dalla cucina e
dall’orto: un po’ di cannella, dello zafferano, qualche foglia di
prezzemolo o menta; e la sua bottega si riempì di molteplici e
variegati oggetti dai mille colori che, accesi, rilasciavano sottili
fumi profumati che accarezzavano i vicini e attiravano i
curiosi.
Le sue candele, dopo un primo comprensibile imbarazzo,
riuscirono a vincere le resistenze dei vecchi clienti, e anche
del parroco del paese, e a far conoscere l’anonimo artigiano
anche nei villaggi più distanti, tant’è che in molti giungevano a
chiedergli produzioni “speciali”: candele a forma di pecorella o
zucca, ceri alla lavanda o allo zenzero, bugie gialle camomilla
per riposare meglio o rosse peperoncino piccante per
risvegliare il desiderio.
Sembrava proprio che il successo stesse arridendo al nostro
piccolo e sconosciuto artigiano, ma lui sentiva che gli
mancava ancora qualcosa, e qualcosa di importante.
Le lampadine di oggi
Una notte, dopo una intensa giornata di lavoro tra fusioni e
colature, pigmenti naturali e stoppini profumati, durante un
sonno ristoratore ma agitato, venne risvegliato da un sogno
impressionante: era all’interno di una camera buia e,
all’improvviso, il soffitto si riempiva di piccole stelle colorate
che, seguendo una dolce melodia di violini, danzavano
inseguendosi, accendendosi, spegnendosi, cambiando di
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forma, dimensione ed intensità. E il fatto più incredibile era
che solo lui dirigeva quella sfavillante coreografia, non con
zolfanelli o innesti, ma pigiando su piccoli bottoni colorati.
Si sentiva al settimo cielo e non ne capiva il perché: neanche
l’organista della chiesa aveva nelle sue mani un simile potere
durante la messa cantata.
Un pensiero gli sorse naturale ed incomprensibile: «Continuo
a fabbricare candele colorate di tutte le forme e di tutti i colori;
ora vorrei almeno immaginare di produrre una lampadina!».
Certo, ma cosa è “una lampadina”?
Noi, oggi, non ci poniamo il problema di come illuminare un
ambiente. Entriamo a casa e, in maniera quasi automatica,
allunghiamo la mano verso l’interruttore per dar luce al nostro
rientro o, nelle soluzioni di domotica avanzata, i punti luce
prendono vita al nostro passaggio, o allo schioccare le dita o
al sentire un particolare comando vocale.
Ma per chi è abituato alla luce naturale del sole e delle stelle,
per chi si è sempre accontentato del fuoco scoppiettante nel
camino o delle fiammelle ballerine di complici candele, non è
facile concepire “una lampadina”.
Questo è il punto di svolta del nostro racconto (chissà se
favola o storia reale): il fabbricante di candele, per quanto
fosse bravo nella sua prima attività, ha sentito il bisogno,
quasi una vocazione, di cambiare e migliorare il suo prodotto
attraverso un processo di ricerca e innovazione continua che
lo ha portato ad una autentica rivoluzione. Percorso
impegnativo, vocazione-innovazione-rivoluzione, che insieme
al sogno-progetto-realizzazione gli ha consentito di “sognare”
la lampadina.
La storia non ci ha tramandato se il nostro fabbricante di
candele sia poi riuscito a passare dal sogno al progetto e,
dunque, alla realizzazione della prima lampadina; sappiamo
solo che, in un pomeriggio di maggio, confidò le sue fantasie
su candele, stelle e lampadine ad uno straniero di passaggio
nel suo borgo, un canadese di nome Henry Woodward, il
quale qualche anno dopo divenne famoso con il brevetto della
lampadina elettrica.
La morale della storia
Come avevo anticipato, comunque, la nostra storia finisce
bene: il piccolo e apprezzato artigiano fece fortuna, le sue
candele vennero apprezzate sino ai confini della provincia e
lui ebbe la possibilità di sposarsi e di metter su famiglia ... e
vissero tutti felici e contenti.
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Ma non riuscì a veder realizzato il suo sogno di accendere un
cielo stellato sul soffitto di casa, non capì mai cosa fosse “una
lampadina” e, possiamo crederci, questo cruccio lo spinse a
fare del suo meglio in ogni attività che intraprese, in bottega,
al mercato, in famiglia, con gli amici.
Come da ogni favola che si rispetti, a questo punto, dobbiamo
anche noi trarre un insegnamento che ci aiuti a migliorare; ma
quale è la morale della storia?
Diventare capaci di innovazione di prodotto e di processo?
Troppo facile.
Fidarsi dei sogni e impegnarsi nel realizzarli? Troppo
idealista.
Senza alcuna pretesa definitoria e con uno stile forse più
semplice, mi sento di suggerire soltanto l’impegno a riscoprire
quella facoltà tutta umana di sognare, di sognare “una
lampadina” anche quando si sono viste solo candele per tutta
la vita, e di fare di tutto per accenderne una e rendere il
mondo un po’ più illuminato.
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Il contesto
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La cultura del naufrago per vincere la crisi
Nel 2010 il Cardinal Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa
Francesco, rilasciava una lunga intervista a due
giornalisti, Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, che
desideravano offrire un ritratto dell’alto prelato. Tra i molti
aspetti affrontati, rilevante è la presentazione della
“cultura del naufrago” quale stile per vivere in maniera
vincente la sfida della crisi: semplice, chiara, esaustiva e
immediatamente comprensibile da tutti.
Mi permetto di usare ora i pensieri di Padre Bergoglio
declinandoli in una proposta di strategia per aiutare gli
imprenditori italiani in questo momento di grave difficoltà
per arrivare ad «accettare il passato, anche se non sta più
a galla» e «utilizzare gli strumenti che offre il presente per
affrontare il futuro».
Il naufragio
La situazione che si è venuta a formalizzare dal 2007 a oggi,
con l’avanzata e il radicamento della crisi in ogni paese e
settore, può facilmente essere paragonata a un naufragio di
romanzesca memoria: un disastro, di cui noi poveri
passeggeri siamo il più delle volte vittime incolpevoli e
inconsapevoli; una situazione che precipita e che, dalla
serenità della sala da ballo, ci sbatte su una scialuppa in
preda alla furia degli elementi; soli, senza riferimenti, senza
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alcun aiuto, se non noi stessi e il buon Dio, di cui con molta
probabilità inizieremo a dubitare.
Magari abbiamo indossato il giubbotto salvagente più per
rispondere all’istinto di sopravvivenza che per ossequio alle
norme di sicurezza, magari abbiamo visto sparire tra le onde il
nostro vicino di cabina, magari siamo rimasti abbracciati al
legno ad occhi chiusi per non guardare l’inabissarsi della
nostra nave e non immaginare il peggio.
Quale peggio? Che noi siamo ancora vivi, con qualche
straccio indosso, il nulla intorno, e una voglia matta di
piangere. E ditemi se questa situazione non rispecchia quella
che vivono molti nostri imprenditori, a prescindere dalle loro
dimensioni, in questi tempi di radicale sofferenza
dell’economia.
L’isola del naufrago
Ma nelle migliori tradizioni, il naufrago si risveglia dopo un
certo tempo su una bianca spiaggia, coperto di salsedine e
alghe, in mezzo ai detriti più variegati.
In questo momento, allora, egli deve dare fondo a tutto il
patrimonio proprio di quella che molti, e tra questi l’allora
Cardinal Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa Francesco,
chiamano “cultura del naufrago” e che dall’arcivescovo di
Buenos Aires veniva sintetizzata efficacemente con queste
parole: «Il naufrago affronta la sfida della sopravvivenza con
creatività. O aspetta che vengano a salvarlo, o comincia a
salvarsi da solo. Nell’isola dove giunge deve cominciare a
costruirsi una capanna utilizzando le assi della barca
affondata, insieme a nuovi elementi trovati sul luogo. La sfida
di accettare il passato, anche se non sta più a galla, è
utilizzare gli strumenti che offre il presente per affrontare il
futuro».
Ancora una volta, non tanto una metafora, ma quasi una vera
e propria fotografia delle circostanze in cui si trovano coloro i
quali sopraffatti dalla crisi cercano, in tutti i modi, di resistervi
e di reagire per garantire un futuro a sé, alla propria attività e,
nei casi più virtuosi, ai propri dipendenti.
Raccogliere ciò che il passato ci ha distrutto e farne tesoro,
non feticcio; elaborare nuovi stili di vita e di lavoro che
permettano di governare la realtà in modo diverso, perché
diverso è il mondo in cui ci si trova, è un mondo nuovo; fare in
modo di rendere l’ambiente non solo meno ostile, ma
autenticamente “migliore” e pienamente “nostro”!
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Non è detto che arrivino a salvarci
Siamo di fronte, novelli Robinson Crusoe, a una vera sfida
che può condurci alla morte (propria o figurata, personale o
aziendale) o ad una resurrezione piena, nuova primavera
economica e umana, foriera di opportunità di cui far
beneficiare anche la nostra comunità di riferimento.
Unici protagonisti di un percorso di conversione di cui
dobbiamo essere, o diventare, consapevoli anche perché non
è detto che arrivino a salvarci, anzi, visto come vanno le cose,
gli aiuti potrebbero non arrivare!
Dunque, forza e coraggio: rimboccarsi le maniche e iniziare a
spaccar legna per costruire un mondo migliore. Anche su
un’isola deserta, in attesa di incontrare il nostro Venerdì!
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La cultura del naufrago, parte II: collaborazione vs
competizione
Da un naufragio possiamo trarre insegnamenti per
elaborare comportamenti utili ad affrontare al meglio le
difficoltà.
Ma in questo momento di crisi generale e continuativa in
cui i “naufraghi” sono molti, per non dire tutti, e ci si è
resi conto che l’isola in cui ci troviamo è la sola risorsa a
nostra disposizione, siamo obbligati a porre in essere
delle virtuose strategie di collaborazione per
sopravvivere e resistere.
La competizione da condurre non è quella gli uni contro
gli altri bensì quella verso il sistema!
Quando a naufragare siamo in molti
Se è vero come ha detto il Cardinal Jorge Mario Bergoglio,
oggi Papa Francesco, che «Il naufrago affronta la sfida della
sopravvivenza con creatività. O aspetta che vengano a
salvarlo, o comincia a salvarsi da solo», forse è altrettanto
vero che quando a naufragare sono in molti, le variabili che si
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propongono diventano più complesse da gestire e da
descrivere.
Ci si rende subito conto di non essere più “sulla stessa barca”,
in balia del mare, bensì “sulla stessa isola”, in balia degli
elementi e, al contempo, gli uni degli altri: con caratteri,
desideri, paure differenti e magari inconciliabili.
L’isola, invece, è la stessa, grande o piccola che sia e in
questo contesto è necessario elaborare da subito delle
modalità di convivenza che siano efficaci ed efficienti,
sostenibili e compatibili perché solo in questo modo sarà
possibile la sopravvivenza di tutti.
Nell’animo umano, in particolar modo quando sottoposto a
sollecitazioni da forte stress, si ingenerano sicuramente
pulsioni irrazionali ed egoistiche tese alla propria
conservazione che non permettono di esaminare con lucidità
le reali opportunità esistenti, ma durante un naufragio, così
come durante un periodo di crisi, di cui non si conoscono
tempi e modi di sviluppo, sarebbe folle e autolesionista non
avviare logiche collaborative tra i superstiti per cercare di
“vivere meglio e vivere tutti”.
Il contesto imprevedibile
Nel nuovo contesto, l’isola o la crisi, le difficoltà sono
numerose e non prevedibili, le risorse scarse o difficilmente
fruibili, il sentiment che prevale è lo scoramento generalizzato:
facile dunque abbattersi, in tutti i sensi.
A maggior ragione, allora, diviene indispensabile una
intelligente collaborazione finalizzata a garantire la
sopravvivenza di tutta la comunità.
La scelta di una competizione conflittuale tra fazioni, difatti,
porterebbe solo alla distruzione di risorse, di vario genere,
fondamentali al mantenimento e, comunque, non è detto che
garantirebbe una migliore e più duratura esistenza della parte
che ne uscisse vincitrice.
Facendo riferimento alla teoria dei giochi, potremmo dire che
naufragio e crisi realizzano scenari a somma variabile ove
diviene necessario individuare soluzioni win-win per
suddividere in maniera equa tra tutti i players l’unico premio a
disposizione.
In caso contrario, la soprafazione di alcuni o la vittoria di pochi
sugli altri molti sarebbe parziale, non sostenibile e a termine:
affermazione sicuramente forte e di difficile modellizzazione
ma che l’esperienza attuale sta dimostrando nelle economie
occidentali in preda alla crisi.
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Meglio collaborare
A questo punto, traendo spunto da quanto Claude-Adrien
Helvétius sosteneva già nel XVIII secolo, «Spesso la ragione
non rischiara che i naufragi», la sola opzione ragionevole per
massimizzare il risultato utile e renderlo fruibile dal maggior
numero di soggetti è la condotta collaborativa o cooperativa
che permette a tutti di sopravvivere, di farlo al meglio e per
maggior tempo.
Anche perché, sull’isola del naufragio come nell’attuale
situazione, è improbabile che arrivi qualcuno a salvarci.
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Scenari globali per un mondo in cambiamento
Senza sfera magica è difficile prevedere gIi scenari
globali che si potranno delineare nei prossimi anni ma
visto che, come diceva Jet Bartlet, «Gli economisti sono
stati messi su questa terra per far fare bella figura agli
astrologi», posso azzardare quantomeno delle
prospettive per elaborare strategie di medio e lungo
periodo per aziende che intendano affrontare le sfide di
questo pazzo mondo.
Italia e Europa
Indubbiamente, la crisi economico-finanziaria degli ultimi anni
sta lasciando strascichi di lacrime e sangue in tutti i paesi
europei e pure l’Italia, nonostante il suo “provincialismo”
finanziario, continua a risentirne gli effetti.
Se alcuni analisti indicano nella fine del 2014 l’uscita dalla
stagnazione, è opinione diffusa tra molti esperti che il quadro
che si presenterà per il Vecchio Continente non sarà più,
comunque, paragonabile alla situazione pre-crisi.
I colpi inferti al sistema produttivo, il rallentamento degli
investimenti in ricerca e sviluppo, la contrazione di alcuni
consumi, la trasformazione radicale del welfare in molti paesi,
hanno cambiato radicalmente il volto dell’Europa e la capacità
economica degli europei e le conseguenze si manifesteranno
pienamente nei prossimi dieci anni.
I mercati italiano ed europeo resteranno di sicuro interesse
almeno sino al 2020 ma più per l’acquisizione di quel know-
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how di cui sono ancora detentori i centri di eccellenza
piuttosto che come destinatari di forniture per la produzione.
In questo quadro, il ruolo dell’Italia dovrebbe permanere, nello
stesso periodo, abbastanza inalterato grazie ad alcune
nicchie ben presidiate, nonostante i gravi freni dovuti
all’instabilità istituzionale da gestire e con cui fare i conti.
Italia e Cina
Diverso discorso vale per il gigante cinese: già ora in fase
esplosiva, rimasto abbastanza impermeabile ai contraccolpi
dei crack degli ultimi anni, capace di penetrare attraverso
canali formali e informali nelle economie di tutto il mondo,
rappresenterà a partire dal 2015 il vero e nuovo centro
economico del pianeta da tutti i punti di vista.
Leader nei consumi e nelle produzioni di tutto, nel decennio
2020-2030 dovrà elaborare nuove modalità di gestione
dell’economia interna ed internazionale e avrà la capacità di
imporne l’adozione al resto del mondo.
L’Italia in questo momento è in una felice posizione di
partenariato con la Cina e deve potenziare il suo ruolo
facendo leva sui talenti umani, culturali, scientifici e
imprenditoriali che riesce ancora ad esprimere per garantirsi
una posizione di primazia in futuro.
