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Il welfare aziendale 
territoriale per la 
micro, piccola e media 
impresa italiana 
Un’indagine ricostruttiva 
a cura di 
Emmanuele Massagli 
in collaborazione con 
ADAPT 
LABOUR STUDIES 
e-Book series 
n. 31
ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES 
ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro 
DIREZIONE 
Michele Tiraboschi (direttore responsabile) 
Roberta Caragnano 
Lilli Casano 
Maria Giovannone 
Pietro Manzella (revisore linguistico) 
Emmanuele Massagli 
Flavia Pasquini 
Pierluigi Rausei 
Silvia Spattini 
Davide Venturi 
SEGRETERIA DI REDAZIONE 
Gabriele Gamberini 
Andrea Gatti Casati 
Francesca Fazio 
Laura Magni (coordinatore di redazione) 
Maddalena Magni 
Francesco Nespoli 
Martina Ori 
Giulia Rosolen 
Francesco Seghezzi 
Francesca Sperotti 
Hanno collaborato a questo volume: 
Andrea Cescon, Carmen Di Stani, Daniele Grandi (coordinatore), Filip-po 
Pignatti Morano, Rosita Zucaro 
@ADAPT_Press @adaptland @bollettinoADAPT
Il welfare aziendale 
territoriale per la 
micro, piccola e media 
impresa italiana 
Un’indagine ricostruttiva 
a cura di 
Emmanuele Massagli 
in collaborazione con
ISBN 978-88-98652-33-4 
© 2014 ADAPT University Press – Pubblicazione on-line della Collana ADAPT 
Registrazione n. 1609, 11 novembre 2001, Tribunale di Modena
ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES 
ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro 
1. P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma a metà del 
guado, 2012 
2. P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma sbagliata, 
2012 
3. M. Tiraboschi, Labour Law and Industrial Relations in Recession-ary 
Times, 2012 
4. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2012, 2012 
5. AA.VV., I programmi alla prova, 2013 
6. U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo, Certificazione delle competen-ze, 
2013 
7. L. Casano (a cura di), La riforma francese del lavoro: dalla sécuri-sation 
alla flexicurity europea?, 2013 
8. F. Fazio, E. Massagli, M. Tiraboschi, Indice IPCA e contrattazione 
collettiva, 2013 
9. G. Zilio Grandi, M. Sferrazza, In attesa della nuova riforma: una 
rilettura del lavoro a termine, 2013 
10. M. Tiraboschi (a cura di), Interventi urgenti per la promozione 
dell’occupazione, in particolare giovanile, e della coesione sociale, 
2013 
11. U. Buratti, Proposte per un lavoro pubblico non burocratico, 2013 
12. A. Sánchez-Castañeda, C. Reynoso Castillo, B. Palli, Il subappalto: 
un fenomeno globale, 2013 
13. A. Maresca, V. Berti, E. Giorgi, L. Lama, R. Lama, A. Lepore, D. 
Mezzacapo, F. Schiavetti, La RSA dopo la sentenza della Corte co-stituzionale 
23 luglio 2013, n. 231, 2013 
14. F. Carinci, Il diritto del lavoro in Italia: a proposito del rapporto 
tra Scuole, Maestri e Allievi, 2013 
15. G. Zilio Grandi, E. Massagli (a cura di), Dal decreto-legge n. 
76/2013 alla legge n. 99/2013 e circolari “correttive”: schede di 
sintesi, 2013
16. G. Bertagna, U. Buratti, F. Fazio, M. Tiraboschi (a cura di), La rego-lazione 
dei tirocini formativi in Italia dopo la legge Fornero, 2013 
17. R. Zucaro (a cura di), I licenziamenti in Italia e Germania, 2013 
18. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2013, 2013 
19. L. Mella Méndez, Violencia, riesgos psicosociales y salud en el tra-bajo, 
2014 
20. F. Carinci (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla 
rappresentanza sindacale a Corte costituzionale n. 231/2013, 
2014 
21. Michele Tiraboschi (a cura di), Jobs Act - Le misure per favorire il 
rilancio dell’occupazione, riformare il mercato del lavoro ed il si-stema 
delle tutele, 2014 
22. Michele Tiraboschi (a cura di), Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 
34. Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e 
per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese - 
Prime interpretazioni e valutazioni di sistema, 2014 
23. G. Gamberini (a cura di), Progettare per modernizzare. Il Codice 
semplificato del lavoro, 2014 
24. U. Buratti, C. Piovesan, M. Tiraboschi (a cura di), Apprendistato: 
quadro comparato e buone prassi, 2014 
25. Michele Tiraboschi (a cura di), Jobs Act: il cantiere aperto delle ri-forme 
del lavoro, 2014 
26. Franco Carinci (a cura di), Il Testo Unico sulla rappresentanza 10 
gennaio 2014, 2014 
27. Simone Varva (a cura di), Malattie croniche e lavoro. Una prima 
rassegna ragionata della letteratura di riferimento, ADAPT LA-BOUR 
STUDIES e-Book series, n. 27 
28. Roberta Scolastici, Scritti scelti di lavoro e relazioni industriali, 
2014 
29. Michele Tiraboschi (a cura di), Catastrofi naturali, disastri tecnolo-gici, 
lavoro e welfare, 2014 
30. Franco Carinci, Gaetano Zilio Grandi (a cura di), La politica del la-voro 
del Governo Renzi - Atto I, 2014
A Daniele Marrama, riconoscenti per l’amicizia e la stima
INDICE 
Prefazione di Giorgio Xoccato .............................................................................. XI 
Executive summary – Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma pos-sibile 
di Emmanuele Massagli ....................................................................... XIII 
Parte I 
QUADRO STORICO E CONTESTO SOCIO-ECONOMICO 
Carmen Di Stani, Emmanuele Massagli, Dal welfare di Stato al welfare azien-dale 
................................................................................................................ 3 
Daniele Grandi, Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe 
benefits ........................................................................................................... 6 
Daniele Grandi, Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare 
aziendale ........................................................................................................ 12 
Parte II 
AMBITI DI INTERESSE, PROFILI GIURIDICI, 
PROBLEMATICHE FISCALI 
Daniele Grandi, Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria 
integrativa ...................................................................................................... 19 
Rosita Zucaro, La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali ...................... 24 
Daniele Grandi, Fringe benefits: normativa fiscale e orientamenti dell’Agenzia 
delle entrate ................................................................................................... 41 
Parte III 
I VANTAGGI DEL WELFARE AZIENDALE 
Daniele Grandi, Dati e numeri: il welfare nelle aziende in Italia ......................... 55 
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X Indice 
Filippo Pignatti Morano, Detassazione e decontribuzione del salario di produt-tività: 
stato dell’arte ...................................................................................... 62 
Daniele Grandi, Il valore generato dal welfare aziendale .................................... 68 
Parte IV 
WELFARE AZIENDALE E IMPRESA ITALIANA: PROSPETTIVE 
Daniele Grandi, Emmanuele Massagli, Relazioni industriali e welfare aziendale 77 
Daniele Grandi, Il welfare aziendale nella medio e grande impresa: esperienze 
di successo ..................................................................................................... 90 
Daniele Grandi, Emmanuele Massagli, Rosita Zucaro, Verso il welfare azienda-le 
territoriale per le PMI: esempi e modelli .................................................. 111 
Bibliografia essenziale .......................................................................................... 125 
Indice delle aziende/esperienze citate ................................................................... 128 
Appendice informatica ........................................................................................... 132 
Notizie sugli autori ................................................................................................ 133 
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Prefazione 
di Giorgio Xoccato 
La pubblicazione del presente testo si inserisce all’interno di un più vasto pro-getto 
formativo di Confindustria Vicenza per lo sviluppo delle conoscenze e 
competenze nel campo delle relazioni industriali e sindacali con particolare ri-ferimento 
all’universo delle PMI venete. 
Se è vero che il futuro delle nostre imprese e del nostro sistema industriale si 
va sempre più configurando come un incrocio virtuoso fra manifattura e tecno-logie 
informatiche (c.d. manifattura digitale), è evidente che dobbiamo investi-re 
nella valorizzazione delle risorse umane e nel loro coinvolgimento nella 
mission aziendale per incrementare il livello di innovazione e competitività dei 
nostri prodotti. 