Il valore della partita è di enorme interesse.
Italia e Africa sub-sahariana
Totalmente da costruire è lo scenario che potrebbe aprirsi
dopo il 2025 in particolare nei paesi dell’Africa sub-sahariana.
Là dove le antiche carte di navigazione indicavano “Hic sunt
leones”, ora si ingaggiano confronti commerciali di enorme
rilevanza per l’approvvigionamento di materie prime: la Cina è
il primo player in tutti i settori, i paesi dell’Unione Europea e gli
USA faticano a starle dietro, il Brasile, l’India e la Russia
fanno la loro parte e si stanno creando interessantissime
relazioni bilaterali.
Ma nei prossimi anni questa regione diverrà ancora più
importante dal momento che, accanto alla capacità di rifornire
di materie prime fondamentali per garantire il mantenimento
delle produzioni mondiali, avrà sviluppato enormi mercati di
consumo degli stessi prodotti.
L’Italia non è stata in grado di valorizzare la sua posizione nel
Mar Mediterraneo quale ponte tra Europa e Africa e rischia di
perdere la possibilità di fungere da base naturale per i futuri
rapporti.
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Da valutare le potenzialità in questo senso per elaborare
progetti di investimento attraverso triangolazioni America
latina-Unione Europea-Africa sub-sahariana, in cui l’Italia trovi
un ruolo da protagonista.
Per chiudere, citando un proverbio brasiliano secondo cui
«Nessuno può credere al futuro se non crede al presente»
posso solo invitare tutti gli operatori a fare del proprio meglio
per essere pronti a servire i propri sogni oggi per poterli
trasformare in progetti domani e portarli a realizzazione
quanto prima. Il futuro si costruisce da oggi!
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“Civette” & “mattoni”: immagini di ordinaria
globalizzazione
Globalizzazione, fenomeno del XXI secolo? In effetti, già
nel V secolo, il prefetto romano Rutilio Namaziano lodava
così l’opera condotta dall’impero «Urbem fecisti, quod
prius orbis erat», vale a dire «Dove prima c’era il mondo
intero, ora c’è una città», anticipando di almeno quindici
secoli il concetto di “villaggio globale” a cui oggi siamo
abituati.
E allora, se da più parti sentiamo parlare in toni
entusiastici di “civette” e “mattoni” (o secondo
l’acronimo inglese, CIVETS e BRICS), o in maniera
denigratoria di “maiali” (PIIGS) e, forse tra qualche
tempo, conosceremo i fratelli SAM, ci riferiamo sempre a
paesi, vicini o lontani, dai quali inevitabilmente
dipendiamo e dipenderemo sempre di più. Proprio come
in un romantico borgo d’altri tempi.
Civette & mattoni
Nel 2001, un documento della banca d’affari Goldman Sachs
indicava Brasile, Russia, India e Cina come quelle economie
che avrebbero dominato la scena mondiale in apertura del
nuovo secolo. Per indicarli, si scelse la sigla BRIC e, poco
tempo dopo, si aggiunse ai primi quattro anche il Sud Africa,
autentico miracolo sociale ed economico del continente
africano.
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Nessuno però poteva prevedere il rapido evolversi del
sistema di rapporti globali e bastò arrivare al 2009, per vedere
i “mattoni” (i BRICS) iniziare a sgretolarsi sotto
apparentemente innocue “civette”: fu Robert Ward,
dell’Economist Intelligence Unit, ad indicare quali neo-
emergenti protagonisti dello sviluppo planetario Colombia,
Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e, ancora, Sud Africa,
coniando l’acronimo CIVETS.
ABC & maiali
Se le sigle coniate dagli analisti possono contribuire a
strappare un sorriso, dobbiamo ugualmente riconoscere che
altre volte non brillano per originalità o correttezza. Ed ecco
allora che i tre giganti del continente latino americano da
sempre, o almeno dal 1914, sono accomunati dall’ABC
(Argentina, Brasile e Cile), mentre con “maiali”, PIGS o PIIGS,
ci si riferisce in maniera per nulla simpatica a quei paesi
dell’eurozona in difetto con gli obblighi di pareggio finanziario
imposti dal Trattato di Maastricht e seguenti, quindi Portogallo,
Italia, Irlanda, Grecia e Spagna.
Ma al di là delle colpe di ciascuno, l’immagine evocata è di
certo poco felice.
I francobolli dei fratelli SAM
Ma ritengo che sia condiviso da tutti, economisti esperti e
comuni uomini della strada, che il panorama che ci si apre
dinanzi risulti non solo in continuo e progressivo mutamento
ma totalmente imprevedibile e, spesso, in schizofrenica
disvoluzione (neologismo che intende fondere evoluzione,
involuzione e rivoluzione).
Ecco allora che a me piace proporre ulteriori immagini che
possono evocare percorsi da esplorare per l’avvio di relazioni
commerciali virtuose in ottica win-win per imprese guidate da
uomini e donne di mente e cuore aperti.
La prima è quella dei “francobolli”, di cui molti possiedono una
improbabile collezione: gli STIMPS, Sud Corea, Turchia,
Indonesia, Messico, Filippine (in inglese, Philippines) e
l’immancabile Sud Africa, rappresentano oggi partners più che
interessanti per avviare alleanze innovative per processi di
R&S, produzione e commercializzazione, per grandi, medie
ma pure piccole aziende desiderose di affrontare in maniera
intelligente le sfide della globalizzazione.
La seconda, e forse più ardita, propone invece i “fratelli SAM”,
attualizzazione del mito classico dei gemelli (Caino e Abele,
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Romolo e Remo) che, ci auguriamo, non si concluda nel
sangue. Con SAM SAM si vogliono rappresentare due aree
geografiche ricchissime che possono offrire proficue
opportunità di cooperazione e sviluppo: nella regione del Nord
Africa, Senegal, Algeria, Marocco, in Africa meridionale,
invece, Sud Africa, Angola, Mozambico.
I latini indicavano con un omnicomprensivo “hic sunt leones”
l’intero continente nero e, purtroppo, questo ingenera ancora
oggi timore e titubanza. La situazione reale, però, dovrebbe
scuoterci da simili ataviche paure e portarci a riscoprire il
gusto di percorrere nuove strade nella consapevolezza che,
se non saremo noi a batterle, altri lo faranno al nostro posto, e
qualcuno è già in cammino!
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Europa, cortile di casa: coltiviamolo!
In Europa, lo scorso 1° luglio abbiamo festeggiato
accogliendo il 28° Stato membro deIl’Unione, la Croazia, e
noi tutti euroentusiasti ne siamo stati felici e soddisfatti.
Pochi giorni dopo, invece, a Londra la Camera dei
Comuni ha approvato la proposta di legge per lo
svolgimento del referendum popolare sull’uscita dall’UE.
E anche in questo caso, i convinti sostenitori della casa
comune europea hanno detto: «Era ora!».
L’Europa è ormai il nostro cortile di casa, spetta a noi
custodirlo e curarlo, invitarci gli amici per il barbecue o
scacciarne fastidiosi visitatori inopportuni.
Europa a 28
Oggi il continente europeo sta vivendo la sua crisi di mezza
età: sì, non possiamo accontentarci di additare la congiuntura
internazionale quale unica causa del malessere che sta
scuotendo anche le storiche economie di Francia, Germania e
Italia; e sarebbe colpevole anche nasconderci dietro
malesseri dovuti alla mancata tenuta dell’Euro sui mercati
globali, al continuo e crescente attacco della Cina, all’attuale
disamoramento per il progetto europeo.
L’Unione Europea è riuscita a realizzare molti e impegnativi
progetti ma paga i suoi anni. Se consideriamo che Robert
Schuman tenne il suo storico discorso nel maggio del 1950 e
lì ebbe a riconoscere quasi profeticamente che «L’Europe ne
se fera pas d’un coup, ni dans une construction d’ensemble:
87
elle se fera par des réalisations concrètes, créant d’abord une
solidarité de fait […]», allora dobbiamo convenire nella
grandiosità dell’impresa.
Dai 6 Paesi che si associarono nel 1951 nella Comunità
Europea del Carbone e dell’Acciaio, la CECA, ai 28 che oggi
condividono le sorti dell’Unione, si è percorsa una strada
lunga e a volte impervia, ma costellata di grandi risultati:
l’affermarsi del mercato unico con le libertà di circolazione di
merci, servizi, capitali e persone, l’armonizzazione delle
normative nazionali in delicati temi sensibili quali le imprese
(la PMI europea ne è un felice se pur discusso esempio) o le
emissioni atmosferiche, la creazione della moneta comune,
l’Euro, idolo e demone degli europeisti.
Le “realizzazioni concrete” cui faceva riferimento Schuman si
sono succedute, ora però è indispensabile un ulteriore sforzo
comune per crescere nell’unica direzione possibile: dar vita ad
una vera unione politica! L’alternativa è il progressivo e lento
svuotamento di senso del sistema sino alla sua morte per
atrofia.
Europa a 50
Di questa situazione sono sintomatici gli avvenimenti delle
ultime settimane: da una parte, festeggiamenti in clima di
condivisa austerità per l’ingresso della Croazia, dall’altra
applausi e brindisi oltremanica per il sostegno alla proposta di
referendum britannico per l’uscita dall’Unione Europea da
celebrarsi entro il 2017.
Due atteggiamenti apparentemente antitetici ma che
promanano da un medesimo spirito: l’amore-odio per questa
Europa!
Cortile di casa in cui possiamo coltivare le rose, giocare a
palla con gli amici e organizzare rinfreschi in primavera ma,
allo stesso tempo, dove bisogna prestare attenzione ai
parassiti, ai bambini dispettosi e prepotenti o agli intrusi
inopportuni.
Ecco allora che se durante le prime decadi di storia, l’Europa
istituzionale ha visto un continuo arricchimento in contenuti e
riflessioni, in capacità produttiva ed espansiva, in modelli e
progetti da proporre al mondo, a partire dai primi anni 2000,
sta vivendo una fase di sterile autocentramento che rischia di
condurre alla distruzione.
Non corretto pensare a ulteriori adesioni: se il continente
europeo, geograficamente inteso, conta 50 Stati, l’attuale UE
a 28 ha già raggiunto la sua massima capacità sostenibile.
88
Urgono riforme fondanti, direi “costituzionali” se l’uso di
questo aggettivo non ingenerasse diatribe tra giuristi e politici.
A noi, comunque, spetta di salvaguardare il patrimonio che
l’Europa formalizzata dai Trattati, da Roma a Lisbona, e dai
500milioni di europei, da Bruxelles a Stoccolma, da Madrid ad
Atene, hanno contribuito a rendere vivo e vero.
Europa e poi
Ma oltre le colonne d’Ercole, al di là degli Urali, cosa si
prospetta per noi?
Certo è che il mondo ci guarda, e con attenzione: come terra
di conquista alcuni, come compagni di viaggio altri, con
diffidenza e timore alcuni, con simpatia e spirito di complicità
altri.
Il nord America non ci considera e fa di tutto per minare il
nostro progetto cercando di incrinare i rapporti tra i partner
(Regno Unito, Polonia e Turchia solo per fare alcuni esempi);
l’America latina desidera ritrovare in noi quei fratelli maggiori
con cui affrontare le sfide del XXI secolo in chiave nuova e in
comunità di intenti; l’Africa nera vorrebbe avviare alleanze
strategiche che superassero finalmente le logiche post-
coloniali, pur conservando un forte complesso di inferiorità e
diffidando di noi; l’Africa bianca si considera Europa, pur nelle
alterne vicende delle sue recenti primavere; i Paesi arabi
sperano di poterci mantenere come clienti per il petrolio e
fornitori per i beni di lusso e, con questa azione, rafforzano la
strategia di indebolimento condotta dagli Stati Uniti; la Cina
punta a “conquistare” le singole piazze europee con una
semplice e capillare penetrazione virale (o cinesizzazione);
altri attori asiatici, invece, cercano in ordine sparso di creare
partenariati bilaterali con Paesi europei o con l’Unione nel suo
insieme, sempre comunque conservando uno sguardo
rispettoso ad oriente per non provocare l’ira del “grande”
vicino.
A noi urge rispondere, in maniera adeguata e innovativa, agli
stimoli di questo tempo: l’Europa, gli europei devono riscoprire
la loro vocazione alle sperimentazioni politiche ed istituzionali,
oltre che economiche, per rilanciare il progetto profetico di cui
siamo parte e portarlo al suo unico compimento possibile,
l’autentica Unione politica!
89
90
PC16: nuove piazze per il dopo-Cina
Negli ultimi 30 anni la Cina ha rappresentato il campione
di crescita economica, ma la sua ascesa volge ormai al
termine e il think tank statunitense Stratfor, istituto di
ricerca fondato da George Friedman, ha appena
pubblicato uno studio comparato in cui indica i criteri che
le aziende manifatturiere a livello mondiale stanno
seguendo e prova a disegnare la mappa delle loro
prossime tendenze migratorie: i PC16 sono i 16 paesi
candidati a succedere alla Cina quali basi della
produzione globale.
La fine della Cina
A partire dagli anni ‘80, la Cina ha rappresentato la metafora
della crescita economica: grande disponibilità di manodopera
a bassi salari, interesse ad attrarre investimenti esteri,
sviluppo caotico e disordinato nonostante un sistema di
governance molto centralizzato. Su queste basi, l’istituto
americano di ricerca economica Stratfor ha condiviso un suo
studio sulla fine del boom cinese e l’apertura alla successione
quali nuove basi dell’industria manifatturiera a livello
mondiale, «The PC16: Identifying China’s Successors», che si
propone di identificare i 16 paesi candidati a succedere al
post-Cina.
Nello studio del noto economista Friedman si sottolinea da
subito che la Cina continuerà forse a prosperare ma oggi ci
sono ben altre nazioni che offrono forza lavoro a costi più
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Pillole di Management di Strada

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  • 3. Pillole di Management di Strada - per chi crede in un mondo migliore - Davide Caocci  prefazione di Maurizio Testa 3
  • 4. Gli articoli qui raccolti sono il frutto della mia elaborazione originale per il blog aziendale di TEAMFORCE, azienda innovativa e un po’ “folle” con cui collaboro; tranne uno, richiesto da Cesare. Ringrazio, dunque, TEAMFORCE, Cesare Pastore e Maurizio Testa che mi hanno offerto la possibilità di condividere con loro questa impresa; ringrazio Giorgio Borgonovo che, con simpatia, pazienza e competenza, mi ha “iniziato” alle arti digitali; ringrazio Guido Bongo che ha ispirato alcune delle riflessioni; ringrazio Antonio D’Ovidio che mi ha convinto a pubblicarle; ringrazio Antonio Pucacco, fratello di strada da molti anni, che le ha lette col cuore e meditate “coi piedi”; ringrazio Gabriele Avellis, compagno di sempre, che mi ha dato un po’ di “colore”. Sarò lieto di dialogare con chiunque vorrà presentarmi domande, dubbi, perplessità, angosce o semplici osservazioni. Potrete contattarmi a questo indirizzo: davide.caocci@libero.it. GRAZIE a tutti! III edizione riveduta, corretta e ampliata 2014 © Davide Caocci - Tutti i diritti riservati 4
  • 5. A tutti i fratelli incontrati sulla strada, alla strada percorsa insieme, a quella ancora da percorrere! 5
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  • 7. Prefazione Che il mondo moderno stia diventando sempre più complesso non è certo una novità. È sempre verde la battuta che ci ricorda che “il futuro non è più quello di una volta”. Noi italiani in particolare ne viviamo e ne soffriamo le conseguenze più che in altre nazioni, avendo volenti o nolenti imboccato il viale che sta portando ad un profondo cambiamento per la nostra società. Cambiamento: problema o opportunità. Una visione problematica evidenzia quanto i segnali di degrado politico, economico e sociale nel nostro paese portino a ridurre nella gente la speranza nel futuro, in una prospettiva di implosione che a molti sembra ormai ineluttabile, così le piazze iniziano a riempirsi di folle sempre più urlanti, mentre i nostri giovani laureati riprendono la via della emigrazione anticamente percorsa dai nostri avi contadini. Cambiamento: problema o opportunità. Se indossiamo con coraggio gli occhiali della “opportunità”, tra le pieghe della storia e degli avvenimenti pur problematici, intravediamo una gamma di futuri, plausibili e auspicabili, che proiettano la concretizzazione di una società diversa, globalizzata ma ancorata sul locale, centrata sull’uomo, dove l’essere piuttosto che l’avere spinge allo scambio di prodotti e servizi caratterizzati da quei beni relazionali che consentono rapporti nuovi e più veri tra gli uomini, unica condizione per vero “ben- essere” e felicità. E la nostra nazione. Culla di un popolo empatico e brillante, ricco di storia, cultura, stili di vita invidiati da tutto il mondo, se riletta in questa ottica, sembra improvvisamente capace di rigenerarsi e diventare una fabbrica di ben-essere e accoglienza a favore dei popoli di tutto il mondo. Insomma “Problema o Opportunità”? In funzione degli occhi con cui oggi guardiamo il mondo alieniamo o costruiamo prospettive di sviluppo futuro per le nuove generazioni. 7
  • 8. Certamente le chance di sviluppo sono vincolate ad una nuova concezione dell’uomo, al cambiamento delle relazioni tra gli individui e i popoli, in un contesto di necessaria sostenibilità complessiva. Perché questa modalità di sviluppo si possa concretizzare dobbiamo sperare che persone e organizzazioni che condividono questa prospettiva si incontrino e possano imparare a collaborare per generare “mondo nuovo”. In fondo è proprio quello che è successo nel mio incontro con Davide Caocci, che ha dimostrato una volta in più il motto che “i simili finiscono sempre per attrarsi”. Una simpatica sequenza di avvenimenti e coincidenze portarono il mio caro amico Cesare Pastore ad invitarmi a prendere un caffè con Davide in un tiepido pomeriggio di inizio Primavera del 2011. Da quel primo incontro, sorge la consapevolezza di condividere lo stesso desiderio di futuro, scintilla che ha portato poi ad una collaborazione in Teamforce, a una conoscenza sempre più profonda e a un’amicizia corroborata da intrepide esperienze vissute insieme. Dal 2013, Davide ha poi iniziato ad animare il blog di Teamforce [blog.teamforce.it], con i suoi scritti sempre più intriganti, ricavando un notevole seguito e interesse. Da qui l’idea di mettere insieme questi pensieri e pubblicarli in una raccolta più organica e integrata per offrire la possibilità ad un pubblico sempre più vasto di confrontarsi con una persona come Davide, capace di punti di vista e di interpretazioni originali di un mondo in cambiamento. Uomo colto, giurista, bravo scrittore, ben preparato da un lungo background sulle politiche di sviluppo internazionale, conosce il mondo del nord ma ha una particolare familiarità con il sud e di come esso stia prendendo piano piano uno spazio di rilievo nell’arena economica mondiale. Gli scritti di Davide ci parlano della sua visione del mondo ma sono anche rappresentativi della sua personalità e della sua storia personale. L’anima scout e in generale una prospettiva aperta alla collaborazione e all’associazionismo, gli consentono di manifestarsi come uomo aperto, sensibile, 8
  • 9. attento a chi gli sta di fronte e accogliente verso la ricchezza delle diversità che caratterizzano la nostra sempre più poliedrica società. Davide ci fa navigare tra i temi della nuova globalizzazione, del management, della gestione del credito, dei nuovi paradigmi del marketing, dando prova di una innata capacità di visione olistica e sistemica dei fenomeni. Auguro a tutti i lettori di accogliere questa raccolta con anima e mente aperte, in una prospettiva gioiosa e giocosa che ben rappresenta il carattere solare e familiare dell’autore, caratteristiche che descrivono una persona “bella”, apprezzata e cara a tutti coloro che hanno la fortuna di vivere con lui brani di vita di mondo nuovo. Maurizio Testa .r 9
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  • 11. Due parole di necessaria introduzione, ma proprio due Queste Pillole di Management di Strada rappresentano il tentativo di declinare per un pubblico attento, e non necessariamente esperto, esperienze vissute e pensieri maturati in anni di lavoro accanto agli imprenditori e dentro le aziende: proprio “sulla strada”! Tutto quello che viene descritto è entrato dai piedi, è stato digerito a livello di pancia, ha attraversato il cuore ed è poi giunto alla testa per trasformarsi dunque in comandi alle mani per operare e, infine, tornare alle gambe per muoversi. Alla luce della nostra esperienza italiana, unica e irripetibile, irriducibile a formule alchemiche di sorta, con queste pagine provo a formalizzare suggerimenti e riflessioni utili da applicare al mondo dell’impresa, agli affari, al lavoro dei “grandi”, e far così del mio meglio per “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato” (B.-P.): buona strada a tutti, e buona lettura! Davide Caocci 11
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  • 15. SCR – Scoperta, Competenza, Responsabilità: 3 “semplici” passi per un mondo migliore Il mondo è cambiato, non ci sono dubbi su questo! E in tale contesto, anche l’imprenditore che desidera raggiungere l’autentico successo deve modificare il suo atteggiamento nei confronti della realtà in cui opera: basta con la concorrenza aggressiva, basta con lo spirito di conquista distruttiva, basta con il “prendi i soldi e scappa”! Lo stesso concetto di successo è evoluto e non si misura più nel numero di copertine patinate di Fortune che il manager conquista, o nelle Lamborghini schierate nel box. La conquista della vera felicità Per “successo”, voglio proporre la definizione di un grande uomo, Robert Baden-Powell (1857-1941), che già all’inizio del ‘900 riteneva che «L’unico vero successo è la felicità» per poi subito specificare che «Il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri». Dunque, nessun narcisismo edonistico né vuoto materialismo, ma un’apertura proattiva al mondo e alle persone che abbiamo intorno, colleghi, dipendenti, superiori, o familiari, vicini di casa, concittadini. Ma per far questo, è necessario darsi una mossa! Dobbiamo responsabilmente muoverci! 15
  • 16. La strada da percorrere Se accettiamo la responsabilità che tutti abbiamo nel contribuire al nostro successo con il realizzare le condizioni di felicità per noi stessi e la nostra comunità di riferimento (la famiglia, l’impresa, il villaggio, il Paese, il mondo), dobbiamo allora accettare di applicare un nuovo stile, delle nuove technicalities o, per essere più sinceri, dei vecchi strumenti ma con rinnovate modalità. Partendo da queste, vorrei suggerire la riscoperta del sempre valido collegamento 3H (Head, Heart, Hands) o, all’italiana, TCM (Testa, Cuore, Mani), che già il filosofo svizzero Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827) proponeva in questo modo: «Solo ciò che colpisce l’uomo nella forza comune della natura umana, cioè nel cuore, nello spirito e nella mano, è per esso veramente, realmente e naturalmente formativo». Non abbiamo, quindi, nulla da inventare: ci serve solo riscoprire il grande patrimonio che è da tempo in nostro possesso! E, con questo, percorrere il proficuo cammino della SCR – Scoperta, Competenza, Responsabilità, a 360°. Scoperta del nuovo mondo che si è profilato intorno a noi e in cui, spesso, ci muoviamo come alieni incapaci di interagire efficacemente. Competenza da acquisire per renderci abili a crescere e far crescere in maniera sostenibile tutto ciò che incontriamo, noi per primi. Responsabilità verso sé e la propria comunità, verso il medio ambiente e le generazioni future, verso il passato che ci portiamo addosso e il futuro che andremo a costruire. Verso un mondo migliore Se saremo in grado di operare in questo modo, allora avremo dato il nostro contributo a far sì che questo mondo nuovo sia anche almeno un po’ migliore di quello che abbiamo trovato al nostro arrivo su questa Terra. E in questo modo avremo fatto veramente del nostro meglio per offrire a noi e agli altri quella felicità che rappresenta il vero successo della vita! 16
  • 17. 4 dimensioni per una scoperta Non serve chiamarsi Cristoforo Colombo per gettarsi alla “scoperta” di qualcosa di nuovo, anzi proprio oggi, nel contesto mutevole in cui ci troviamo, appare sempre più necessario essere pronti a esplorare vie sconosciute per cogliere le opportunità del mondo nuovo. Abbiamo a disposizione ben 4 dimensioni da percorrere e attraversare: quella che ci porta dentro di noi, quella che abbraccia gli altri, quella che ci fa elevare e quella, limitata ma potentissima, del tempo. A noi sfruttarle al meglio! Il significato Se il vocabolario della lingua italiana indica tra i primi significati di “scoperta” ciò che viene reso visibile e manifesto, io preferisco quello ulteriore per cui si ha una acquisizione alla conoscenza e all’esperienza umana di nozioni, fatti, oggetti, luoghi prima ignoti, e rischiando di scivolare nel poetico aggiungerei quasi “ciò che prima per qualche motivo non si vedeva o che comunque si presenta alla vista come un’apparizione nuova” (cfr. Treccani.it). Con ciò compiendo anche una scelta consapevole sull’impegno che si deve profondere da parte dello scopritore per perfezionare l’atto e giungere all’autentica e piena scoperta. Non siamo quindi dinanzi a un fatto casuale: non è un rinvenimento fortuito bensì una ricerca scientemente condotta al fine di un desiderato accrescimento del proprio patrimonio, 17
  • 18. beninteso composto da tutti quei beni intangibles che rappresentano la vera ricchezza della persona. Le dimensioni Affinché una simile attività sia fruttifera, però, è necessario muoversi in terreni ancora inesplorati, su piani nuovi, attraversando dimensioni non intercettate dalla geometria classica. Propongo allora in questa sede una sorta di itinerario attraverso le 4 dimensioni in cui ritengo si possa vivere appieno l’esperienza della scoperta. La rappresentazione cartesiana è da considerare una semplificazione che ci permetterà di visualizzare il percorso che andremo a fare. La prima dimensione, quella dell’ad intra, rappresenta il sé, l’io, gli interna corporis di ciascuno di noi: ciò che siamo e portiamo dentro, la nostra storia, i nostri valori. La mole di materia accumulata negli anni, pochi o tanti che siano, trascorsi nel mondo e modellata dalla nostra esperienza quotidiana. La seconda, quella dell’ad extra, si apre agli altri, agli externa corporis. È qui che andiamo a riporre tutto ciò che dall’esterno ci perviene, in dono gratuito o per rapina, quale oggetto di scambio o per sorte. Le nozioni che ci rendono persone erudite, i sentimenti d’amore e di rabbia per qualcuno o qualcosa, le esperienze tragiche ed eroiche che completano di sfumature i contorni definiti e netti di chi siamo. Insieme, queste prime due rappresentano l’immanenza nella quale ci muoviamo, costituita da strette di mano e baci appassionati, nottate insonni sui libri e accese discussioni politiche, lasagne al forno e viaggi in treno in seconda classe. A questo punto, la terza dimensione, quella della trascendenza o super, porta invece ad alzare lo sguardo, fisico e metafisico, per cercare di cogliere e catturare il di là o il di più. Alcuni lo identificano con Dio, l’Essere supremo, altri con il principio del tutto, altri ancora dichiarano con forza che non esiste, e si privano in questo modo di un’intera dimensione, per risparmiar energie e magari accontentarsi d’altro. Da ultimo, la dimensione dell’in fieri, del tempo, che attraversa le precedenti e le trasforma, le fa maturare e porta a realizzazione o rinsecchire e alfin morire. Qui, tutti possiamo tutto, sol volendolo. In ciascuna di queste grandezze, ognuno può e deve applicarsi al meglio per rinvenire, scoprire, e conquistare i 18
  • 19. tesori celati per noi per poi farli fruttare secondo quanto il cuore e il cervello ci suggeriscono e le mani ci permettono. Le applicazioni Se un discorso simile non si concludesse con delle declinazioni concrete, potrebbe apparire un irenico sermone tratto da qualche vecchio libro di dottrina; tutt’altra è la mia intenzione! E allora, il cammino di ricerca che si snoda attraverso le 4 dimensioni della scoperta offre concrete occasioni di miglioramento (e autentico arricchimento) in ogni settore della vita: dal personal empowerment alla capacità relazionale, dall’efficacia ed efficienza professionale alle doti di leadership dentro e fuori dall’azienda, dalla profondità umana allo spessore sociale. Questo e altro, molto altro, si schiude a chi si pone proattivamente alla ricerca per crescere e per migliorare se stesso e il mondo intorno. E così facendo, contribuire a rendere il mondo migliore! 19
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  • 21. Modello CTRE, competenza completa & competitiva Competenti perché esperti di vita: questo è ciò che si richiede agli uomini e alle donne del nostro tempo per affrontare al meglio le prove che vengono poste quotidianamente. Non servono titoli formali, conseguiti nelle sontuose accademie d’oltreoceano, spesso è sufficiente accogliere e trattenere l’insegnamento di un mentore, le parole di conforto di un vicino, l’esempio virtuoso di un testimone di autenticità. E allora chiunque può divenire portatore di competenza per contribuire alla realizzazione di un mondo migliore. La competenza Uno dei maggiori guru della formazione aziendale, il francese Guy Le Boterf, definisce la competenza come «Un insieme, riconosciuto e provato, delle rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti mobilizzati e combinati in maniera pertinente in un contesto dato»; se invece desideriamo essere più ampi e comprendere tutto possiamo riproporre la classica sommatoria di “sapere, saper essere, saper fare”. 21