Ma è proprio la complessità del contesto competitivo globale, oltre alla carat-teristica 
dimensione aziendale del tessuto produttivo veneto, a rendere sovente 
difficoltosa l’applicazione di politiche attrattive e di retention a favore del per-sonale. 
Da queste considerazioni è nato un forte interesse verso strumenti alternativi di 
fidelizzazione e coinvolgimento del personale, che riescano a raggiungere gli 
obiettivi desiderati, garantendo benefici reali per ciascuna delle parti coinvolte. 
Il progetto “Welfare” di Confindustria Vicenza è un’iniziativa volta a dif-fondere 
la cultura del welfare aziendale ed offrire alle aziende elementi e 
strumenti per intraprendere percorsi di avvicinamento e facilitazione nella atti-vazione 
di piani di welfare aziendale ed interaziendale connessi ad una rete di 
servizi a cui ogni singola azienda potrà accedere in base alle proprie specifi-che 
necessità. 
In un contesto in cui le risorse per i servizi e il welfare pubblico sono sempre 
meno e i bisogni della popolazione aumentano sempre di più, a fronte anche di 
fenomeni di invecchiamento demografico, le imprese possono quindi svolgere 
un ruolo cruciale anche sotto questo aspetto, integrando l’azione del pubblico.
XII Prefazione 
Questo testo vuole fornire il necessario supporto informativo e teorico a questa 
azione, effettuando un’indagine ricostruttiva sulla materia del welfare e riper-correndone 
l’evoluzione normativa e applicativa. 
Un particolare ringraziamento va alla associazione ADAPT, fondata nel 2000 
dal professor Marco Biagi, che ha permesso la redazione di quest’opera, anche 
attraverso le proprie esperienze e collaborazioni con numerose aziende italiane 
innovatrici in tema di welfare. 
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Giorgio Xoccato 
Vicepresidente di Confindustria Vicenza con delega alle Relazioni Industriali
@ 2014 ADAPT University Press 
Executive summary 
Welfare aziendale e PMI: 
un’esperienza difficile, ma possibile 
di Emmanuele Massagli 
È indubbio che il welfare aziendale stia conoscendo una stagione di straordina-rio 
interesse tanto aziendale, quanto scientifico e mediatico. 
La “miccia” della curiosità è stata accesa nel 2009 dal primo piano di welfare 
attuato da Luxottica (si veda l’approfondimento nella parte IV di questo volu-me). 
Da allora anche l’Italia ha scoperto l’attualità di quella particolarissima 
politica di clima, produttività, incentivazione che tutti hanno imparato a chia-mare 
in inglese, ma che in altre forme e con altre finalità era già conosciuta sul 
nostro territorio dalla seconda metà dell’Ottocento (la ricostruzione storica è 
contenuta nella parte I). 
Non è casuale la conquista della celebrità proprio in questi anni di perdurante 
crisi economica, difficili per l’economia nazionale come per quella delle sin-gole 
aziende e delle famiglie. Le politiche di welfare aziendale (ma questo va-le 
anche per il c.d. welfare contrattuale o negoziale, solitamente regolato nei 
contratti collettivi nazionali di lavoro) hanno la peculiarità di essere validi 
esempi di strategie win-win-win: vince l’impresa, che incrementa la produttivi-tà 
del dipendente e la sua fidelizzazione societaria; vince il lavoratore, che ot-tiene 
servizi di costoso accesso sul mercato senza subire la tagliola della inva-dente 
tassazione; vince lo Stato, che “scarica” sulle imprese la responsabilità 
(non certo l’obbligo) di fornire alla società (per il tramite dei propri dipenden-ti) 
tutele previdenziali, assistenziali, sanitarie e culturali una volta prerogativa 
dello stato sociale (si veda ancora la parte I del volume per un’analisi critica 
più dettagliata). 
Il mondo reale è sempre più complesso delle ricostruzioni dottrinali e i tanti 
fari accessi sulla materia “welfare aziendale” stanno gradualmente permetten-
XIV Executive summary 
do di cogliere le principali difficoltà a una diffusione capillare di politiche così 
costruite. 
Prima di qualsiasi ostacolo tecnico vengono i pregiudizi culturali. L’Italia ha 
ereditato, in particolare dagli anni Settanta, una conformazione conflittuale e 
politicizzata delle relazioni industriali (o, più correttamente, di lavoro). Corol-lario 
di questa caratteristica è la diffidenza che lavoratori e sindacati ancora 
nutrono verso l’impresa, in particolare quella grande (talvolta ancora “il pa-drone”) 
e, viceversa, l’allergia imprenditoriale alla partecipazione dei lavora-tori 
non solo alla gestione, ma anche ai risultati. Su queste basi è difficoltoso 
(seppure non impossibile) affermare il valore di reciproche rinunce per godere 
di proporzionali vantaggi. Questo comporta un piano di welfare aziendale, 
quando non è solo elargitivo: meno “liquidi” in busta paga per il lavoratore, 
ma più servizi; un costo ulteriore per il datore di lavoro, che non ci sarebbe 
stato con un “semplice” taglio degli stipendi, ma comunque un risparmio a bi-lancio. 
Perché lo scambio si realizzi, bisogna fidarsi della controparte. Non 
sbaglia quindi chi identifica nel welfare aziendale indizio di clima partecipati-vo 
nelle dinamiche sindacali interne all’azienda. 
Quando superati i pregiudizi culturali, imprese e lavoratori si scontrano con le 
contraddizioni normative. Il welfare aziendale è regolato dal Testo Unico delle 
imposte sui redditi (TUIR) nelle parti relative a Redditi di impresa (titolo I, 
capo IV) e Base imponibile società/enti commerciali residenti (titolo II, capo 
II). L’aggiornamento degli articoli che più interessano gli esperti di welfare 
aziendale (numeri 51 e 100) è fermo all’inizio degli anni Duemila e la delicata 
situazione di bilancio dello Stato italiano non permette di trovare le coperture 
per rendere più coerenti con l’attuale costo della vita quantomeno le soglie 
economiche relative alle erogazioni liberali, ai beni o servizi ceduti a dipen-denti 
e ai buoni pasto. Ai vincoli di natura economica si aggiungono quelli 
tecnico-legislativi: quando è stato scritto il TUIR (1986) non si poteva imma-ginare 
il successo di quelle politiche che ora ricomprendiamo nella materia 
“welfare aziendale”. Le situazioni immaginate, le fattispecie che si volevano 
regolare, sono obsolete e costringono gli operatori a forzature interpretative 
per provare a replicare in Italia le buone pratiche internazionali. A questa ori-ginaria 
incertezza, la tradizione nostrana di produrre diritto mediante circolari 
e interpelli, che più volte sono intervenuti sulla materia, ha aggiunto ulteriori 
complicazioni, evitabili solo con la scrittura di nuovi articoli legislativi, chiari 
ed efficaci. 
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Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma possibile XV 
Un ulteriore nemico della diffusione di piani welfare aziendale nelle nostre 
imprese è il conflitto tuttora vigente tra normativa fiscale e normativa lavori-stica. 
Se la prima è piuttosto chiara nell’esigere la volontarietà datoriale nella 
spesa per politiche di welfare, atto che non deve derivare da obblighi contrat-tuali 
di alcun genere (è spiegato nella parte II di questo volume), la seconda, 
quantomeno dal 2010, sta provando ad incentivare scambi contrattuali di se-condo 
livello per incrementare la performance aziendale, condizionando il go-dimento 
della defiscalizzazione e decontribuzione delle componenti di salario 
legate ad incrementi di produttività alla sottoscrizione di quegli stessi accordi 
che, se firmati, impediscono di beneficiare dei vantaggi del TUIR. Ecco che si 
spiega anche l’apparente disinteresse delle parti sociali verso il welfare azien-dale 
vero e proprio, a tutto vantaggio del meno innovativo welfare contrattuale 
e dei più complessi accordi di secondo livello contenenti indicatori di misura-zione 
della produttività per assolvere alle richieste del decreto del Presidente 
del Consiglio dei Ministri 22 gennaio 2013 (confermato il 19 febbraio 2014, si 
veda la parte III). La concezione ancora solo paternalistica del welfare che tra-spare 
dal TUIR toglie dalla disponibilità di innovativi accordi sindacali la pre-disposizione 
di servizi per tutti i dipendenti o categorie di essi, a meno di non 
immaginare teorici accordi-quadro per mascherare dietro a propositi “di carta” 
veri e propri obblighi contrattuali, che non devono risultare all’Agenzia delle 
entrate. 