  • 22. Gli studi in materia classificano più di 30 definizioni, ma in questa sede mi riservo di proporre quel significato primo dell’originario termine latino “compententia”, vale a dire “capacità”, pur se in maniera amplia, di ottenere, richiedere, sollecitare, essere adatto, magari insieme ad altri portatori di ulteriori e diverse competenze per raggiungere un proprio obiettivo, magari una vittoria (da cui “competizione”). Ecco il motivo che mi ispira a proporre il modulo CTRE , per illustrare la completa competenza competitiva (3 volte c) che deve rappresentare il bagaglio di ciascuno nell’affrontare le sfide della vita o, concretamente, di un imprenditore di fronte alle quotidiane necessità della propria azienda, ma pure gli ambiti che tale competenza deve abbracciare: tecnico, relazionale ed esperienziale. 3 volte competenti Dunque, per essere piena, la competenza deve svilupparsi innanzitutto sul piano tecnico delle conoscenze utili e necessarie per “far bene” ciò che si è chiamati a fare, svolgere nel migliore dei modi possibili il proprio ruolo nella società complessa in cui ci si trova, apportare quel contributo unico e originale senza il quale il mondo sarebbe impercettibilmente incompleto. Può sembrare poco, ma è questo che fa la differenza e, come recitava Douglas Malloch, «Se non puoi essere un pino sul monte, sii una saggina nella valle, ma sii la migliore piccola saggina sulla sponda del ruscello». E per acquisire tali conoscenze, sicuramente sono necessari forza di volontà e spirito di sacrificio, tempo e coraggio: poi, tanta testa e un po’ di cuore. Cuore che diviene indispensabile per la competenza relazionale, quella che si patrimonializza dalle frequentazioni di valore, in famiglia, nella scuola, sul lavoro, ma pure per strada, dall’incontro fortuito con un allevatore di pangolini o dalla convivenza diuturna con un fratello. Le relazioni costituiscono il valore più genuino che a ciascuno di noi è concesso acquisire in vita: uniche e irripetibili, non formalizzabili né trasferibili, ricche o povere che siano vanno a costituire quel bagaglio che ci distingue e ci rende meraviglie originalissime. E quindi la competenza derivante dalle esperienze: il sudore versato nelle torride giornate d’estate a coltivar la terra o le lacrime dinanzi a un tramonto sul mare; il bacio dell’amata e la prima busta paga ricevuta dal proprio datore di lavoro. 22
  • 23. Esperienze che permettono alle relazioni di acquistare un valore inestimabile e, insieme, consentono alle proprie conoscenze tecniche di caratterizzare ciascuna persona in sé come ganglio di relazioni significative che si attuano nello spazio-tempo. Arrivare per ripartire Ma allora dove andiamo con un simile bagaglio? Che diplomi e attestati, lauree e master siano indispensabili penso che siamo tutti d’accordo, ma non possono da soli essere bastanti per renderci completi, competenti e competitivi in un panorama in continuo divenire ove la conoscenza è il bene che sconta la più alta deperibilità e deve essere rinnovata continuamente per non perdere il suo valore. Ben vengano allora quei luoghi fisici e morali ove si possono arricchire le conoscenze tecniche con esperienze di crescita (umana, professionale, di formazione), magari veicolate da relazioni di valore. Sempre con l’assunto che non si giunga mai definitivamente alla meta, ma ogni traguardo rappresenti solo una tappa di un cammino continuo e che ogni arrivo apra alla successiva partenza. 23
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  • 25. RSP, Responsabilità Sociale della Persona: ecco la differenza! Dalla Responsabilità Sociale d’Impresa, RSI o Corporate Social Responsibility (CSR) all’inglese, si è da tempo passati a riportare l’attenzione sulla Responsabilità Sociale della Persona, RSP o Personal Social Responsibility (PSR), per richiamare il ruolo e l’importanza che ciascuna persona porta in sé nel grande gioco della vita dove, dopo aver scoperto cosa fare (fase della scoperta) e imparato a farlo (fase della competenza), ci si deve impegnare a farlo al meglio (fase della responsabilità). E ciò è condiviso tanto dagli studi sociologici quanto da quelli economici, per evidenziare l’importanza che riveste, nel nuovo mondo in cui ci troviamo, il vivere da protagonisti consapevoli per contribuire a realizzare un mondo migliore. Per tutti e per ciascuno! Perché responsabili Se Arvind Devalia, nel suo famoso saggio dedicato all’argomento della Personal Social Responsibility, ce ne offre la seguente definizione, al contempo semplice e illuminante: «la capacità di riconoscere come il proprio comportamento produca effetti sugli altri», Nicola Abbagnano, invece, parlando di responsabilità nel suo “Dizionario di filosofia” ricorda che oltre alla «possibilità di prevedere le conseguenze 25
  • 26. del proprio comportamento» risulta imprescindibile poter «correggere lo stesso sulla base di tale previsione». Netti risultano quindi gli elementi di questa attitudine che deve caratterizzare qualunque persona e che si possono sintetizzare con la consapevolezza che ogni nostra azione produce degli effetti nel mondo intorno a noi, unita alla capacità di prevedere simili effetti e, se del caso, con la libertà di modificare i nostri comportamenti proprio in ragione di tale previsione. Proprio questo ultimo aspetto offre una connotazione etica alla responsabilità dal momento che ci rende capaci di “rispondere” a una chiamata, a una vocazione, per modificare il nostro agire al fine di permettere il realizzarsi o viceversa evitare determinati accadimenti. Ma ciò presuppone il possesso di un bagaglio valoriale che guidi la nostra condotta. Verso chi responsabili Per quale motivo dovremmo allora orientare le nostre azioni in forza delle conseguenze che un certo comportamento potrebbe causare? In maniera abbastanza categorica, possiamo dire che la responsabilità di cui siamo investiti riverbera su noi stessi, sugli altri intorno a noi e su tutti i nostri simili; sulla Storia che viviamo e sul mondo che attraversiamo nella nostra vita. E questo a prescindere dal ruolo sociale, politico o economico cui assolviamo in concreto, ma solo e soltanto per il fatto di essere nati e vivere scientemente su questo pianeta. Tutto quello che produciamo in termini di interscambio tra noi e l’ambiente circostante, siano emozioni o rifiuti, beni relazionali o cose tangibili, è segnato indelebilmente dal nostro marchio personale e ce ne rende autori, degni o indegni a seconda dei casi. A noi il compito di portarne i meriti e di evitare le colpe. Io, noi, tutti, persone responsabili Per vivere in maniera responsabile la propria responsabilità, risulta fondamentale richiamare l’essenza dell’essere persona, per sé e per gli altri, in quanto portatrice di relazioni e, partendo da queste, l’importanza dell’operare ad un autentico sviluppo integrale della persona (di tutta la persona e di tutte le persone) quale unica via per realizzare un mondo migliore. 26
  • 27. Solo in una realtà ove i rapporti saranno improntati ad una simile qualità comune, il perseguimento delle migliori condizioni per tutti non sarà più un’utopia ma un comune programma d’azione e la personal social responsibility sarà semplicemente la responsabilità di tutti verso tutti! 27
  • 28. 28
  • 29. Novazione 3.1, ovvero il change management secondo ERIC Oggi, la gestione del cambiamento richiede la capacità di condurre se stessi e la propria organizzazione, l’azienda o l’intera società, verso una “novazione” integrale: non abbiamo sbagliato, non volevamo dire “innovazione” (che ne è una componente) ma proprio “novazione”, nel senso di “nuova azione”. Solo con un atteggiamento consapevole rivolto in questa direzione è possibile governare saggiamente e da protagonisti il cambiamento che il mondo sta vivendo e che noi non possiamo, né dobbiamo, subire passivamente: ma noi dobbiamo cambiare, ed ERIC ci può aiutare! Novazione 3.1 Il programma di “Novazione” che qui si intende proporre necessita di alcune premesse metodologiche per poi essere lanciato e attuato in maniera efficace e proattiva. Innanzitutto, il termine “novazione”: esso indica la novità dell’azione che si deve porre in essere per gestire al meglio la trasformazione che il mondo sta attraversando. Una novità dell’agire che implica e coinvolge tutti i caratteri propri dell’agente e del suo ambiente e che deve portare a un rinnovamento anche delle modalità di pensiero e d’azione, delle capacità di vision e di sentiment, delle possibilità di interazione con cose e persone. 29
  • 30. Questa “nuova azione” si declina oggi in tre stili per tre contesti differenti (l’Evoluzione per la persona, la Rivoluzione nella società, l’Innovazione in economia), che devono essere affrontate insieme, per un sistema unico e integrato (il nostro nuovo mondo che vive il Cambiamento). Su questo cammino, ci lasciamo accompagnare da ERIC, nostra guida esperta! 3, Evoluzione Rivoluzione Innovazione Il primo stile è quello che semplicemente possiamo definire Evoluzione e che riguarda la persona. Già Charles Darwin (1809-1882), in un certo senso padre della teoria dell’evoluzione, sosteneva che «Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti», e ciò comporta che la dimensione personale è la prima ad essere interessata dalle sollecitazioni provenienti dal contesto. E al contempo è la prima in cui si deve essere in grado di reagire per individuare gli strumenti più idonei per rispondere in modo efficace ed efficiente e, dunque, “sopravvivere”. Il secondo passo coinvolge la dimensione sociale e richiede la Rivoluzione. Per la società, spesso è necessario un vero e proprio stravolgimento per conseguire un obiettivo che sia valido per tutti, ma ricordiamo quanto affermava un rivoluzionario doc, Ernesto Guevara de la Serna (1928-1967), Che Guevara, «La rivoluzione del mondo, passa attraverso la rivoluzione dell’individuo», riposizionando il centro sul singolo attore da cui tutto deve partire. La fase successiva è quella dell’Innovazione per la dimensione economica dell’agire umano. L’economia, l’impresa, il lavoro devono procedere per passi successivi che comportino elementi di novità anche minimi ma continui. Steve Jobs (1955-2011), che dell’innovazione ha fatto un must del suo impero, ripeteva ai suoi collaboratori che «Le nuove idee nascono guardando le cose, parlando alla gente, sperimentando, facendo domande e andando fuori dall’ufficio!», nel vivere autenticamente e pienamente la propria vita! 1, Cambiamento Ma ERIC non sarebbe completo e tale se non riconducesse tutto all’unico e ampio Cambiamento sistemico che la realtà sta attraversando. 30
  • 31. Se siamo d’accordo che consapevolezza e responsabilità personale sono i caratteri fondamentali per attivare e vivere un cambiamento intelligente, sostenibile e proficuo per tutti possiamo convenire con il Mahatma Gandhi (1869-1948) e invitare fortemente a «diventare il cambiamento che vogliamo vedere» senza accontentarci di sopravvivere alle cose che cambiano. Dobbiamo avviare modalità virtuose al fine di portare tutti e ciascuno a contribuire con modalità consapevoli e responsabili non solo alla trasformazione (per la costruzione di un mondo nuovo) ma altresì al miglioramento (verso la realizzazione di un mondo migliore) del contesto che ci ospita. Questa non è un’utopia: è una opportunità! 31
  • 32. 32
  • 33. Personal Quality Management, la nuova frontiera della qualità Il modello del Total Quality Management poneva il focus su processi e prodotti, dimenticandosi delle persone, e ha contribuito a portare il mondo delle imprese al punto in cui ci troviamo oggi; il Personal Quality Management, invece, ripone al centro la persona e la sua responsabilità, nel gestire processi, nel creare prodotti, nel costruire impresa, nel vivificare l’economia e la società. Un concetto di qualità che va ripensato e arricchito alla luce dell’insita dignità che ognuno porta inscritta in sé. Una sfida avvincente, una opportunità da non lasciarsi sfuggire! La persona Sviluppato a partire dagli anni ‘50 nel Giappone della rinascita dalle macerie del secondo dopoguerra, il Total Quality Management si è poi diffuso nel mondo grazie ai contributi e ai modelli offerti dagli Stati Uniti: ma in tutte le sue elaborazioni, a 8 o 9 componenti secondo le più attuali, manca un elemento fondamentale. Anzi, quello che deve essere considerato il più importante: la persona! Ecco perché in un nuovo approccio di Personal Quality Management, la persona riguadagna il suo ruolo centrale, non 33
  • 34. in quanto cliente da soddisfare o risorsa umana da impiegare al meglio, bensì proprio e pienamente perché “persona”, dotata di una sua identità e coscienza a prescindere dai ruoli giocati nello specifico contesto di riferimento. Con la consapevolezza che l’aggettivo “personal” si riferisce a tutti e a ciascuno, coinvolgendo tutti a titolo diretto e in relazione agli altri secondo la relazione esponenziale xn. Un sistema innovativo, dunque, per riformare l’approccio economico deve ricondurre tutte le scelte a quel soggetto che ne è ideatore, fautore e destinatario, la persona. Parrebbe rivoluzionario ma è solo naturale! La qualità Parimenti, concetto e definizione di qualità hanno visto un’evoluzione bulimica nel corso degli anni per giungere a ricomprendere tutte quelle caratteristiche che soddisfano predeterminati requisiti (come prevedono i fondamenti della norma ISO 9000) ma anche in questo caso dimenticandosi del ruolo fondamentale ricoperto dalla responsabilità per la realizzazione di un sistema autenticamente di qualità. Responsabilità che è una caratteristica tipica della persona, giacché solo una persona può rispondere consapevolmente dei propri comportamenti attivi od omissivi e, quindi, solo persone responsabili possono garantire la qualità di azioni che si traducono in processi, che permettono la realizzazione di prodotti. Risulta al fine evidente che l’unica via per realizzare la piena qualità, modernamente intesa, è quella di avere persone responsabili o, da un differente punto di vista, di porre la responsabilità personale alla base di ogni sistema. La gestione Il tutto, però, necessita di rinnovate competenze gestionali, di un nuovo stile di management. E a questo proposito, mi piace ricordare come il termine inglese management, da cui i tanto incensati manager, spesso esageratamente pagati o criminalizzati, derivi dal tardo latino “maneggiare”, ancora in uso in italiano seppur con significato negativo, vale a dire «trattare con le mani»: in maniera semplice e diretta, lavorare! Una parola che riporta dunque al lavoro manuale, forse più pesante, ma al contempo creativo che richiede continua e costante attenzione. 34
  • 35. Capacità di gestione, di management, di “maneggio” che torna ad essere competenza tecnica quasi artigianale per affrontare la complessità aumentata del nostro tempo per modellare la creta del XXI secolo e realizzare vasi per post- moderni fiori virtuali. Per far ciò, sono necessarie particolari competenze manageriali? Corsi di innovative business school? Probabilmente, è sufficiente riscoprire quelle doti proprie della persona umana, giacché il buon senso torni a governare l’humanum. Un’impresa da vivere con entusiasmo e coraggio, sicuri che l’opportunità che ci si propone è unica e l’esito finale dipende dalla nostra disponibilità a lasciarci coinvolgere, testa, cuore e, ovviamente, mani! 35
  • 36. 36
  • 37. Dall’homo viator, insegnamenti per l’imprenditore d’oggi Sono state proposte differenti metafore per rappresentare l’odierno imprenditore: qui vorrei tratteggiare quella non usuale, almeno nelle discipline aziendaliste, di “homo viator”, uomo in movimento. In movimento perché solo “muovendosi” l’essere umano può dimostrare a se stesso e agli altri di essere attivo. Nel presente contesto glocale, poi, il movimento può essere fisico, pedibus calcantibus, della mente (o del genio) e pure virtuale surfando nella rete, e si declina in almeno 3 stili differenti: quello del nomade, del migrante e del pellegrino. L’homo viator Stiamo vivendo un momento storico molto particolare: non possiamo usare solo il termine “crisi” per definirlo; occorre uno sguardo più ampio. Allo stesso modo, per parlare dell’imprenditore si devono elaborare immagini nuove e più evocative. In questa occasione, vorrei proporre l’immagine dell’homo viator, l’uomo in movimento, l’uomo che va per via, quale modello per l’imprenditore italiano, nella certezza che nelle sue differenti declinazioni esso ha molto da insegnare. Il nomade La prima categoria di imprenditori che si possono ricondurre all’homo viator è quella del “nomade”. Il nomade, sin dall’antichità, si sposta seguendo la natura sua e dell’ambiente che lo ospita: il proprio istinto, il susseguirsi 37
  • 38. delle stagioni, le migrazioni degli animali. Il tutto nel rispetto di ritmi precisi e regolari, con modalità totalmente sostenibili e compatibili. Non ha un particolare legame con una terra perché si sente a casa propria su tutto il pianeta Terra, che gli dà da vivere e che rispetta. Il migrante Viene poi il “migrante”, colui che è spinto a muoversi verso una terra promessa per necessità, per assicurare a sé e alla propria famiglia una vita migliore e un destino più prospero. Difficilmente il migrante ritorna a casa; appena gli è possibile, anzi, si fa raggiungere da parenti e compaesani per condividere le opportunità e le occasioni che ha trovato. Nel cuore conserva un ricordo romantico della terra d’origine e, a seconda delle fortune, contribuisce in maniera più o meno consapevole alla creazione di mitologie delle migrazioni che, nelle grandi aziende, assurgono a vere e proprie saghe. Estremizzazione del migrante è il “profugo”: colui che è obbligato a fuggire per salvare la vita. Purtroppo le cronache, anche attuali, riportano quotidianamente casi di persone che fuggono da carestie, guerre, persecuzioni o cataclismi: la disperazione è il tratto che accomuna tutti, l’istinto di sopravvivenza Ia forza che consente loro di muovere un passo dopo l’altro in qualsiasi direzione. Il migrante ha ancora lacrime da spargere, e spesso lo fa copiosamente; il profugo conserva le sue forze per sopravvivere e non riesce più nemmeno a piangere. Il pellegrino Ultima figura di imprenditore in cammino è il “pellegrino”. Questo è mosso da energie particolari: una “fede” forte, una “vocazione” particolare, una visione “profetica”. Tutte motivazioni che rimandano ad una dimensione “altra” dell’esistenza ma che costituiscono le fondamenta dell’essere umano. Il pellegrino parte perché “crede” in qualcosa di grande anche se non è in grado di offrire una spiegazione razionale del suo andare; si muove con mezzi poveri, spesso solo a piedi, verso una destinazione precisa anche se non conosciuta; valorizza ogni metro del suo cammino e ogni incontro entra a far parte del suo bagaglio. 38
  • 39. La meta poi non è mai definitiva, perché rappresenta un momento del compimento di un progetto più grande che si realizzerà poi con il ritorno a casa, nella propria comunità, con la quale condividere la ricchezza e bellezza dell’esperienza. E, magari, spingere altri a partire, accompagnarne alcuni, aprire strade alla volta di nuovi santuari. Buona strada! Homo viator, dunque, nomade, migrante e profugo, pellegrino: diversi i cuori, diversi gli occhi, diversa la strada percorsa. Metafora per i moderni uomini d’azienda che, nel nostro Paese, vogliono “intraprendere”. A ciascuno lascio il compito di trarre gli insegnamenti che più si sentono propri; a ciascuno la libertà di seguire un modello o di escluderlo; a tutti auguro, comunque, “buona strada”! 39
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  • 41. Non serve nascondere la testa nel calcestruzzo In questo tempo di falsi profeti e di fugaci illusioni a molti può apparire facile, per non dire opportuno, fuggire dalle proprie responsabilità (e tutti ne abbiamo!) per nascondersi nell’individualismo più nero: comportarsi come uno struzzo e cacciare la testa, e il cuore, sotto la sabbia. Invece, proprio ora, la testa va usata, e ancor meglio di prima! Struzzo o calcestruzzo Ci troviamo indubbiamente in una fase cruciale della storia contemporanea: alcuni denunciano la perdita delle virtù, altri quella delle passioni, c’è chi grida alla fine del mondo e chi la invoca, giovani che seguono ideali antichi (pochi) e anziani rimbambiti da pillole dell’eterna giovinezza (troppi). In questo scenario, diviene quasi naturale richiamare l’immagine dello struzzo che, proverbialmente, nasconde il capo nella sabbia. Ma forse, ancor più appropriato sarebbe parlar di calcestruzzo perché, al di là dell’assonanza, chi si dovesse trovar oggi a nascondere la testa per fuggire dal confronto aperto richiesto dalla sfida del tempo presente meriterebbe solo di finire impastato nel conglomerato in uso nei cantieri edili e non certo solo a far “sabbbiature” riposanti. Dunque, con tutto il rispetto per il pennuto corridore, diciamo che l’esempio che offre non rappresenta un modello condivisibile. 41
  • 42. Perché nascondersi Infatti, si dà il caso che nei momenti più difficili sia necessario l’impegno di tutti e di ciascuno, ognuno secondo le personali possibilità e capacità, apportando quei talenti e carismi che tutti possediamo e che possiamo condividere. E così facendo centuplicarne la forza e l’effetto intorno a noi. L’individualismo non conduce da nessuna parte e la codardia paralizza: solo il coraggio smuove anche le montagne e la solidarietà fa in modo di condividerlo anche con chi ne fosse sprovvisto. Dunque, mai nascondersi e ancor meno in un momento di grave difficoltà, o profonda crisi che dir si voglia, quale quello che stiamo vivendo e che, dobbiamo riconoscere, non finirà: dobbiamo solo, ed è tanto, alzare la testa e usarla! Usiamo la testa Ma cosa significa “usare la testa”? E poi, come usarla? Qualcuno, preso dalla disperazione, la usa per spaccare il naso ad un interlocutore inopportuno; altri, forse meno arditi, si limitano a sbatterla contro il muro più vicino; il nostro consiglio, invece, muove da considerazioni più pragmatiche e vuole aprire soluzioni meno sanguinarie e più performanti per tutti. Partiamo dalle considerazioni: il denaro sembra essere la risorsa meno diffusa, non solo in Italia; il desiderio di lavorare, invece, il sentimento che maggiormente ci accomuna. Chi non ha un lavoro, poi, ha molto tempo a sua disposizione: giornate di ricerca e notti insonni, da cui scaturiscono certamente emicranie e stress ma pure idee, e tante, e proprio queste debbono venire rivalutate. Queste idee sono la nostra risorsa fondamentale per avviare un cambiamento virtuoso! Come diceva il commediografo inglese George Bernard Shaw «Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed io avremo sempre una mela per uno. Ma se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora avremo entrambi due idee», e allora perché non creare una “banca delle idee” ove chiunque possa condividere le sue e arricchirsi delle altrui? La testa dovrebbe farci comprendere quanto sia proficuo un simile comportamento di reciproco arricchimento dove il susseguente e naturale passo sarebbe poi quello di un attento scouting per l’individuazione di concrete modalità di 42
  • 43. realizzazione delle idee geniali, originali, promettenti o semplicemente realizzabili che si presentino volta per volta. Diamo un calcio al calcestruzzo, dunque, e leviamo la testa: possiamo farcela, e ce la faremo! 43
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  • 45. Le 4P dello stile manageriale secondo Walt Disney Nel marketing, le originarie 4P (Product, Price, Place, Promotion) di McCarthy e Kotler sono da tempo state integrate da ulteriori elementi e, oramai, si è approdati a un mix di 7 (con Physical evidence, People e Process) o 8P, ove si giunge a ricomprendere anche la “Paura”. Nello stile manageriale, invece, è recente l’elaborazione che prende spunto da Walter E. Disney e che, per il momento, si ferma a proporre le prime 4P: Pluto, Pippo, Paperinik e Paperone. In questo modello, Topolinia e Paperopoli rappresentano, a modo loro, un “mondo migliore” a cui ispirarsi nel nostro agire imprenditoriale! Il modello ideale di Disney Edmund J. McCarthy e Philip Kotler hanno nel secolo scorso avviato quegli studi di marketing che hanno portato a definire il famoso mix delle 4P che poi, col tempo, sono cresciute sino a 7 e, con l’acuirsi dell’attuale crisi, 8P: alle originarie P di Product, Price, Place e Promotion, si sono aggiunte quelle di Physical evidence, People e Process, fino all’ultima Paura, tutta italiana. Con molta probabilità, a causa di un eccesso di ottimismo nelle potenzialità dei mercati, nel recente passato si è abusato degli strumenti di marketing senza dedicarsi con la dovuta attenzione alla vera esigenza: quella di elaborare uno stile manageriale per uomini e donne d’azienda ed ora, siamo 45
  • 46. obbligati a riprendere in mano quelle categorie che, forse, ci permetteranno di uscire dal pantano della stagnazione. Ridefinendo gli strumenti e i modelli e giungendo così ad uno “stile” originale. In questo nuovo approccio, Walter E. Disney, meglio noto come Walt Disney, ci offre una cosmogonia ricca di suggerimenti con le sue “città ideali”, Topolinia e Paperopoli che, a modo loro, rappresentano un “mondo migliore” a cui potremmo ispirarci nel nostro quotidiano agire da manager, imprenditori, cittadini di questo nuovo mondo. Città in cui animali antropomorfi interagiscono alla pari con esseri umani e animali animali, ove le relazioni familiari non si capiscono bene ma rappresentano il nerbo vitale della società, gli affari si concludono in dollari ma la borsa non incide più di tanto sul buon umore generale e, in fin dei conti, i “buoni” trionfano sempre sui “cattivi”. Un mondo utopico? Semplicemente, un mondo migliore. Le 4P dello stile manageriale Prendendo dunque spunto dal fantastico universo disneyano, proviamo a delineare uno stile manageriale che si sviluppi attraverso alcuni atteggiamenti incarnati da personaggi assai noti delle strisce colorate. La strategia che ne deriva dovrebbe secondo noi condurre l’uomo d’impresa, manager o imprenditore che sia, ad attivare dei comportamenti virtuosi e contagiosi che portino alla generazione di modalità nuove di affrontare le cose. Le figure che si propongono a modello sono Pluto, Pippo, Paperinik e Paperone, proprio 4P. Ma esaminiamoli insieme e cerchiamo di declinarli nell’attività manageriale. Pluto, un vero cane, che è divenuto l’emblema della cieca fedeltà al suo padrone, Topolino, e al contempo caratterizzato da quella grande sagacia che diviene indispensabile per far uscire tutti da questioni critiche. Pippo, un cane completamente umanizzato, miglior amico di Topolino, di una semplicità al limite dell’ingenuità e, per questo, capace di essere istintivo e di improvvisare. Sempre imprevedibile e, all’occorrenza, dotato di “superpoteri” (ricordiamo che, grazie alle noccioline, Pippo si trasforma in Super Pippo, un vero e proprio supereroe). Per la terza P, abbiamo Paperinik: personaggio uguale e contrario rispetto al precedente. Siamo qui davanti al 46
  • 47. supereroe che possiede mille risorse tecnologiche e avveniristiche, tutte al servizio del bene comune (o di uno specifico obiettivo condiviso) perseguito con scrupolo, efficienza ed efficacia. E questo, comunque, sempre con grande discrezione e modestia. Dulcis in fundo, Paperon de’ Paperoni. Indicato sovente a modello della cupidigia e dell’avarizia umana, nonostante sia un papero, noi vogliamo riabilitarlo e sottolinearne invece i tratti positivi della caparbietà, della capacità di operare con metodo progettuale per obiettivi progressivi e, da non dimenticare, del fiuto per gli investimenti. D’altronde, partendo dal suo primo cent, è riuscito a raccogliere nei suoi depositi un fantapatrimonio di «500 triplitrilioni di multipludilioni di quadricatilioni di centrifugatilioni di dollari e 16 centesimi», come lo stesso Paperone afferma. In fondo, un buon papero! L’evoluzione del sistema Se le 4P della strategia disneyana così delineate vi appaiono eccessivamente banali, non preoccupatevi: come la tradizione ci mostra, tutti i modelli e gli schemi elaborati dalle grandi business school possono, e debbono, venire elaborati, sviluppati, modificati anche in tempo reale. E allora indichiamo subito la via sulla quale far evolvere le 4P aggiungendone una quinta: Paperoga, personaggio istrionico e, a volte, un po’ folle; capace di tutto e, al contempo, incapace di un impegno costante. A suo modo, geniale! L’insegnamento di Paperoga da applicare al modello manageriale ci è offerto dalla sua prima ed emblematica battuta, nel 1964: «Mi fermerò da te qualche giorno - STOP - T’insegnerò un nuovo sistema di vita - STOP». Un concentrato di efficienza ed innovazione. E non sono solo fumetti! 47
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  • 49. Cambio di stile, evoluzione in linea: dal verticale all’orizzontale Se il XX secolo è stato consacrato alla conquista della dimensione verticale, è indubbio che il XXI sarà invece caratterizzato dal ritorno al senso orizzontale della vita: apertasi con l’inaugurazione entusiastica della Tour Eiffel a Parigi in occasione dell’Esposizione mondiale del 1889 e conclusasi in maniera apocalittica con lo sgretolamento delle Twin Towers di Manhattan nel 2001, la corsa al cielo ha visto l’essere umano porre piede sulla Luna (fisicamente) e su Marte (grazie a droni teleguidati), ma sempre rincorrendo il mito babelico di arrivare alla divinità e, magari, sostituirsi ad essa. Negli ultimi tempi, da più parti, si cerca di recuperare tutto ciò che crea relazione: reti reali e virtuali, occasioni di incontro, ponti, strade, vie per incontrarsi. Poi, magari, non si sa bene come gestire i rapporti, ma tutti sentiamo il bisogno di averne. XX verticale: da Parigi a New York Il XX secolo è stato segnato dall’acuirsi della sfida tra l’essere umano e la divinità: lo sviluppo delle scienze e della tecnologia hanno raggiunto risultati impareggiabili rispetto a tutta la storia precedente. Ma in questa crescita diffusa e 49
  • 50. pervasiva una è rimasta la costante, assunta quasi a paradigma del secolo, il desiderio di arrivare sempre più in alto. Il castigo impartito dal Dio dell’Antico Testamento a chi si affannava nella edificazione della Torre di Babele non è bastato, ed ecco allora che a partire dal 1889 con la Tour Eiffel in occasione dell’Esposizione universale di Parigi, evento globale ante-litteram, passando per i voli sempre più sicuri nello spazio e l’approdo dell’Apollo 11 sulla Luna nel 1969, giungiamo all’11 settembre 2001 quando i feticci della nuova religione monetarista si sbriciolano davanti agli occhi di tutto il mondo, in un nuovo e tragico spettacolo a cui partecipa tutta l’umanità in diretta. Ricchissima e terribile parabola della verticalità del secolo scorso. L’essere umano desiderava “crescere”, andare sempre più in alto: picchi nei grafici delle performance azionarie, vette himalayane da contendersi, bambini sempre più allungati, tacchi vorticosi per le serate alla moda. Spesso senza rendersi conto che, cercando di raggiungere l’Olimpo, si rischiava di perdere Atene, vale a dire la dimensione più vera della relazionalità, quella che fonda la natura umana della persona, essere relazionale per definizione. XXI orizzontale: non solo Facebook E per rispondere al bisogno di socialità, ecco che grazie allo sviluppo e alla diffusione di collegamenti internet sempre più capaci negli ultimi anni si sono moltiplicati strumenti cosiddetti “social”: dal colosso Facebook, con oltre un miliardo di utenti a livello planetario, a LinkedIn, MySpace, Youtube, Twitter, Pinterest, Tripadvisor, Instagram, Chiappala, e altri per ora meno noti. Tutti finalizzati a far socializzare le persone, che però vengono chiamate “utenti”, “users”, e in questo spersonalizzate, ridotte a codici, username e password per accedere al proprio profilo. Proprio questo fatto diventa rilevante: ogni persona non è altro che un profilo, anche perché nell’universo virtuale di internet vi sono solo 2 dimensioni e dunque ciascuno può vedersi solo bidimensionalmente, per l'appunto “di profilo”, in stile antico Egitto. Certa è l’esigenza di condividere, di creare legami: foto del nipotino appena nato, torte di mele improponibili, tramonti ai tropici o ingorghi metropolitani, pensieri della sera, riflessioni sotto la doccia e poesie scapigliate, ogni cosa trova il suo 50