Dietro a questo paradosso, tutt’altro che secondario, nonostante la sottovaluta-zione 
della dottrina, se ne nasconde un altro altrettanto bizzarro. È indubbio 
che l’esiguità delle somme esentate dal peso della tassazione renda poco van-taggiosa 
la predisposizione di piani di welfare per la piccola e media impresa 
che non possa contare su rilevanti economie di scala. Al contrario, la fornitura 
di servizi può essere un intelligente forma di risparmio per la grande azienda. 
Questa, però, a differenza della prima, ha uno scambio continuativo con le for-ze 
sindacali e quindi non può permettersi operazioni unilaterali che possono 
addirittura essere politicamente lette come provocatorie proprio rispetto ai sin-dacati, 
che difficilmente rinunciano a partecipare alla costruzione del menù di 
servizi per i lavoratori. 
In sintesi, la situazione attuale è quella di una normativa arretrata e contraddi-toria, 
che scoraggia la micro e piccola impresa in ragione degli scarsi vantaggi 
a bilancio a fronte degli elevati costi di costruzione dei piani di welfare, ma al-lo 
stesso tempo mette in difficoltà la grande che si trova a non poter coinvol-gere 
le forze sindacali “alla luce del sole” per non incorrere in (per ora solo 
teoriche, non si conoscono casi) sanzioni amministrative. 
@ 2014 ADAPT University Press
XVI Executive summary 
In attesa di un intervento legislativo risolutore, gli addetti ai lavori vanno sem-pre 
più concentrandosi sulla costruzione di piani di welfare per la micro, pic-cola 
e media impresa. I case studies classici individuano come modelli solo 
importanti gruppi manifatturieri o di servizi (citati anche in questo volume, 
parte IV), certamente interessanti, ma poco utili come benchmark da imitare 
per il piccolo imprenditore veneto o lombardo o emiliano. È allora possibile 
costruire schemi di welfare per il principale motore dell’economia italiana, 
ovvero la micro e piccola impresa diffusa? Certamente sì, se si ha la pazienza 
di superare la retorica mediatica attorno ai famosi casi di successo della grande 
imprenditoria e si immagina un modello nuovo, ma altrettanto vantaggioso. 
In Italia, ad oggi, paiono essere tre le possibilità di azione (parte IV), anche tra 
loro sommabili. 
Le imprese interessate alla costruzione di programmi di servizio per i propri 
dipendenti possono associarsi in rete, moltiplicando il numero dei lavoratori 
interessati e quindi creando le stesse economie di scala della grande impresa. 
La regia dell’alleanza può ricadere su un solo soggetto o può essere anch’essa 
condivisa mediante la creazione di una sorta di sovrastruttura che amministra 
il piano di welfare per tutti i soggetti giuridici in rete. 
Una dinamica simile può generarsi anche senza la creazione (più o meno for-malizzata) 
di una vera e propria rete, ma affidandosi alla capacità di recluta-mento 
di soggetti interessati da parte di un operatore specializzato del settore, 
una società di servizi che abbia un evidente interesse economico diretto alla 
creazione di un partecipato gruppo di piccole imprese disponibile a comprare 
dall’operatore la costruzione (se non anche l’ideazione) del piano. 
Di natura non commerciale, ma associativa, è invece la costruzione di un rag-gruppamento 
di imprese governato dall’associazione datoriale alla quale que-ste 
aderiscono, che si fa carico del perfezionamento, della gestione e del con-trollo 
del piano di welfare condiviso tra tutte le aziende interessate a partecipa-re 
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al programma. 
Questa terza è forse la forma più efficace per rendere il welfare aziendale una 
possibilità concreta e non solo una ipotetica per la micro e piccola impresa. 
L’associazione datoriale conosce il settore, i bisogni delle proprie imprese, il 
territorio certamente meglio di qualsiasi società di servizi, che comunque po-trebbe 
essere coinvolta in seconda battuta per l’attuazione pratica del piano; la 
cui regia è bene comunque rimanga in capo agli stessi imprenditori o alla loro 
associazione di rappresentanza. È questo anche un modo per fare incontrare i 
mondo delle relazioni di lavoro e il welfare aziendale. È infatti nelle capacità
Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma possibile XVII 
di una associazione datoriale la condivisione col sindacato di accordi territo-riali 
che sottraggano il welfare alla paternalistica generosità dell’imprenditore, 
facendolo diventare occasione di partecipazione, senza incappare nelle sanzio-ni 
dell’Agenzia delle entrate. 
Gli anni a venire dimostreranno la reale volontà di imprenditori, lavoratori, as-sociazioni 
datoriali, sindacati, nonché dello Stato, di costruire soluzioni capaci 
di realizzare quel modello win-win-win che rende originale – e probabilmente 
anche necessaria – l’esperienza del welfare aziendale. 
@ 2014 ADAPT University Press
Parte I 
QUADRO STORICO 
E CONTESTO SOCIO-ECONOMICO
Dal welfare di Stato al welfare aziendale 
di Carmen Di Stani, Emmanuele Massagli 
Cos’è (davvero) il welfare aziendale? La chiarezza concettuale della nozione è 
inversamente proporzionale alla sua capacità evocativa. Intorno al tema aleg-gia 
una sensazione di indefinitezza giuridica paragonabile a quella che caratte-rizza 
un altro item della modernità, tematicamente affine: quello della respon-sabilità 
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sociale. 
Tralasciando il mero formalismo definitorio, per intendere l’essenza del welfa-re 
aziendale bisognerebbe indagare i fattori socio-economici che oggi giustifi-cano 
la crescente attenzione di imprese, lavoratori, politica e dottrina verso 
questo tema. 
Il welfare aziendale è il tentativo di risposta al costante indebolimento dello 
stato sociale (welfare state) in materia di previdenza, assistenza, istruzione e 
sanità. I lavoratori, diffidenti della debole “macchina” pubblica, sempre più ri-chiedono 
alle imprese di sostituirsi allo Stato in compiti prima ad esso asse-gnati, 
per il tramite di politiche aziendali in grado di aumentare i livelli di pro-duttività 
contemporaneamente fidelizzando i propri dipendenti. Così definito il 
welfare aziendale si connota come uno strumento bivalente, benefico per 
l’impresa, poiché potenzialmente capace di incrementare i risultati economici, 
ma desiderabile anche per i dipendenti, poiché sostitutivo di servizi e forme di 
tutela altrimenti assenti. 
L’Italia, violentemente investita dalla prima crisi globale della storia moderna, 
si è trovata ad affrontare il problema della difficile conciliazione fra l’esigenza 
di contenere la spesa pubblica e di rendere sostenibile il sistema di welfare, 
tradizionalmente piuttosto pervasivo. In uno dei Paesi europei con la maggiore 
spesa pubblica il corto circuito è stato inevitabile: le istituzioni, anche sotto la 
pressione dei “controllori” europei, hanno dovuto (e sempre più dovranno) ri-
4 Carmen Di Stani, Emmanuele Massagli 
durre la spesa, inevitabilmente indebolendo anche le politiche di protezione 
sociale. In questo contesto le politiche di welfare aziendale possono essere un 
portentoso strumento integrativo, sebbene certamente non sostitutivo, delle tu-tele 
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del welfare state. 
Per quanto sia molto cresciuta negli anni l’attenzione di politica, media, im-prese 
e parti sociali, le esperienze di welfare aziendale in Italia sono ancora 
limitate alle grandi imprese e sono sperimentate solo nel centro-nord. Proprio 
per evitare che il welfare aziendale diventi un fenomeno di nicchia, sono sem-pre 
più frequenti bandi regionali e piani nazionali di sostegno alla sperimenta-zione 
di pratiche di welfare (si pensi agli stanziamenti di Italia Lavoro o ai 
bandi dedicati di Regione Lombardia e Regione Veneto). 
Sebbene la normativa fiscale e in particolare la vetustà delle norme del Testo 
Unico delle imposte sui redditi sembrino significare il contrario, anche 
l’amministrazione pubblica ha quindi interesse che si diffondano azioni di 
welfare capaci di remunerare i lavoratori non solo in moneta liquida, ma anche 
in benefit e servizi, che ben meno pesano sul cuneo fiscale e sul costo del la-voro 
per unità di prodotto (CLUP). Uno dei vantaggi del welfare privato è, in-fatti, 
proprio quello di offrire al dipendente, a parità di costo aziendale, un va-lore 
in beni e servizi superiore a quella che sarebbe stata l’erogazione diretta in 
busta paga. Per quanto il dipendente sia naturalmente propenso a preferire 
l’erogazione monetaria, l’apprezzamento verso queste iniziative è crescente. 
Le ricerche economiche calcolano che il misuratore di impegno del lavoratore 
(employee engagment index) aumenti del 30% quando il welfare viene intro-dotto 
e del 15% quando un servizio già esistente viene migliorato. Per 
l’impresa si tratta di un vero e proprio investimento: 150 euro impiegati in mi-sure 
di welfare possono portare a un guadagno di 300 euro tra risparmio effet-tivo 
e aumento di produttività (1). Le misure di welfare erogate nel rispetto del 
quadro normativo vigente consentono la completa deducibilità dei costi per 
l’azienda e non concorrono alla formazione di reddito di lavoro per il dipen-dente. 
Anche grazie a questo trattamento fiscale di favore (per quanto meno 
vantaggioso di come calcolato nel resto d’Europa) il welfare aziendale consen-te 
di raggiungere tre obiettivi gestionali: 1) l’aumento della retribuzione reale 
dei lavoratori, senza corrispettivo aggravio del costo del lavoro per unità di 
prodotto; 2) il miglioramento del clima aziendale, del benessere dei lavoratori 
e del loro potere d’acquisto, con effetti diretti sulla riduzione dell’assenteismo, 
dei costi d’inefficienza e con un innalzamento dell’orgoglio di appartenenza; 
(1) F. RIZZI, R. MARRACINO, L. TOIA, Il welfare sussidiario: un vantaggio per aziende e di-pendenti, 
McKinsey & Company, 2013.
Dal welfare di stato al welfare aziendale 5 
3) l’ottimizzazione dell’impatto fiscale e contributivo del compenso non mo-netario 
sia per i lavoratori che per l’impresa. 
Tenendo conto della struttura del sistema produttivo italiano, costituito in pre-valenza 
da micro e piccole imprese, ancora molto modeste sono le quote di la-voratori 
dipendenti che ricevono misure dirette di welfare aziendale. Senza ci-tare 
pratiche evolute di welfare, basti ricordare che i buoni pasto sono ricevuti 
solo dal 17,6% dei lavoratori, le mense aziendali fruite dall’8,4%, appena il 
2,3% gode di servizi sanitari aggiuntivi e un microscopico 0,4% riceve il rim-borso 
delle spese per l’asilo nido o per altri servizi di cura familiare (misure, 
queste ultime, capaci di realizzare una migliore conciliazione famiglia-lavoro 
per le donne lavoratrici). Se convintamente sostenuta, la diffusione del welfare 
aziendale porterebbe indubbi benefici micro e macroeconomici: 
dall’alleggerimento della pressione sul bilancio pubblico al rafforzamento dei 
legami fra imprese e territori, dalla fidelizzazione dei dipendenti alla promo-zione 
della nuova economia mista dei servizi, con effetti positivi anche sulla 
crescita del PIL, sull’occupazione femminile e sulle abitudini familiari. 
Se è positivo che oltre l’80% delle aziende presenti in Italia con più di 500 di-pendenti 
abbia avviato una qualche iniziativa di welfare aziendale (ben il 43% 
di esse offre almeno due tipologie di interventi di welfare) (2), è ora necessario 
che questa particolare politica si diffonda anche alle imprese medio-piccole. 
Perché questo avvenga è certamente necessario l’intervento dello Stato, so-prattutto 
aggiornando il TUIR, ma non è sufficiente. È altrettanto indispensa-bile 
la disponibilità degli imprenditori ad associarsi in rete per realizzare quel-le 
economie di scala la cui assenza rende ben poco appetibile le politiche di 
welfare aziendale. Perché si creino reti di questo genere è opportuno un mag-giore 
coinvolgimento delle associazioni datoriali, già istituzionalmente deputa-te 
ad essere registi di queste aggregazioni, per il bene del bilancio dei propri 
associati, dell’economia del territorio e della competitività dello Stato. 
Questa è una delle sfide dell’economia italiana nei prossimi anni. 
(2) E. PAVOLINI, U. ASCOLI, M.L. MIRABILE, Tempi moderni. Il welfare nelle aziende in Italia, 
il Mulino, 2012. 
@ 2014 ADAPT University Press
Le origini del welfare aziendale: 
dalle colonie operaie ai fringe benefits 
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di Daniele Grandi 
Le prime esperienze di intervento sociale da parte delle imprese prendono 
forma nella lunga fase paleotecnica che precede lo sviluppo industriale 
dell’Italia e nascono dalla particolare intraprendenza e dalla capacità innovati-va 
di un singolo imprenditore, oppure da una specifica volontà di natura pub-blica. 
Gli esempi più significativi di questo periodo (anni Quaranta e Cinquan-ta 
dell’Ottocento) sono il villaggio di Larderello in Toscana e la colonia ope-raia 
di San Leucio, nei pressi di Caserta. 
Nello stesso periodo, dal lato delle associazioni di lavoratori, nascono le socie-tà 
di mutuo soccorso (la prima a Pinerolo nel 1844 su iniziativa di un gruppo 
di calzolai). La funzione essenziale di queste nuove realtà è costituita dalla 
somministrazione gratuita di cure ai soci in caso di malattia, ma l’assistenza 
progressivamente coprirà anche i casi di invalidità, vecchiaia e morte. Nel 
1879 in Italia già esistono 1959 società che contano 327.173 soci effettivi. 
Alla fine dell’Ottocento, mentre il fenomeno delle società di mutuo soccorso 
va ulteriormente diffondendosi, grazie al riconoscimento legislativo e al soste-gno 
proveniente dal mondo cattolico, anche il paternalismo italiano inizia a 
configurarsi con caratteri organici, pur rimanendo legato alla figura carismati-ca 
dell’imprenditore e riguardando quasi esclusivamente le industrie del tessile 
(comparto economico che traina il primo vero sviluppo industriale italiano). I 
casi più noti sono quelli di Cristoforo Benigni Crespi a Crespi d’Adda, di Na-poleone 
Leumann a Collegno, di Gaetano Marzotto a Valdagno e di Alessan-dro 
Rossi a Schio, nel vicentino. Nasce un fenomeno del tutto nuovo, ma de-stinato 
a svilupparsi notevolmente negli anni a venire: molti imprenditori av-vertono 
il dovere sociale di garantire un futuro ai propri lavoratori e alle relati-ve 
famiglie.
Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefit 7 
La realizzazione in quegli anni di villaggi e strutture accanto alle fabbriche per 
alloggiare e assistere gli operai che provengono da località distanti non si deve 
esclusivamente alla posizione marginale degli opifici, ma anche ad altre esi-genze 
come il procedere ad un sostanziale distacco degli operai dal loro retro-terra 
agricolo e sostenere il fattore lavoro nell’ambito del “nuovo” sistema di 
fabbrica. In questo periodo, l’impegno sociale degli imprenditori, ascrivibile a 
questa corrente di “paternalismo organico”, si configura dunque come una sor-ta 
di compensazione, rispetto ai processi di meccanizzazione, ai tempi e ai rit-mi 
di lavoro più incessanti imposti dalla nuova organizzazione delle attività 
produttive in chiave industriale. 
All’inizio del Novecento lo sviluppo di forme di welfare, pubblico e privato, 
viene progressivamente imposto non solo dalle rivendicazioni dei lavoratori, 
ma anche dall’obiettivo dei Governi di garantire la pace sociale in maniera non 
repressiva e dall’interesse degli imprenditori più lungimiranti, di numero sem-pre 
maggiore e sempre più impegnati nella promozione di azioni sociali 
all’interno delle proprie imprese, ad attrarre e trattenere manodopera qualifica-ta. 
È durante il fascismo che si afferma definitivamente il welfare aziendale come 
strumento per aumentare la produttività e per contrastare la conflittualità ope-raia 
(quindi in una logica più economicistica che paternalistica). All’interno 
dell’economia corporativa promossa in quegli anni, il cui obiettivo dichiarato è 
il superamento della contrapposizione tra capitale e lavoro, accanto all’Opera 
nazionale dopolavoro, nata nel 1925 con il compito specifico di organizzare il 
tempo libero delle masse popolari, viene chiesto alle aziende un impegno con-creto 
nella stessa direzione. A tal fine, e vista anche la necessità del consenso 
politico e di nuove procedure di controllo sugli operai da parte delle istituzioni 
e dei grandi gruppi industriali, si arriva a una riscoperta, in chiave totalmente 
nuova e più moderna, del paternalismo ottocentesco gettando le fondamenta di 
quello che sarà il welfare aziendale italiano del XX secolo. 