  • 51. spazio nella rete e viene messa a disposizione, o alla mercede, di chiunque ci si trovi a tiro. Dopo un secolo di chiusa autoaffermazione individualistica, sembra quasi scoppiata la voglia di riaprirci all’altro, o meglio agli altri in maniera indifferenziata. Senza per questo riuscire a comprendere la necessità di affinare gli strumenti con i quali avvicinarci veramente all’altro e, con lui, avviare un rapporto autentico. Ci basta premere un “mi piace” per conquistare un “amico” per poi, eventualmente, “eliminarlo” dalla lista dei nostri contatti e non pensarci più. Ma ciò basta? L’impero romano, nel momento di massima espansione, aveva una rete viaria che comprendeva oltre 250.000 km di strade, dall’Oceano Atlantico alla penisola arabica e dalla Scozia all’Egitto; in molti viaggiavano, parlavano latino e così facendo davano vita alla prima communitas globalis della storia. Allora, però, le persone si incontravano veramente, face-to-face, vis-à-vis, l’una di fronte all’altra! Oggi, forse, scontiamo l’eccesso di infrastrutture virtuali e la sottovalutazione di quelle reali: ponti, strade, canali, a volte semplici porte e finestre (troppo spesso sostituite con quelle dei nostri pc), non ci dicono più nulla. Il vantaggio olistico del trasversale Ecco allora che il nuovo millennio deve da subito aprirci occhi mente e cuore alla necessità di integrare la dimensione orizzontale abbracciata dalla rete e dai social media a quella trasversale nella quale e dalla quale riscoprire il valore della “profondità” delle relazioni e dei rapporti interpersonali autentici. Incontrarci de visu davanti ad un caffè fumante, leggerci ad alta voce una pagina di Sepulveda, sostare in silenzio accanto ad una scultura di Rodin, visitare curiosi i sotterranei del Duomo, tutto ciò si può fare solo mettendo in gioco la nostra fisicità plastica e facendola interagire con quella dell’altro da noi e dell’ambiente reale in cui viviamo. Un simile passo può costar caro: richiede un investimento psicologico e di maturazione che molti, probabilmente, non si sentono di affrontare, ma è certo che la possibilità di penetrare nella dimensione trasversale del rapporto offre un vantaggio olistico a tutte le parti del sistema e, quindi, al sistema stesso. Dopo il verticale, quindi, e oltre l’orizzontale, abbracciamo il trasversale in profondità! 51
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  • 53. Bellezza, libertà, generatività: 3 parole per un futuro sostenibile Tempo fa, un caro amico mi chiese di suggerirgli “3 parole per un futuro sostenibile e migliore”; mentre meditavo sulla difficoltà del compito assegnato e cercavo di selezionare quelle che potevano costituire il mio contributo, lui snocciolò le sue: bellezza, libertà, generatività. Ovviamente, queste mi paralizzarono aprendomi pensieri e riflessioni infinite ed infinibili. Cariche di energia e ricche di implicazioni, queste parole evocano tutto un universo di moti personali e relazionali facendo emergere desideri, sogni, progetti e responsabilità di tutti e di ciascuno per la realizzazione di quel mondo migliore che tutti desideriamo. 3 parole Riassumere la propria visione del mondo in 3 parole non è certo un lavoro semplice da svolgere, ancor meno lo è se il tempo a disposizione trascorre inesorabilmente e si viene incalzati da altri che coprono i tuoi pensieri con le loro parole, le loro immagini, le loro fantasie; arduo, per non dire quasi impossibile, se viene indicata pure una finalità specifica: 3 parole per descrivere un domani sostenibile e, magari, migliore di oggi e di ieri. Le parole, lo sappiamo, sono veicoli per trasmettere sensazioni, emozioni, desideri, per condividere progetti e idee, per relazionarsi con gli altri e, in estrema sintesi, manifestarsi e vivere. Ma la richiesta di cercarne 3, solo 3, considerando il fatto che la lingua italiana conta ormai oltre 800.000 lemmi, può lasciare spiazzati. Qualcuno potrebbe 53
  • 54. obiettare che, nell’uso quotidiano, non se ne impiegano più 7.000, e che le nuove generazioni risultano ancor più parsimoniose, ma 3 sono sempre pochissime. E poi, cosa scegliere? Un sostantivo che identifichi un qualcosa di concreto (mamma) che contiene immensi addentellati metafisici, o un sentimento astratto (rabbia) che poi si declina in virulente azioni fisiche; un aggettivo (magnifico) che richiama anche la storia del nostro paese, o un avverbio (malamente) che tratteggia tristemente il nostro presente. Genio, genialità o geniale? Vita, vivente o vitale? Mah, intanto il mio interlocutore mi dona le sue 3 parole e, così facendo, interrompe il mio lavoro neuronale, mi fa perdere il filo dei ragionamenti che stavano elaborando la mia personale combinazione e mi obbliga a tuffarmi nel suo futuro. Bellezza, libertà, generatività 3 parole che riassumono un progetto di futuro migliore: bellezza, libertà, generatività. Non serve scorrere le pagine del vocabolario per capire cosa significano, ma porle insieme l’una di seguito all’altra a delineare un cammino di miglioramento, provoca un senso di smarrimento e di stordimento. Partiamo dalla bellezza, rappresentata da ciò che suscita piacere all’essere umano attraverso i suoi 5+1 sensi: edonismo? No, semplice gusto del bello. Categoria di un soggettivismo puro che, però, ha sempre guidato l’uomo anche nelle sue relazioni. E poi, libertà, quello status in cui ciascuno può agire secondo il proprio convincimento e le proprie responsabilità nei confronti degli altri, dei vicini, dei prossimi, senza alcun vincolo che non sia altrettanto liberamente accettato, catena di cui si possiede la chiave. Come non arrivare, dunque, alla generatività: meta naturale ove, liberi e belli, ci si apre alla moltitudine generativa, aprendosi all’altro da sé sul piano spaziale e temporale per relazionarsi e generare prospettive di futuro. Può sembrare un programma rivoluzionario d’altri tempi, condito d’insana utopia e vagheggiamenti filosofici, spiritualismo, umanesimo, altruismo e chissà cos’altro, invece è solo un semplice cammino attraverso il nostro mondo, per giungere insieme ad una realtà migliore: ciò che è bello, una volta riconosciuto e valorizzato, ci permette di vivere pienamente la nostra libertà responsabile e, in forza di questa, 54
  • 55. attivare quelle sinergie che generano nuove opportunità di vita, sintesi delle stesse bellezza e libertà originarie, per poi riavviare il ciclo e permettere all'umanità di continuare ad essere e progredire. Follia? No, semplice realtà. Ma è necessario crederci ed impegnarsi per realizzarla. Un futuro sostenibile A questo punto, se mi sono perso nel seguire la tortuosa e splendida via disegnata dalle 3 parole suggerite dal mio amico per realizzare un futuro migliore, non ho certo dimenticato che la richiesta da cui tutto questo ragionamento è scaturito era di offrire le mie 3 parole. Ma ancora una volta, la testa si rivolge altrove: futuro migliore, sì, ma sostenibile. Accipicchia, quali responsabilità coinvolge una simile caratterizzazione del futuro! Deve essere qualitativamente migliore del presente e del passato e, per di più, sostenibile. Secondo quali criteri? Per quanti anni, secoli, millenni? Per chi? Dinanzi a quesiti di tale portata, anche un elaboratore elettronico andrebbe in tilt, figuriamoci la semplice testa di un altrettanto semplice essere umano, limitato e finito, che dunque torna cercare, nel suo usuale abbecedario di tutti i giorni almeno 3 termini che possano aiutarlo a muovere i primi passi verso un mondo migliore. Persona, amore, tutto: PAT, semplice ed immediato, forse infantile, ma tempo fa Qualcuno disse che «[...] se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 18,3), e quale futuro migliore e sostenibile se non il Paradiso? Provate anche voi, allora, a scegliere 3 parole, solo 3, per descrivere il vostro futuro migliore e condividetele, con amici, conoscenti, colleghi: e chissà che non sia da questa piccola rivoluzione delle parole che possa scaturire una corsa ad un mondo migliore. 55
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  • 57. 3 marce in più per essere capaci di andare avanti Le ricette più moderne proposte dai guru del management per andare avanti anche nei momenti di maggior difficoltà prevedono ingredienti al limite del fantaincredibile: pozioni magiche o formule cabalistiche che ai più restano oscure e che, in definitiva, non portano risultati. Qui si propone, allora, la valorizzazione di 3 semplici capacità: vision, utilità, gratitudine. Già proprie di ogni persona, in questa nuova ottica diventano 3 marce aggiuntive per affrontare anche i terreni più impervi ed andare avanti, nonostante tutto: anzi, magari raggiungendo pure insperati obiettivi di successo. Andare avanti Discutendo con un giovane e brillante manager, Stefano Devecchi Bellini, con il quale condivido interessanti ambiti di impegno, mi sono ritrovato a confrontarmi sul come affrontare l’impervia fatica del motivare persone provenienti da disparati ambiti per “andare avanti”, proseguire, continuare con audacia e convinzione, e questo proprio perché oggi sembra che non si possa più “andare avanti”. L’opinione diffusa è che manchino le condizioni basilari per proseguire qualsiasi cammino intrapreso e, peggio ancora, che siano venute meno pure quelle per intraprendere qualsiasi nuova iniziativa. Lo scoraggiamento è il sentimento che maggiormente si riscontra, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti, dall’economia alla cultura, dalla politica alla famiglia, dalla società alla fede. 57
  • 58. Ma il messaggio che qui si intende, invece, veicolare è opposto: possiamo “andare avanti”, anzi dobbiamo farlo! 3 marce in più Per far questo, non vi sono formule magiche da preparare e nemmeno corsi di formazione da frequentare, ma semplicemente delle capacità già proprie di ogni essere umano da riscoprire e affinare. Quasi 3 marce in più per la nostra automobile, per permetterle di affrontare anche gli impervi terreni di questo critico periodo. Semplice? Forse no, ma ne vale la pena. Le 3 capacità da sfoderare sono la vision, l’utilità e la gratitudine: autentiche armi di formazione di massa! In prima battuta, la capacità di vision, che si declina nelle distinte dimensioni del tangibile e dell’intangibile, quindi del vedere ciò che esiste veramente, qui ed ora, e nell’intravedere quello che ancora non esiste, nel riuscire ad avere delle visioni, quasi profetiche, per antipare tempi, gusti, modelli che la società sarà pronta ad abbracciare in un prossimo futuro. E applicare tale profezia per l’elaborazione di progetti di costruzione di un mondo migliore per tutti, quindi per la realizzazione di quel bene comune auspicato da tutti. In secondo luogo, l’utilità: la capacità di utilizzare al meglio ciò che si ha e ciò che si è, risorse materiali e personali, di se stessi e degli altri, dando prova di saper valutare e valorizzare beni e persone per trarne ricchezza condivisa. Non sfruttamento, quindi, ma arricchimento condiviso, per sé, per le risorse impiegate, per i processi sviluppati, per le altre persone coinvolte, in maniera solistica, per raggiungere una piena utilità di sistema. Anche in questo caso, pare ripetitivo, per potenziare la costruzione di un bene comune che sia autenticamente “buono” e “di tutti”. Da ultimo, ma non per questo meno importante, la gratitudine: l’essere capaci di ringraziare, di “dire grazie” e di “rendere grazie”, dunque di rapportarsi in maniera anche umile con i propri simili e con il Creatore (almeno per chi ci crede). Attitudine questa che ci obbliga a prendere coscienza del fatto che non siamo onnipotenti e che ogni nostro successo o insuccesso è il risultato di una operazione complessa ove molti fattori variabili debbono essere posti a sistema. Risulta allora fondamentale rispolverare la nostra vecchia capacità di ringraziare, nei due sensi sopra precisati, come ricorda anche Papa Francesco dicendo che «Grazie, è una delle parole chiave della convivenza, permesso, grazie, 58
  • 59. scusa, queste sono le tre parole della convivenza: se si usano, la famiglia va avanti», anche l’intera famiglia umana! Essere capaci Se siamo d’accordo che vision, utilità e gratitudine costituiscono capacità ineludibili per permettere all’umanità di “andare avanti”, di avanzare, dobbiamo parimenti riconoscere l’importanza dell’acquisire la consapevolezza di cosa significhi “essere capaci”, e poi diffonderla generosamente. Possiamo saccheggiare i vari vocabolari della lingua italiana per raccogliere definizioni comunque simili che riportano tutte alla «attitudine a comprendere e a operare», alla «possibilità potenziale di compiere una azione», all’«essere in grado di fare qualcosa»: termini quali attitudine, abilità, idoneità, competenza, facoltà, perizia, si ripetono ed inseguono ma necessariamente richiedono di essere completati per divenire realtà. Dunque, per andare avanti, dimostriamo di essere capaci di vedere, utilizzare e ringraziare: un modello di processo niente affatto innovativo ma sicuramente rinnovativo! 59
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  • 61. Passione, vero acceleratore di sviluppo Dice un saggio contemporaneo che «Senza un sogno non ti metti in cammino, ma senza la passione non continui il cammino» (Giorgio Borgonovo) ed io sono convinto che abbia proprio ragione. Il sogno può rappresentare la fiamma che accende la miccia, ma se alla fine non abbiamo predisposto il giusto quantitativo di esplosivo, il tutto si esaurisce in qualche scintillio pirotecnico ed un po’ di odore di bruciato che resta nell’aria. Vero è che, oggi più che mai, si è perduta la capacità di sognare e, al contempo, pare che la forza della passione autentica abbia abbandonato l’essere umano: anzi, parlare di “passioni” sembra non rientrare più nel set di esperienze che hanno sempre contraddistinto il cammino dell’uomo. Dobbiamo riscoprire il sogno, condividerlo con altri e, poi, alimentarlo di passione per farlo divenire realtà! La passione per risvegliare i sogni Tempo fa, Giorgio Borgonovo, noto knowledge manager, ebbe a dire che la nostra epoca ha «il problema di gente poco appassionata e che non sa più sognare», considerazione che ha subito rafforzato riconoscendo che, secondo le più moderne scuole di pensiero, «sognare è un bisogno dell’umanità» e che, dunque, perdendo la capacità di sognare l’essere umano si sta impoverendo e snaturando. Purtroppo, l’affermazione disegna una drammatica realtà: le attuali società si sono spogliate della caratteristica tipicamente umana di sognare e questo fatto ha determinato la 61
  • 62. conseguente inabilità dovuta alla mancanza dell’energia propulsiva della passione. Passione, o passioni, che ben conosce chi è innamorato della bella dama intravista sul balcone del palazzo e, per lei, è pronto a battersi in torneo con i più valorosi cavalieri del regno o, ugualmente, chi è disposto a mettere a repentaglio la testa pur di partecipare ad una rivoluzione per spodestare il tiranno. A questo punto appare chiaro che la passione, nel significato che l’Enciclopedia Treccani pone come residuale, vale a dire «Inclinazione vivissima, forte interesse, trasporto per qualche cosa», risulta un fattore chiave per riscoprire la potenza del sogno o, ancor meglio, per ritrovare nella nostra dotazione di strumenti per la vita quel momento onirico che spesso ha rappresentato la molla di imprese ed avventure, di follie e di grandi gesta. La passione per elaborare progetti Ma è immediatamente comprensibile che se la passione si riducesse a far sorgere sogni, avremmo una generazione di grandi sognatori, frustrati dal non incontrare l’oggetto del proprio vagheggiamento, e nulla cambierebbe. La passione, dunque, deve diventare anche la fiamma capace di accendere la miccia per far detonare un’esplosione creativa ove, però, il tritolo sia stato preparato con diligenza e accuratezza. E per far questo è indispensabile che si recuperi un metodo progettuale che, prendendo le mosse dal sogno della notte, venga declinato nelle condizioni della realtà contingente del mattino per poi realizzarsi con la fatica del lavoro nel meriggio. Bisogna sì tornare a sognare, ma poi avere il coraggio di svegliarsi, prendere il proprio sogno e, con competenza, formalizzarlo in un progetto che sia condivisibile e, per ciò stesso, capace di aggregare forze e di creare unità, attivando energie collettive. E, visto che tutto ciò non è da solo sufficiente, rimboccarsi le maniche e riversare energie nella sua realizzazione. Così facendo la passione diviene vero motore di una macchina sociale produttrice di bene comune o, più semplicemente, realizzatrice di un obiettivo condiviso. Da riconoscere, inoltre, che pure le technicalities necessarie alla progettazione non servirebbero a nulla se impiegate da sole in maniera fredda e “senz’anima”: sappiamo bene che i più avanzati strumenti vengono resi più performanti dalla 62