Un esempio di questo nuovo ciclo di azioni sociali da parte dell’impresa è 
quello del villaggio di Torviscosa a Torre di Zuino realizzato nel 1938 dalla 
Snia Viscosa, guidata da Franco Marinotti. All’interno del centro abitato ven-gono 
ospitati oltre mille lavoratori e il controllo che l’imprenditore esercita 
non solo sul tempo libero e la vita quotidiana di questi, ma anche sulle attività 
produttive e l’insediamento in generale, è totale. Lo stesso fascismo è presente 
solo in minima parte ed esclusivamente attraverso la mediazione di Marinotti. 
L’ordine sociale si basa sulla famiglia, sulla stabilità della forza lavoro, 
sull’assenza di conflittualità e sul forte attaccamento, da parte dei lavoratori, 
alla fabbrica. Il paternalismo qui messo in atto riesce bene ad adattarsi alle lo- 
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8 Daniele Grandi 
giche del fascismo e, grazie alla sua articolazione, anche ai diversi scenari po-litici 
che si aprono dopo la sua caduta. 
La Società Montecatini fornisce un altro esempio di costruzione del welfare 
aziendale durante gli anni del fascismo. Dominante è l’autorevole figura 
dell’imprenditore Guido Donegani, che in quegli anni, a fianco di una forte 
politica espansionistica che lo porterà a diventare leader di una delle principali 
industrie italiane attiva nei settori minerari e chimici, elabora un articolato 
programma sociale e assistenziale, esteso a tutto il territorio nazionale, in quel-le 
località dove sono situati i suoi stabilimenti (oltre cento). In riferimento alla 
prevenzione degli infortuni e alla tutela della salute viene innanzitutto promos-sa 
un’azione di tipo educativo che riguarda anche l’igiene personale. Viene 
inoltre creato un apposito corpo di assistenti che diventerà un punto di riferi-mento 
per l’operaio e la sua famiglia in base ad un rapporto costruito sulla fi-ducia, 
sulla solidarietà e sull’armonia che deve caratterizzare, in ogni momen-to, 
la vita aziendale. Per i bambini vengono creati asili, scuole e colonie. Parti-colare 
attenzione viene rivolta agli interventi alimentari e alle attività ricreati-ve 
e sportive: vengono a tal fine creati spacci, mense, refettori, campi da cal-cio, 
teatri, cinema e biblioteche. 
Statisticamente, nel 1944 in Italia i locali di residenza in assegnazione ai di-pendenti 
delle società sono oltre 11.500, per un totale di circa mille edifici, ai 
quali si devono aggiungere i fabbricati che ospitano i dopolavoro, le opere as-sistenziali 
e ricreative e le mense. 
Certamente da citare anche lo stabilimento della società Dalmine, al quale si 
affianca un ampio e articolato villaggio operario, che durante il periodo fasci-sta 
diventa un prototipo di company town capace di ospitare (anno 1941) oltre 
7.300 abitanti. Come la Montecatini, anche la Dalmine offre ampio ventaglio 
di servizi di welfare aziendale. Fra questi si sottolinea la scuola popolare ope-raia 
dove si svolgono, fra il 1922 e il 1929, i primi corsi serali e professionali, 
la scuola elementare istituita nel 1925 (anticipando di tre anni quella pubblica) 
e una scuola apprendisti a partire dal 1937. Nel 1922 viene costituita una cassa 
mutua per fornire aiuto ai soci malati e l’anno successivo viene attivata anche 
una cassa di previdenza per gli impiegati. Nel 1935 nasce la Pro Dalmine, so-cietà 
incaricata di gestire il patrimonio immobiliare non industriale della città e 
tutte le opere sociali, ricreative, culturali e assistenziali destinate agli operai e 
alle loro famiglie e di consegnare borse di studio, premi di fedeltà, nonché pre-stiti 
ai dipendenti per l’acquisto della casa. 
Nella congiuntura favorevole del secondo dopoguerra, determinata dalla forte 
espansione delle economie occidentali e da un dialogo responsabile tre le parti 
sociali sulle tematiche del lavoro, si apre una fase fondamentale per la costru- 
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Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefit 9 
zione dello stato sociale. È in questa fase che diverse aziende già attive in am-bito 
sociale danno nuovo slancio al proprio impegno, costruendo nuovi alloggi 
e rafforzando i propri apparati assistenziali incentrati sulle strutture del dopo-lavoro. 
In tale contesto spicca il celebre modello di welfare aziendale ideato da Adria-no 
Olivetti, che aveva l’ambizione di assistere i propri lavoratori in tutti gli 
aspetti della vita, in azienda e in famiglia. La missione dell’impresa, lo stato 
sociale, le costanti relazioni con il territorio e la dimensione culturale 
dell’industria si fondono insieme per superare la visione strumentale ed eco-nomicistica 
del welfare, molto (per Olivetti “troppo”) attenta ai livelli produt-tivi. 
Le attività assistenziali e sociali della Olivetti, presenti già da tempo nella 
cultura dell’impresa, vengono gestite a partire dal 1948 dal Consiglio di ge-stione, 
un organismo che prevede il coinvolgimento diretto dei lavoratori nelle 
scelte gestionali ed è su queste linee di cogestione che nel 1960, oltre alla rea-lizzazione 
ad Ivrea di alcuni quartieri residenziali, in un complesso quadro di 
attività culturali e di opere sociali e sanitarie, l’azienda istituisce anche il Fon-do 
di solidarietà interna, che prevede numerosi interventi previdenziali e assi-stenziali, 
compresi i trattamenti ospedalieri, integrativi di quelli pubblici. An-che 
in questo caso l’iniziativa aziendale supplisce alle carenze del sistema 
pubblico o ne anticipa le direttive finali, come accade per le scuole materne e 
gli asili-nido, che precedono la nascita della scuola materna pubblica avvenuta 
nel 1970. 
Altro caso noto è quello della Larderello degli anni Cinquanta, presieduta da 
Aldo Fascetti, esponente di spicco della DC. Tra il 1954 e il 1959, insieme 
all’espansione delle attività produttive viene promossa anche la fondazione di 
un nuovo villaggio operaio particolarmente attento alle dinamiche sociali e 
comunitarie. Al centro di questo progetto, in maniera indicativa e con una pro-spettiva 
totalmente nuova rispetto al welfare aziendale dei decenni precedenti, 
non viene più collocata soltanto la fabbrica, con i suoi ritmi produttivi e le sue 
gerarchie, ma la vita stessa degli operai. Quest’ultima, dunque, assume una 
dimensione propria, capace di rompere la totale identificazione tra il lavoratore 
e l’impresa, punto di forza sia del paternalismo ottocentesco, sia del welfare 
aziendale degli anni Trenta (quello vocato a contenere la conflittualità degli 
operai e a concorrere attivamente alla costruzione del consenso). Alla logica 
del capitalismo e del profitto, gli imprenditori più illuminati provano ad af-fiancare 
uno spazio sociale regolato dagli ideali della solidarietà, solitamente 
di ispirazione cristiana. 
Anche l’ENI è molto attiva nelle politiche sociali per esplicita volontà di Enri-co 
Mattei di trasformare la gestione delle persone in un vantaggio competitivo, 
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enfatizzando l’attenzione ai dipendenti e all’ambiente di lavoro. L’innovativo 
progetto urbanistico di Metanopoli, villaggio residenziale per i lavoratori ENI 
a San Donato Milanese (avviato nel 1953), è il segno compiuto di questo ap-proccio. 
Case, laboratori di ricerca e uffici sono progettati per offrire ai dipen-denti 
un ambiente di lavoro confortevole e all’avanguardia, immerso nel verde 
e fornito di servizi collettivi tra cui un asilo, una scuola, un cinema e un centro 
sportivo. 
Questa corrente a favore dell’azione sociale dell’impresa sviluppatasi dal se-condo 
dopoguerra agli anni Sessanta è destinata a diradarsi fortemente nei de-cenni 
successivi, poiché parte del capitalismo italiano orienta la sua azione in 
direzione del neoliberismo anglosassone e, contestualmente, lo Stato va sem-pre 
più crescendo con le riforme previdenziali degli anni Sessanta e con la co-stituzione 
del Servizio sanitario nazionale. Il modello perseguito è lo stato so-ciale 
inteso come mix tra il modello corporativo di matrice bismarckiana, in 
campo pensionistico, e le esperienze anglosassoni di welfare universalistico di 
matrice beveridgiana per quel che concerne l’assistenza sanitaria. 
C’è quindi sempre meno bisogno del welfare aziendale, che diventa sempre 
più marginale e costoso, quantomeno indirettamente visto che cresce non poco 
l’onerosità dei contributi sociali obbligatori a carico delle imprese destinate a 
pagare il welfare pubblico, che nel contempo assorbe numerose casse, enti e 
fondazioni di natura privatistica. 
La progressiva emarginazione del welfare aziendale viene interrotta solo negli 
anni Ottanta grazie allo sviluppo dei piani di fringe benefits per i lavoratori, in 
particolare i più qualificati. Fenomeno tipico delle grandi multinazionali, che 
conseguentemente in Italia incomincia ad osservarsi nelle filiali italiane delle 
aziende statunitensi. Da un lato i programmi assistenziali e previdenziali di 
matrice aziendale diventano sempre più ampi e sofisticati, dall’altro vengono 
inserite voci retributive indirette sconosciute al welfare del secolo precedente 
(stock options, auto aziendali, ecc.). Questo nuovo approccio al welfare azien-dale 
prende la forma di una moderna politica retributiva per élite, limitata ai 
manager e ai professionals delle filiali delle grandi società globalizzate. 
È solo in seguito alla crisi degli ultimi anni e alla progressiva e conseguente 
riduzione dello spazio d’intervento dello stato sociale che, a fronte della sem-pre 
maggiore evidenza dei limiti di natura organizzativa ed economica 
dell’intervento pubblico in materia assistenziale e previdenziale, questo orien-tamento 
tende a mutare. Si assiste ormai da anni a un ripensamento del ruolo 
del welfare aziendale da parte delle grandi aziende, le quali decidono di af-fiancare 
a strumenti più tradizionali, sopravvissuti nel corso degli anni, anche 
pratiche in grado di sfruttare tutti i vantaggi offerti dalla normativa fiscale e 
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Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefit 11 
previdenziale, nonché azioni che vadano a incidere sulle modalità e sui tempi 
di lavoro, per offrire a tutti i lavoratori risposte ai nuovi bisogni e ai nuovi ri-schi 
sociali che vanno sorgendo e ai quali il welfare pubblico non riesce più a 
far fronte. 
Oggigiorno larga parte dell’offerta aziendale si orienta verso il bilanciamento 
dei tempi di vita e lavoro e la tutela della genitorialità: la conciliazione vita-lavoro 
è una delle principali aree di welfare aziendale. Ci sono poi l’assistenza 
sanitaria e i contributi previdenziali, la tutela della salute, le misure di soste-gno 
al reddito e gli interventi in tema di formazione e istruzione (queste ultime 
solo recentemente riconosciute come benefit). Se infatti l’erogazione di for-mazione 
non è di per sé pratica nuova per le imprese, oggi l’acquisizione e il 
continuo sviluppo delle proprie competenze in un’ottica di life-long learning 
sono elementi tanto cruciali per lo sviluppo professionale quanto difficili da 
reperire in un mercato del lavoro in cui i datori di lavoro non sono incentivati a 
sostenere i costi della formazione. 
Il welfare aziendale è oggi definibile come «l’insieme dei benefit e servizi for-niti 
dall’azienda ai propri dipendenti al fine di migliorarne la vita privata e la-vorativa, 
che vanno dal sostegno al reddito familiare, allo studio, e alla genito-rialità, 
alla tutela della salute e fino a proposte per il tempo libero e agevola-zioni 
di carattere familiare» (1). È uno dei principali sostegni del welfare pub-blico 
mediante ricchezza privata e per questo anche ad esso ci si riferisce par-lando 
di “secondo welfare”, ovvero quel nuovo welfare mix caratterizzato 
dall’ingresso nell’arena del welfare di soggetti, privati, che possono, grazie al 
loro radicamento territoriale e in partnership con gli enti locali, contribuire a 
dare risposte a vecchi e nuovi bisogni. 
(1) La definizione di F. MAINO, G. MALLONE, Secondo Welfare e imprese: nesso e prospettive, 
in La Rivista delle Politiche Sociali, 2012, n. 3, 195-207, completa quanto presentato nel capi-tolo 
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precedente.
Redistribuzione e retribuzione: 
le diverse funzioni del welfare aziendale 
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di Daniele Grandi 
Le questioni che il welfare aziendale oggi pone in quanto complemento del si-stema 
pubblico sono diverse se viste da una prospettiva politologica o da una 
prospettiva aziendalistico-organizzativa. Le diverse concezioni di benessere 
che sottendono a tali due punti di vista introducono diversi ordini di istanze 
che gli addetti ai lavori sono portati a considerare nel trattare l’argomento in 
esame. 
Da un punto di vista prettamente politologico assume importanza la correla-zione 
tra il ridimensionamento del welfare state e l’impulso del welfare azien-dale. 
In particolare, considerando il welfare come l’assetto delle condizioni di 
vita degli individui, delle risorse e delle opportunità a loro disposizione lungo 
le diverse fasi dell’esistenza, che una determinata comunità politica considera 
legittima spettanza di cittadinanza sociale, e il welfare state come l’insieme 
delle politiche pubbliche attraverso cui lo Stato fornisce ai propri cittadini pro-tezione 
contro rischi e bisogni prestabiliti, sotto forma di assistenza, assicura-zione 
o sicurezza sociale, allora il concetto di welfare implica l’idea di bisogni 
non soddisfatti con il solo reddito da lavoro per ragioni quali-quantitative e il 
concetto di welfare aziendale quello che tali bisogni siano almeno in parte 
soddisfatti (o soddisfabili) direttamente dall’azienda, tramite strumenti assi-stenziali, 
assicurativi, o di altro tipo, diversi comunque, per natura e intitola-zione 
soggettiva, da quelli propri e tipici del welfare state. 
In questo scenario, mentre il welfare state interviene tipicamente sul versante 
quantitativo, ovvero quello dell’insufficienza delle risorse e della loro redistri-buzione, 
il welfare aziendale, secondo una prospettiva politologica, interviene 
sul versante qualitativo per sussidiare (in chiave integrativa o addirittura sosti-tutiva) 
il welfare state affetto da crisi fiscale, ovvero per erogare beni che né il
Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare aziendale 13 
reddito da lavoro, né il welfare state riescono ad assicurare ai lavoratori. Da 
qui, il fatto che la relazione di lavoro debba includere anche il soddisfacimento 
di tali esigenze non efficacemente soddisfatte dal compenso monetario diventa 
presupposto implicito all’idea di welfare aziendale. 
Da un punto di vista politologico, dunque, assumono rilevanza i bisogni del 
lavoratore/cittadino. A tal proposito, infatti, mentre da un lato si ravvisa un 
aumento delle grandi aziende, italiane e internazionali, che decidono, avendo 
disponibilità di risorse, di offrire pacchetti di welfare ai propri dipendenti, 
dall’altro si è in presenza di un tasso di disoccupazione che ha ormai superato 
il 12%, di una disoccupazione giovanile che si attesta oltre il 40% e di una 
quota di lavoratori occupati nelle PMI che nel 2010 raggiungeva l’80%. Cate-gorie, 
queste, che vanno a formare un cluster molto numeroso di soggetti che 
rimangono esclusi da tali politiche e che dunque non trovano risposta a quei 
bisogni che esse si propongo di soddisfare. Circostanza che determina una di-scriminazione 
non solo in base allo status di lavoratore occupato o disoccupa-to, 
ma anche a seconda delle diverse dimensioni del luogo di lavoro, andando 
a rafforzare ulteriormente quella distinzione tra c.d. insider e outsider che in 
Italia è già drammaticamente accentuata. 
In ambito economico il benessere può essere definito come il soddisfacimento 
della funzione di utilità di un singolo individuo e/o la massimizzazione delle 
funzioni di utilità degli individui che compongono una data collettività. Defi-nizione 
questa che può essere ricompresa nella più ampia nozione di well-being, 
lo stato di benessere fisico, mentale e sociale che è ben di più della 
semplice assenza dello stato di malattia o di infermità. 