  • 63. passione, dall’atteggiamento di chi li impiega, dalla forza con la quale si anela a raggiungere il risultato che ci si è posti. La passione per cambiare la realtà Se siamo riusciti a comprendere il processo descritto e, anche solo in parte, a realizzarlo, a questo punto potrebbero sorgere le domande: perché fare tutto ciò? Quale vantaggio ne posso o possiamo trarre? A cosa conduce? L’unica risposta, semplice ma non semplicista, è: questo è il mio/nostro contributo per cambiare la realtà e «rendere il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato» (Robert Baden-Powell). Eccessivamente idealista? Forse. Sognatore? Beh sì, quantomeno perché nato da un sogno. Utopico? No, anzi molto pragmatico: alcune cose non funzionano, desideriamo cambiarle, abbiamo una visione, la condividiamo, ne disegniamo il modello e cerchiamo di fare quanto possibile per realizzarlo e andare a modificare la situazione di partenza per migliorarla. E, come nelle precedenti fasi, la passione si dimostra motore, combustibile e volano per il buon funzionamento del sistema che parte dal sogno e, attraverso il progetto, diviene realtà migliore per tutti. Passione, dunque, come autentico acceleratore di sviluppo sociale condiviso, autentica dimensione quantica della crescita. 63
  • 64. 64
  • 65. Candele o lampadine, l’importante è sognare! Una storia d’impresa che, come spesso accade in Italia, può sembrar quasi una favola: candele colorate e lampadine magiche che fanno luce su un paese assopito dall’incantesimo di una strega malvagia. Si parte dal “c’era una volta...” e si arriva al “...e vissero tutti felici e contenti”; si susseguono sogni, progetti, realizzazioni; appaiono “illuminazioni”, fisiche e metafisiche; e pare quasi di intravedere anche un bel principe e un saggio mago. Forse è troppo, ma per rilanciare la competitività del sistema economico serve anche questo, anche se a volte basta un sogno! Le candele di ieri C’era una volta, in una anonima località della grande pianura padana, un piccolo artigiano che produceva ottime candele di cera: aveva ereditato la bottega dal padre, e produceva candele classiche, bianche, lucide, bellissime; da cucina, da notte, una volta all’anno anche da messa, per il signor prevosto. Era imbattibile nel suo lavoro, e vi metteva tutta la perizia che aveva maturato negli anni condita dalla grande passione, per liquefare la cera, colarla negli stampi, scegliere gli stoppini migliori e raffreddare i suoi prodotti in maniera naturale, senza fretta. 65
  • 66. Durante l’Avvento, poi, aveva iniziato a colorar di rosso la cera per dare un tocco di festa alle fiammelle che si sarebbero accese nelle case dei suoi compaesani per il Natale, e così facendo anche le candele sembravano partecipare alla gioia del periodo e il nostro brav’uomo si sentiva in parte artefice del clima che si veniva a creare d’intorno. Una sera d’estate, però, dopo aver assistito al meraviglioso spettacolo delle stelle cadenti dalla piazzetta del paese, venne assalito da un desiderio strano: le sue candele avrebbero dovuto “dare di più”! Non capiva bene cosa ciò volesse dire, ma voleva che le sue candele esprimessero dei sentimenti, suscitassero emozioni, facessero vivere un’esperienza. Sicuramente, un obiettivo non facile da realizzare, ma nel quale si sarebbe cimentato senza risparmiarsi. Iniziò a disegnare le forme nelle quali voleva che brillassero le sue candele: stelle, mezzelune, melacotogne, fiori di campo, secchielli e scarponi da lavoro; poi, prese a sciogliere nel pentolone della cera alcuni “ingredienti” rubati dalla cucina e dall’orto: un po’ di cannella, dello zafferano, qualche foglia di prezzemolo o menta; e la sua bottega si riempì di molteplici e variegati oggetti dai mille colori che, accesi, rilasciavano sottili fumi profumati che accarezzavano i vicini e attiravano i curiosi. Le sue candele, dopo un primo comprensibile imbarazzo, riuscirono a vincere le resistenze dei vecchi clienti, e anche del parroco del paese, e a far conoscere l’anonimo artigiano anche nei villaggi più distanti, tant’è che in molti giungevano a chiedergli produzioni “speciali”: candele a forma di pecorella o zucca, ceri alla lavanda o allo zenzero, bugie gialle camomilla per riposare meglio o rosse peperoncino piccante per risvegliare il desiderio. Sembrava proprio che il successo stesse arridendo al nostro piccolo e sconosciuto artigiano, ma lui sentiva che gli mancava ancora qualcosa, e qualcosa di importante. Le lampadine di oggi Una notte, dopo una intensa giornata di lavoro tra fusioni e colature, pigmenti naturali e stoppini profumati, durante un sonno ristoratore ma agitato, venne risvegliato da un sogno impressionante: era all’interno di una camera buia e, all’improvviso, il soffitto si riempiva di piccole stelle colorate che, seguendo una dolce melodia di violini, danzavano inseguendosi, accendendosi, spegnendosi, cambiando di 66
  • 67. forma, dimensione ed intensità. E il fatto più incredibile era che solo lui dirigeva quella sfavillante coreografia, non con zolfanelli o innesti, ma pigiando su piccoli bottoni colorati. Si sentiva al settimo cielo e non ne capiva il perché: neanche l’organista della chiesa aveva nelle sue mani un simile potere durante la messa cantata. Un pensiero gli sorse naturale ed incomprensibile: «Continuo a fabbricare candele colorate di tutte le forme e di tutti i colori; ora vorrei almeno immaginare di produrre una lampadina!». Certo, ma cosa è “una lampadina”? Noi, oggi, non ci poniamo il problema di come illuminare un ambiente. Entriamo a casa e, in maniera quasi automatica, allunghiamo la mano verso l’interruttore per dar luce al nostro rientro o, nelle soluzioni di domotica avanzata, i punti luce prendono vita al nostro passaggio, o allo schioccare le dita o al sentire un particolare comando vocale. Ma per chi è abituato alla luce naturale del sole e delle stelle, per chi si è sempre accontentato del fuoco scoppiettante nel camino o delle fiammelle ballerine di complici candele, non è facile concepire “una lampadina”. Questo è il punto di svolta del nostro racconto (chissà se favola o storia reale): il fabbricante di candele, per quanto fosse bravo nella sua prima attività, ha sentito il bisogno, quasi una vocazione, di cambiare e migliorare il suo prodotto attraverso un processo di ricerca e innovazione continua che lo ha portato ad una autentica rivoluzione. Percorso impegnativo, vocazione-innovazione-rivoluzione, che insieme al sogno-progetto-realizzazione gli ha consentito di “sognare” la lampadina. La storia non ci ha tramandato se il nostro fabbricante di candele sia poi riuscito a passare dal sogno al progetto e, dunque, alla realizzazione della prima lampadina; sappiamo solo che, in un pomeriggio di maggio, confidò le sue fantasie su candele, stelle e lampadine ad uno straniero di passaggio nel suo borgo, un canadese di nome Henry Woodward, il quale qualche anno dopo divenne famoso con il brevetto della lampadina elettrica. La morale della storia Come avevo anticipato, comunque, la nostra storia finisce bene: il piccolo e apprezzato artigiano fece fortuna, le sue candele vennero apprezzate sino ai confini della provincia e lui ebbe la possibilità di sposarsi e di metter su famiglia ... e vissero tutti felici e contenti. 67
  • 68. Ma non riuscì a veder realizzato il suo sogno di accendere un cielo stellato sul soffitto di casa, non capì mai cosa fosse “una lampadina” e, possiamo crederci, questo cruccio lo spinse a fare del suo meglio in ogni attività che intraprese, in bottega, al mercato, in famiglia, con gli amici. Come da ogni favola che si rispetti, a questo punto, dobbiamo anche noi trarre un insegnamento che ci aiuti a migliorare; ma quale è la morale della storia? Diventare capaci di innovazione di prodotto e di processo? Troppo facile. Fidarsi dei sogni e impegnarsi nel realizzarli? Troppo idealista. Senza alcuna pretesa definitoria e con uno stile forse più semplice, mi sento di suggerire soltanto l’impegno a riscoprire quella facoltà tutta umana di sognare, di sognare “una lampadina” anche quando si sono viste solo candele per tutta la vita, e di fare di tutto per accenderne una e rendere il mondo un po’ più illuminato. 68
  • 70. 70
  • 71. La cultura del naufrago per vincere la crisi Nel 2010 il Cardinal Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa Francesco, rilasciava una lunga intervista a due giornalisti, Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, che desideravano offrire un ritratto dell’alto prelato. Tra i molti aspetti affrontati, rilevante è la presentazione della “cultura del naufrago” quale stile per vivere in maniera vincente la sfida della crisi: semplice, chiara, esaustiva e immediatamente comprensibile da tutti. Mi permetto di usare ora i pensieri di Padre Bergoglio declinandoli in una proposta di strategia per aiutare gli imprenditori italiani in questo momento di grave difficoltà per arrivare ad «accettare il passato, anche se non sta più a galla» e «utilizzare gli strumenti che offre il presente per affrontare il futuro». Il naufragio La situazione che si è venuta a formalizzare dal 2007 a oggi, con l’avanzata e il radicamento della crisi in ogni paese e settore, può facilmente essere paragonata a un naufragio di romanzesca memoria: un disastro, di cui noi poveri passeggeri siamo il più delle volte vittime incolpevoli e inconsapevoli; una situazione che precipita e che, dalla serenità della sala da ballo, ci sbatte su una scialuppa in preda alla furia degli elementi; soli, senza riferimenti, senza 71
  • 72. alcun aiuto, se non noi stessi e il buon Dio, di cui con molta probabilità inizieremo a dubitare. Magari abbiamo indossato il giubbotto salvagente più per rispondere all’istinto di sopravvivenza che per ossequio alle norme di sicurezza, magari abbiamo visto sparire tra le onde il nostro vicino di cabina, magari siamo rimasti abbracciati al legno ad occhi chiusi per non guardare l’inabissarsi della nostra nave e non immaginare il peggio. Quale peggio? Che noi siamo ancora vivi, con qualche straccio indosso, il nulla intorno, e una voglia matta di piangere. E ditemi se questa situazione non rispecchia quella che vivono molti nostri imprenditori, a prescindere dalle loro dimensioni, in questi tempi di radicale sofferenza dell’economia. L’isola del naufrago Ma nelle migliori tradizioni, il naufrago si risveglia dopo un certo tempo su una bianca spiaggia, coperto di salsedine e alghe, in mezzo ai detriti più variegati. In questo momento, allora, egli deve dare fondo a tutto il patrimonio proprio di quella che molti, e tra questi l’allora Cardinal Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa Francesco, chiamano “cultura del naufrago” e che dall’arcivescovo di Buenos Aires veniva sintetizzata efficacemente con queste parole: «Il naufrago affronta la sfida della sopravvivenza con creatività. O aspetta che vengano a salvarlo, o comincia a salvarsi da solo. Nell’isola dove giunge deve cominciare a costruirsi una capanna utilizzando le assi della barca affondata, insieme a nuovi elementi trovati sul luogo. La sfida di accettare il passato, anche se non sta più a galla, è utilizzare gli strumenti che offre il presente per affrontare il futuro». Ancora una volta, non tanto una metafora, ma quasi una vera e propria fotografia delle circostanze in cui si trovano coloro i quali sopraffatti dalla crisi cercano, in tutti i modi, di resistervi e di reagire per garantire un futuro a sé, alla propria attività e, nei casi più virtuosi, ai propri dipendenti. Raccogliere ciò che il passato ci ha distrutto e farne tesoro, non feticcio; elaborare nuovi stili di vita e di lavoro che permettano di governare la realtà in modo diverso, perché diverso è il mondo in cui ci si trova, è un mondo nuovo; fare in modo di rendere l’ambiente non solo meno ostile, ma autenticamente “migliore” e pienamente “nostro”! 72
  • 73. Non è detto che arrivino a salvarci Siamo di fronte, novelli Robinson Crusoe, a una vera sfida che può condurci alla morte (propria o figurata, personale o aziendale) o ad una resurrezione piena, nuova primavera economica e umana, foriera di opportunità di cui far beneficiare anche la nostra comunità di riferimento. Unici protagonisti di un percorso di conversione di cui dobbiamo essere, o diventare, consapevoli anche perché non è detto che arrivino a salvarci, anzi, visto come vanno le cose, gli aiuti potrebbero non arrivare! Dunque, forza e coraggio: rimboccarsi le maniche e iniziare a spaccar legna per costruire un mondo migliore. Anche su un’isola deserta, in attesa di incontrare il nostro Venerdì! 73
  • 74. 74
  • 75. La cultura del naufrago, parte II: collaborazione vs competizione Da un naufragio possiamo trarre insegnamenti per elaborare comportamenti utili ad affrontare al meglio le difficoltà. Ma in questo momento di crisi generale e continuativa in cui i “naufraghi” sono molti, per non dire tutti, e ci si è resi conto che l’isola in cui ci troviamo è la sola risorsa a nostra disposizione, siamo obbligati a porre in essere delle virtuose strategie di collaborazione per sopravvivere e resistere. La competizione da condurre non è quella gli uni contro gli altri bensì quella verso il sistema! Quando a naufragare siamo in molti Se è vero come ha detto il Cardinal Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa Francesco, che «Il naufrago affronta la sfida della sopravvivenza con creatività. O aspetta che vengano a salvarlo, o comincia a salvarsi da solo», forse è altrettanto vero che quando a naufragare sono in molti, le variabili che si 75
  • 76. propongono diventano più complesse da gestire e da descrivere. Ci si rende subito conto di non essere più “sulla stessa barca”, in balia del mare, bensì “sulla stessa isola”, in balia degli elementi e, al contempo, gli uni degli altri: con caratteri, desideri, paure differenti e magari inconciliabili. L’isola, invece, è la stessa, grande o piccola che sia e in questo contesto è necessario elaborare da subito delle modalità di convivenza che siano efficaci ed efficienti, sostenibili e compatibili perché solo in questo modo sarà possibile la sopravvivenza di tutti. Nell’animo umano, in particolar modo quando sottoposto a sollecitazioni da forte stress, si ingenerano sicuramente pulsioni irrazionali ed egoistiche tese alla propria conservazione che non permettono di esaminare con lucidità le reali opportunità esistenti, ma durante un naufragio, così come durante un periodo di crisi, di cui non si conoscono tempi e modi di sviluppo, sarebbe folle e autolesionista non avviare logiche collaborative tra i superstiti per cercare di “vivere meglio e vivere tutti”. Il contesto imprevedibile Nel nuovo contesto, l’isola o la crisi, le difficoltà sono numerose e non prevedibili, le risorse scarse o difficilmente fruibili, il sentiment che prevale è lo scoramento generalizzato: facile dunque abbattersi, in tutti i sensi. A maggior ragione, allora, diviene indispensabile una intelligente collaborazione finalizzata a garantire la sopravvivenza di tutta la comunità. La scelta di una competizione conflittuale tra fazioni, difatti, porterebbe solo alla distruzione di risorse, di vario genere, fondamentali al mantenimento e, comunque, non è detto che garantirebbe una migliore e più duratura esistenza della parte che ne uscisse vincitrice. Facendo riferimento alla teoria dei giochi, potremmo dire che naufragio e crisi realizzano scenari a somma variabile ove diviene necessario individuare soluzioni win-win per suddividere in maniera equa tra tutti i players l’unico premio a disposizione. In caso contrario, la soprafazione di alcuni o la vittoria di pochi sugli altri molti sarebbe parziale, non sostenibile e a termine: affermazione sicuramente forte e di difficile modellizzazione ma che l’esperienza attuale sta dimostrando nelle economie occidentali in preda alla crisi. 76