Declinando tale definizione in ambito aziendale si può notare come la cura di 
questa dimensione di benessere del lavoratore vada a formare quel rapporto tra 
caring e control proposto dal welfare aziendale secondo una prospettiva pret-tamente 
aziendalistico-organizzativa. Prospettiva, questa, in cui confluisce la 
più recente evoluzione delle politiche aziendali di compensation & benfit in 
una logica di total reward, che presuppone che il salario rappresenti certamen-te 
un elemento importante della retribuzione, ma non l’unica componente. Per 
le moderne politiche del personale lo scambio tipico della relazione lavoristica 
deve arricchirsi di nuovi elementi qualificativi quali il work environment (qua-lità 
del luogo di lavoro, clima organizzativo, sviluppo e carriera, ecc.), il com-pany 
environment (bilancio sociale, valori, certificazioni ambientali, ecc.) e il 
work-life balance (servizi per il benessere personale, servizi per la famiglia, 
ecc.). 
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A sostegno del welfare aziendale quale forma di integrazione dei salari tesa 
all’assicurazione di un certo livello di benessere è intervenuta anche una nuova 
branca degli studi psicosociali, denominata “psicologia della felicità”. Non es-sendo 
questa la sede adatta per una trattazione diffusa della disciplina ci si li-mita 
a sottolineare come una delle acquisizioni più interessanti si trovi nella 
documentazione che nei Paesi più industrializzati l’incremento marginale del 
reddito non corrisponde all’incremento marginale della percezione soggettiva 
della felicità. È stato rilevato che i fattori che determinano la percezione sog-gettiva 
di felicità non sono limitati alle ricompense di natura economica (in 
primis il tenore di vita materiale), ma ne includono molti altri (famiglia, stato 
di salute, qualità del lavoro e delle relazioni di lavoro, ecc.). Il benessere sa-rebbe 
quindi una funzione sia del tenore materiale della vita sia dei beni rela-zionali. 
Se è così, è certamente importante, anche da un punto di vista econo-mico, 
disegnare ogni tipo di organizzazione (anche quella lavorativa) in ma-niera 
tale da coordinare armonicamente i bisogni della persona. 
Così, nel tentativo di intercettare tali bisogni attivando uno scambio virtuoso 
fra crescita della produzione e miglioramento del lavoro e della vita dei dipen-denti, 
le aree in cui le imprese intervengono più diffusamente con politiche di 
welfare aziendale sono: tutela pensionistica complementare e assistenza sani-taria 
integrativa; servizi di assistenza alla persona; servizi per bambini e adole-scenti; 
misure per la conciliazione fra lavoro e vita privata e per la condivisio-ne 
dei ruoli nella famiglia; iniziative di sostegno all’istruzione e 
all’educazione, sia per i giovani che per gli adulti; servizi di mobilità fra casa e 
luogo di lavoro; servizi ricreativi culturali e sportivi; forme di sostegno al po-tere 
d’acquisto dei lavoratori. Tali azioni testimoniano come l’eterogeneità dei 
beni che il welfare aziendale mira ad assicurare si lasci difficilmente tradurre 
in termini giuridico-contrattuali, spaziando infatti dal diritto corrispettivo 
(forma indiretta di retribuzione) al diritto non corrispettivo (diritto al telelavo-ro, 
al part-time, alla flessibilità oraria), dalle politiche retributive in senso 
stretto alle politiche del lavoro (politiche di conciliazione vita-lavoro, politiche 
di welfare familiare, ecc.). 
Trovare un equilibrio fra diverse dimensioni è uno degli obiettivi dei policy 
makers e degli addetti ai lavori nei prossimi anni. Conciliare la funzione redi-stributiva 
del welfare pubblico con la funzione retributiva e incentivante dei 
benefit aziendali non è operazione semplice e immediata. Al netto infatti della 
facoltà delle imprese di scegliere come meglio incentivare i propri dipendenti 
per implementare nuovi modelli organizzativi e incrementare la produttività, 
sullo sfondo emerge un’evidente problematica di equità e discriminazione, per 
quanto involontaria, tra occupati e disoccupati, dipendenti e autonomi, tipolo- 
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Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare aziendale 15 
gie di dipendenti. Per andare verso un modello di welfare aziendale più inclu-sivo 
e in grado di far fronte efficacemente alle istanze emergenti sarebbe ne-cessario 
promuovere aggiornamenti normativi tesi a rendere il welfare azien-dale 
più accessibile a tutte le imprese e allo stesso tempo incoraggiare un dia-logo 
più strutturato fra istituzioni locali e attori socio-economici del territorio 
(sindacati, associazioni datoriali, terzo settore) in modo da favorire la promo-zione 
di partnership pubblico-privato e reti multistakeholder. 
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Parte II 
AMBITI DI INTERESSE, 
PROFILI GIURIDICI, 
PROBLEMATICHE FISCALI
Elementi di previdenza complementare 
e assistenza sanitaria integrativa 
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di Daniele Grandi 
Previdenza sociale 
La definizione “minimalistica” di previdenza è accantonamento di reddito da 
lavoro attuale (contribuzione) al fine di soddisfare bisogni futuri, in presenza 
di una duplice condizione: che sussista un vincolo eteronomo di indisponibilità 
per i consumi (c.d. “vincolo di destinazione previdenziale”) e che sussista un 
elemento solidaristico nell’ambito del gruppo tutelato. 
È importante sottolineare come non sia coessenziale alla previdenza una natu-ra 
legale/pubblicistica, essendo infatti costituzionalmente garantita anche la 
previdenza privata (complementare/integrativa o sostitutiva), e dunque nego-ziale. 
Ed è proprio nell’ambito di tale previdenza privata che negli anni No-vanta, 
in concomitanza con le riforme delle pensioni pubbliche, accanto al si-stema 
previdenziale tradizionale è nata o, in alcuni casi, è stata rilanciata, la 
previdenza integrativa o complementare. Essa è costituita in primo luogo dai 
fondi di categoria (o “negoziali”) chiusi, l’adesione ai quali è riservata ai 
membri di una categoria produttiva o occupazionale. I fondi chiusi vengono 
poi affiancati dai piani pensionistici individuali (PIP, piano individuale pen-sionistico 
di tipo assicurativo), cui tutti i cittadini possono aderire tramite la 
sottoscrizione di polizze assicurative, e dai fondi pensionistici “aperti”, a metà 
fra i fondi chiusi e i piani individuali, cui possono egualmente iscriversi tutti i 
cittadini. 
In particolare, si può ascrivere alla previdenza complementare aggiuntivo-integrativa, 
oltre a quella pensionistica tipicizzata dal d.lgs. n 252/2005, anche 
l’intervento degli enti bilaterali a integrazione dell’assicurazione sociale per 
l’impiego corrisposta ai lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionale,
20 Daniele Grandi 
prevista in via sperimentale per ciascuno degli anni 2013-2014-2015 dall’art. 
3, comma 17, della recente l. n. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro 
(legge Fornero), nonché le prestazioni integrative erogate ai sensi del comma 
11 dell’art. 3 della predetta legge dai fondi di solidarietà bilaterali. 
La previdenza complementare gode di un incoraggiante favore fiscale che si 
concretizza nella permessa deducibilità dal reddito complessivo dei contributi 
versati dal lavoratore e dal datore di lavoro alle forme di previdenza comple-mentare 
per un importo non superiore di euro 5.164, 57 (art. 10, comma 1, lett. 
e-bis, TUIR). 
La realtà dominante nell’ambito del secondo ramo previdenziale è quella dei 
fondi chiusi di origine negoziale, istituiti negli anni Novanta dalle parti sociali 
(sindacati e associazioni datoriali o dagli stessi datori di lavoro) e da queste 
gestiti in modo paritario negli organismi di governance interna. Si tratta di 
fondi cui possono aderire i lavoratori appartenenti al settore produttivo “pro-prietario”, 
regolati nei contratti collettivi di riferimento. Gli esempi più noti 
sono il fondo Cometa per i metalmeccanici, Alifond per l’industria alimenta-re, 
Fonchim per il settore chimico-farmaceutico. Accanto a tali fondi possono 
coesistere fondi negoziali di carattere territoriale (in alcuni casi addirittura 
dominanti rispetto a quelli di categoria) che raggruppano i lavoratori apparte-nenti 
allo stesso ambito geografico e allo stesso settore merceologico (Previ-labor 
per le aziende metalmeccaniche del bolognese) o anche a diversi settori 
produttivi (Fondo Solidarietà Veneto). 