  • 77. Meglio collaborare A questo punto, traendo spunto da quanto Claude-Adrien Helvétius sosteneva già nel XVIII secolo, «Spesso la ragione non rischiara che i naufragi», la sola opzione ragionevole per massimizzare il risultato utile e renderlo fruibile dal maggior numero di soggetti è la condotta collaborativa o cooperativa che permette a tutti di sopravvivere, di farlo al meglio e per maggior tempo. Anche perché, sull’isola del naufragio come nell’attuale situazione, è improbabile che arrivi qualcuno a salvarci. 77
  • 78. 78
  • 79. Scenari globali per un mondo in cambiamento Senza sfera magica è difficile prevedere gIi scenari globali che si potranno delineare nei prossimi anni ma visto che, come diceva Jet Bartlet, «Gli economisti sono stati messi su questa terra per far fare bella figura agli astrologi», posso azzardare quantomeno delle prospettive per elaborare strategie di medio e lungo periodo per aziende che intendano affrontare le sfide di questo pazzo mondo. Italia e Europa Indubbiamente, la crisi economico-finanziaria degli ultimi anni sta lasciando strascichi di lacrime e sangue in tutti i paesi europei e pure l’Italia, nonostante il suo “provincialismo” finanziario, continua a risentirne gli effetti. Se alcuni analisti indicano nella fine del 2014 l’uscita dalla stagnazione, è opinione diffusa tra molti esperti che il quadro che si presenterà per il Vecchio Continente non sarà più, comunque, paragonabile alla situazione pre-crisi. I colpi inferti al sistema produttivo, il rallentamento degli investimenti in ricerca e sviluppo, la contrazione di alcuni consumi, la trasformazione radicale del welfare in molti paesi, hanno cambiato radicalmente il volto dell’Europa e la capacità economica degli europei e le conseguenze si manifesteranno pienamente nei prossimi dieci anni. I mercati italiano ed europeo resteranno di sicuro interesse almeno sino al 2020 ma più per l’acquisizione di quel know- 79
  • 80. how di cui sono ancora detentori i centri di eccellenza piuttosto che come destinatari di forniture per la produzione. In questo quadro, il ruolo dell’Italia dovrebbe permanere, nello stesso periodo, abbastanza inalterato grazie ad alcune nicchie ben presidiate, nonostante i gravi freni dovuti all’instabilità istituzionale da gestire e con cui fare i conti. Italia e Cina Diverso discorso vale per il gigante cinese: già ora in fase esplosiva, rimasto abbastanza impermeabile ai contraccolpi dei crack degli ultimi anni, capace di penetrare attraverso canali formali e informali nelle economie di tutto il mondo, rappresenterà a partire dal 2015 il vero e nuovo centro economico del pianeta da tutti i punti di vista. Leader nei consumi e nelle produzioni di tutto, nel decennio 2020-2030 dovrà elaborare nuove modalità di gestione dell’economia interna ed internazionale e avrà la capacità di imporne l’adozione al resto del mondo. L’Italia in questo momento è in una felice posizione di partenariato con la Cina e deve potenziare il suo ruolo facendo leva sui talenti umani, culturali, scientifici e imprenditoriali che riesce ancora ad esprimere per garantirsi una posizione di primazia in futuro. Il valore della partita è di enorme interesse. Italia e Africa sub-sahariana Totalmente da costruire è lo scenario che potrebbe aprirsi dopo il 2025 in particolare nei paesi dell’Africa sub-sahariana. Là dove le antiche carte di navigazione indicavano “Hic sunt leones”, ora si ingaggiano confronti commerciali di enorme rilevanza per l’approvvigionamento di materie prime: la Cina è il primo player in tutti i settori, i paesi dell’Unione Europea e gli USA faticano a starle dietro, il Brasile, l’India e la Russia fanno la loro parte e si stanno creando interessantissime relazioni bilaterali. Ma nei prossimi anni questa regione diverrà ancora più importante dal momento che, accanto alla capacità di rifornire di materie prime fondamentali per garantire il mantenimento delle produzioni mondiali, avrà sviluppato enormi mercati di consumo degli stessi prodotti. L’Italia non è stata in grado di valorizzare la sua posizione nel Mar Mediterraneo quale ponte tra Europa e Africa e rischia di perdere la possibilità di fungere da base naturale per i futuri rapporti. 80
  • 81. Da valutare le potenzialità in questo senso per elaborare progetti di investimento attraverso triangolazioni America latina-Unione Europea-Africa sub-sahariana, in cui l’Italia trovi un ruolo da protagonista. Per chiudere, citando un proverbio brasiliano secondo cui «Nessuno può credere al futuro se non crede al presente» posso solo invitare tutti gli operatori a fare del proprio meglio per essere pronti a servire i propri sogni oggi per poterli trasformare in progetti domani e portarli a realizzazione quanto prima. Il futuro si costruisce da oggi! 81
  • 82. 82
  • 83. “Civette” & “mattoni”: immagini di ordinaria globalizzazione Globalizzazione, fenomeno del XXI secolo? In effetti, già nel V secolo, il prefetto romano Rutilio Namaziano lodava così l’opera condotta dall’impero «Urbem fecisti, quod prius orbis erat», vale a dire «Dove prima c’era il mondo intero, ora c’è una città», anticipando di almeno quindici secoli il concetto di “villaggio globale” a cui oggi siamo abituati. E allora, se da più parti sentiamo parlare in toni entusiastici di “civette” e “mattoni” (o secondo l’acronimo inglese, CIVETS e BRICS), o in maniera denigratoria di “maiali” (PIIGS) e, forse tra qualche tempo, conosceremo i fratelli SAM, ci riferiamo sempre a paesi, vicini o lontani, dai quali inevitabilmente dipendiamo e dipenderemo sempre di più. Proprio come in un romantico borgo d’altri tempi. Civette & mattoni Nel 2001, un documento della banca d’affari Goldman Sachs indicava Brasile, Russia, India e Cina come quelle economie che avrebbero dominato la scena mondiale in apertura del nuovo secolo. Per indicarli, si scelse la sigla BRIC e, poco tempo dopo, si aggiunse ai primi quattro anche il Sud Africa, autentico miracolo sociale ed economico del continente africano. 83
  • 84. Nessuno però poteva prevedere il rapido evolversi del sistema di rapporti globali e bastò arrivare al 2009, per vedere i “mattoni” (i BRICS) iniziare a sgretolarsi sotto apparentemente innocue “civette”: fu Robert Ward, dell’Economist Intelligence Unit, ad indicare quali neo- emergenti protagonisti dello sviluppo planetario Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e, ancora, Sud Africa, coniando l’acronimo CIVETS. ABC & maiali Se le sigle coniate dagli analisti possono contribuire a strappare un sorriso, dobbiamo ugualmente riconoscere che altre volte non brillano per originalità o correttezza. Ed ecco allora che i tre giganti del continente latino americano da sempre, o almeno dal 1914, sono accomunati dall’ABC (Argentina, Brasile e Cile), mentre con “maiali”, PIGS o PIIGS, ci si riferisce in maniera per nulla simpatica a quei paesi dell’eurozona in difetto con gli obblighi di pareggio finanziario imposti dal Trattato di Maastricht e seguenti, quindi Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna. Ma al di là delle colpe di ciascuno, l’immagine evocata è di certo poco felice. I francobolli dei fratelli SAM Ma ritengo che sia condiviso da tutti, economisti esperti e comuni uomini della strada, che il panorama che ci si apre dinanzi risulti non solo in continuo e progressivo mutamento ma totalmente imprevedibile e, spesso, in schizofrenica disvoluzione (neologismo che intende fondere evoluzione, involuzione e rivoluzione). Ecco allora che a me piace proporre ulteriori immagini che possono evocare percorsi da esplorare per l’avvio di relazioni commerciali virtuose in ottica win-win per imprese guidate da uomini e donne di mente e cuore aperti. La prima è quella dei “francobolli”, di cui molti possiedono una improbabile collezione: gli STIMPS, Sud Corea, Turchia, Indonesia, Messico, Filippine (in inglese, Philippines) e l’immancabile Sud Africa, rappresentano oggi partners più che interessanti per avviare alleanze innovative per processi di R&S, produzione e commercializzazione, per grandi, medie ma pure piccole aziende desiderose di affrontare in maniera intelligente le sfide della globalizzazione. La seconda, e forse più ardita, propone invece i “fratelli SAM”, attualizzazione del mito classico dei gemelli (Caino e Abele, 84
  • 85. Romolo e Remo) che, ci auguriamo, non si concluda nel sangue. Con SAM SAM si vogliono rappresentare due aree geografiche ricchissime che possono offrire proficue opportunità di cooperazione e sviluppo: nella regione del Nord Africa, Senegal, Algeria, Marocco, in Africa meridionale, invece, Sud Africa, Angola, Mozambico. I latini indicavano con un omnicomprensivo “hic sunt leones” l’intero continente nero e, purtroppo, questo ingenera ancora oggi timore e titubanza. La situazione reale, però, dovrebbe scuoterci da simili ataviche paure e portarci a riscoprire il gusto di percorrere nuove strade nella consapevolezza che, se non saremo noi a batterle, altri lo faranno al nostro posto, e qualcuno è già in cammino! 85
  • 86. 86
  • 87. Europa, cortile di casa: coltiviamolo! In Europa, lo scorso 1° luglio abbiamo festeggiato accogliendo il 28° Stato membro deIl’Unione, la Croazia, e noi tutti euroentusiasti ne siamo stati felici e soddisfatti. Pochi giorni dopo, invece, a Londra la Camera dei Comuni ha approvato la proposta di legge per lo svolgimento del referendum popolare sull’uscita dall’UE. E anche in questo caso, i convinti sostenitori della casa comune europea hanno detto: «Era ora!». L’Europa è ormai il nostro cortile di casa, spetta a noi custodirlo e curarlo, invitarci gli amici per il barbecue o scacciarne fastidiosi visitatori inopportuni. Europa a 28 Oggi il continente europeo sta vivendo la sua crisi di mezza età: sì, non possiamo accontentarci di additare la congiuntura internazionale quale unica causa del malessere che sta scuotendo anche le storiche economie di Francia, Germania e Italia; e sarebbe colpevole anche nasconderci dietro malesseri dovuti alla mancata tenuta dell’Euro sui mercati globali, al continuo e crescente attacco della Cina, all’attuale disamoramento per il progetto europeo. L’Unione Europea è riuscita a realizzare molti e impegnativi progetti ma paga i suoi anni. Se consideriamo che Robert Schuman tenne il suo storico discorso nel maggio del 1950 e lì ebbe a riconoscere quasi profeticamente che «L’Europe ne se fera pas d’un coup, ni dans une construction d’ensemble: 87
  • 88. elle se fera par des réalisations concrètes, créant d’abord une solidarité de fait […]», allora dobbiamo convenire nella grandiosità dell’impresa. Dai 6 Paesi che si associarono nel 1951 nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la CECA, ai 28 che oggi condividono le sorti dell’Unione, si è percorsa una strada lunga e a volte impervia, ma costellata di grandi risultati: l’affermarsi del mercato unico con le libertà di circolazione di merci, servizi, capitali e persone, l’armonizzazione delle normative nazionali in delicati temi sensibili quali le imprese (la PMI europea ne è un felice se pur discusso esempio) o le emissioni atmosferiche, la creazione della moneta comune, l’Euro, idolo e demone degli europeisti. Le “realizzazioni concrete” cui faceva riferimento Schuman si sono succedute, ora però è indispensabile un ulteriore sforzo comune per crescere nell’unica direzione possibile: dar vita ad una vera unione politica! L’alternativa è il progressivo e lento svuotamento di senso del sistema sino alla sua morte per atrofia. Europa a 50 Di questa situazione sono sintomatici gli avvenimenti delle ultime settimane: da una parte, festeggiamenti in clima di condivisa austerità per l’ingresso della Croazia, dall’altra applausi e brindisi oltremanica per il sostegno alla proposta di referendum britannico per l’uscita dall’Unione Europea da celebrarsi entro il 2017. Due atteggiamenti apparentemente antitetici ma che promanano da un medesimo spirito: l’amore-odio per questa Europa! Cortile di casa in cui possiamo coltivare le rose, giocare a palla con gli amici e organizzare rinfreschi in primavera ma, allo stesso tempo, dove bisogna prestare attenzione ai parassiti, ai bambini dispettosi e prepotenti o agli intrusi inopportuni. Ecco allora che se durante le prime decadi di storia, l’Europa istituzionale ha visto un continuo arricchimento in contenuti e riflessioni, in capacità produttiva ed espansiva, in modelli e progetti da proporre al mondo, a partire dai primi anni 2000, sta vivendo una fase di sterile autocentramento che rischia di condurre alla distruzione. Non corretto pensare a ulteriori adesioni: se il continente europeo, geograficamente inteso, conta 50 Stati, l’attuale UE a 28 ha già raggiunto la sua massima capacità sostenibile. 88
  • 89. Urgono riforme fondanti, direi “costituzionali” se l’uso di questo aggettivo non ingenerasse diatribe tra giuristi e politici. A noi, comunque, spetta di salvaguardare il patrimonio che l’Europa formalizzata dai Trattati, da Roma a Lisbona, e dai 500milioni di europei, da Bruxelles a Stoccolma, da Madrid ad Atene, hanno contribuito a rendere vivo e vero. Europa e poi Ma oltre le colonne d’Ercole, al di là degli Urali, cosa si prospetta per noi? Certo è che il mondo ci guarda, e con attenzione: come terra di conquista alcuni, come compagni di viaggio altri, con diffidenza e timore alcuni, con simpatia e spirito di complicità altri. Il nord America non ci considera e fa di tutto per minare il nostro progetto cercando di incrinare i rapporti tra i partner (Regno Unito, Polonia e Turchia solo per fare alcuni esempi); l’America latina desidera ritrovare in noi quei fratelli maggiori con cui affrontare le sfide del XXI secolo in chiave nuova e in comunità di intenti; l’Africa nera vorrebbe avviare alleanze strategiche che superassero finalmente le logiche post- coloniali, pur conservando un forte complesso di inferiorità e diffidando di noi; l’Africa bianca si considera Europa, pur nelle alterne vicende delle sue recenti primavere; i Paesi arabi sperano di poterci mantenere come clienti per il petrolio e fornitori per i beni di lusso e, con questa azione, rafforzano la strategia di indebolimento condotta dagli Stati Uniti; la Cina punta a “conquistare” le singole piazze europee con una semplice e capillare penetrazione virale (o cinesizzazione); altri attori asiatici, invece, cercano in ordine sparso di creare partenariati bilaterali con Paesi europei o con l’Unione nel suo insieme, sempre comunque conservando uno sguardo rispettoso ad oriente per non provocare l’ira del “grande” vicino. A noi urge rispondere, in maniera adeguata e innovativa, agli stimoli di questo tempo: l’Europa, gli europei devono riscoprire la loro vocazione alle sperimentazioni politiche ed istituzionali, oltre che economiche, per rilanciare il progetto profetico di cui siamo parte e portarlo al suo unico compimento possibile, l’autentica Unione politica! 89
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  • 91. PC16: nuove piazze per il dopo-Cina Negli ultimi 30 anni la Cina ha rappresentato il campione di crescita economica, ma la sua ascesa volge ormai al termine e il think tank statunitense Stratfor, istituto di ricerca fondato da George Friedman, ha appena pubblicato uno studio comparato in cui indica i criteri che le aziende manifatturiere a livello mondiale stanno seguendo e prova a disegnare la mappa delle loro prossime tendenze migratorie: i PC16 sono i 16 paesi candidati a succedere alla Cina quali basi della produzione globale. La fine della Cina A partire dagli anni ‘80, la Cina ha rappresentato la metafora della crescita economica: grande disponibilità di manodopera a bassi salari, interesse ad attrarre investimenti esteri, sviluppo caotico e disordinato nonostante un sistema di governance molto centralizzato. Su queste basi, l’istituto americano di ricerca economica Stratfor ha condiviso un suo studio sulla fine del boom cinese e l’apertura alla successione quali nuove basi dell’industria manifatturiera a livello mondiale, «The PC16: Identifying China’s Successors», che si propone di identificare i 16 paesi candidati a succedere al post-Cina. Nello studio del noto economista Friedman si sottolinea da subito che la Cina continuerà forse a prosperare ma oggi ci sono ben altre nazioni che offrono forza lavoro a costi più 91