La quota obbligatoria minima di versamento contributivo prevista dai contratti 
nazionali di settore si aggira intorno al 3-4% della retribuzione, con quote va-riabili 
e diverse per datori di lavoro e lavoratori e a seconda del livello di in-quadramento. 
Occorre poi sottolineare come in più di un caso, all’interno delle più ampie po-litiche 
di welfare aziendale, intervengano accordi aziendali che prevedono un 
incremento delle risorse da destinare alla previdenza complementare. Ad 
esempio, il gruppo ABB, aderente al fondo Cometa, in aggiunta a quanto con-cordato 
dalla contrattazione nazionale di settore ha previsto un versamento an-nuale 
di 100 euro da parte del datore di lavoro; nel gruppo Intesa Sanpaolo 
nella cassa di previdenza del personale della Cassa di risparmio di Padova e 
Rovigo (Cariparo) il datore di lavoro versa il 5% e i lavoratori posso versare 
da un minimo dello 0,61% ad un massimo del 14% della retribuzione. 
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Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa 21 
Assistenza sociale e sanitaria 
A differenza della previdenza, l’assistenza sociale eroga prestazioni monetarie 
o di servizi per la soddisfazione di bisogni socialmente rilevanti, non soddi-sfatti 
né dal reddito da lavoro, né da altri redditi (compresi quelli previdenzia-li). 
Inoltre, sempre a differenza della previdenza, la struttura non assicurativa 
la rende universalistica e gratuita, incardinata sullo status di cittadino anziché 
di lavoratore. 
L’assistenza, come la previdenza, può essere pubblica o privata. L’assistenza 
privata in particolare comprende due tipi di istituti: i fondi sanitari integrativi, 
sui quali verrà concentrata l’attenzione nei prossimi paragrafi vista la partico-lare 
rilevanza nell’ambito delle politiche di welfare aziendale, e le assicurazio-ni 
sanitarie commerciali. La differenza tra questi due istituti è ravvisabile in-nanzitutto 
nella non finalità di lucro dei fondi (al contrario delle assicurazioni), 
che forniscono prestazioni integrative rispetto al sistema pubblico con logiche 
non orientate al profitto. In secondo luogo, mentre le assicurazioni operano 
sulla base di principi attuariali secondo i quali i premi sono fondati su stime 
probabilistiche relative alle frequenze e al costo dei sinistri, i fondi si basano 
sulla solidarietà tra i gruppi aderenti. 
Fondi sanitari integrativi 
In base alla normativa vigente i fondi sanitari si configurano come forme di 
mutualità volontaria di natura integrativa rispetto al Servizio sanitario naziona-le 
(SSN). In particolare, come indicato nel d.lgs. n. 299/1999, essi possono co-prire: 
«prestazioni aggiuntive, non comprese nei livelli essenziali e uniformi di 
assistenza e con questi comunque integrate, erogate da professionisti e da 
strutture accreditati»; prestazioni erogate dal SSN «comprese nei livelli uni-formi 
ed essenziali di assistenza, per la sola quota posta a carico 
dell’assistito», come i ticket, le prestazioni erogate in libera professione e i 
servizi alberghieri (art. 9, comma 4, d.lgs. n. 299/1999). A queste indicazioni 
di carattere generale, contenute nel già citato d.lgs. n. 299/1999, vanno ad ag-giungersi 
le più specifiche indicazioni contenute nel “decreto Turco” che pre-cisano 
e ampliano in maniera significativa gli ambiti di intervento, facendo in 
particolare riferimento a: prestazioni socio-sanitarie in strutture accreditate re-sidenziali 
e semiresidenziali o in forma domiciliare per la quota pagata dagli 
assistiti; cure termali non a carico del SSN; medicina non convenzionale anche 
se erogata da strutture non accreditate; assistenza odontoiatrica limitatamente 
@ 2014 ADAPT University Press
22 Daniele Grandi 
alle prestazioni non a carico del SSN; assistenza ai non autosufficienti; presta-zioni 
odontoiatriche non comprese nei livelli essenziali e uniformi di assisten-za 
per la prevenzione, cura e riabilitazione di patologie odontoiatriche presso 
strutture autorizzate, anche se non accreditate. 
Il decreto del Ministero della salute del 31 marzo 2008 precisa che i fondi de-vono 
destinare alle prestazioni socio-sanitarie non comprese nei livelli essen-ziali 
e uniformi di assistenza e a quelle finalizzate al recupero della salute di 
soggetti temporaneamente inabilitati da malattia o infortunio per la parte non 
garantita dalla normativa vigente, nonché alle prestazioni di assistenza odon-toiatrica 
non comprese nei livelli essenziali di assistenza per la prevenzione, 
cura e riabilitazione di patologie odontoiatriche, una quota di risorse «non in-feriore 
al 20% dell’ammontare complessivo delle risorse destinate alla coper-tura 
di tutte le prestazioni garantite ai propri assistiti» (art. 1, decreto Ministero 
della salute 31 marzo 2008). Una tale enfasi posta sul carattere di complemen-tarietà 
dei fondi sanitari integrativi rispetto all’assistenza sanitaria pubblica 
permette di capire come questi siano stati concepiti, ovvero come vero e pro-prio 
“secondo pilastro” del sistema sanitario del Paese. 
I fondi integrativi, che come i fondi pensione possono essere “chiusi” (iscri-zione 
riservata agli appartenenti ad un settore produttivo, categoria professio-nale 
o azienda) o “aperti” (iscrizioni aperte a tutti i cittadini), possono avere 
una pluralità di fonti istitutive: contratti e accordi collettivi tra le parti sociali; 
accordi tra lavoratori autonomi, liberi professionisti o loro associazioni; rego-lamenti 
di Regioni, enti territoriali ed enti locali; delibere di organizzazioni 
non lucrative operanti nei settori dell’assistenza socio-sanitaria o 
dell’assistenza sanitaria; iniziativa di società di mutuo soccorso riconosciute 
dallo Stato o da «altri soggetti pubblici e privati, a condizione che contengano 
l’esplicita assunzione dell’obbligo di non adottare strategie e comportamenti di 
selezione dei rischi o di discriminazione nei confronti di particolari gruppi di 
soggetti» (art. 9, comma 3, lett. f, d.lgs. n. 229/1999). Si sottolinea inoltre che i 
contributi di assistenza sanitaria versati ai fondi o ad enti e casse aventi esclu-sivamente 
finalità assistenziale creati sulla base di accordi di categoria o 
aziendale sono fiscalmente deducibili fino ad un importo massimo di 3.615,20 
euro (art. 51, comma 2, lett. a, TUIR). 
All’atto pratico è ravvisabile una forte diffusione dei fondi sanitari integrativi 
aziendali, mentre più ridotti sono i casi in cui l’assistenza sanitaria integrativa 
prende la forma di polizze sanitarie fornite dalle compagnie di assicurazione. 
Mentre da un lato è ravvisabile la tendenza ad ampliare le prestazioni coperte 
da tali strumenti (spese per visite specialistiche, prestazioni diagnostiche, rico-veri 
ospedalieri, prestazioni oculistiche e odontoiatriche), dall’altro emerge 
www.bollettinoadapt.it
Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa 23 
ancora una limitata copertura della spesa per la non autosufficienza, nonostan-te 
le chiare indicazioni della normativa. 
In via di diffusione è la tendenza delle aziende, in sede di contrattazione inte-grativa, 
a incrementare la quota di contribuzione ai fondi sanitari fissata dai 
contratti nazionali, in sostituzione almeno parziale degli incrementi salariali. 
Un esempio è dato dall’impresa farmaceutica Angelini, che nell’accordo 
aziendale ha previsto per il 2011 una riduzione del premio di produttività, ri-spetto 
al 2010, da 2.070 euro a 1.900 euro lordi, compensato però 
dall’estensione ai familiari dei lavoratori della copertura sanitaria offerta dal 
fondo di categoria Faschim, totalmente a carico dell’azienda. 
A fianco degli orientamenti appena delineati vi sono però alcuni segnali che 
denotano una forte eterogeneità tra le condizioni presenti nei diversi settori e 
tra le categorie professionali. Tale eterogeneità riguarda innanzitutto la contri-buzione. 
Mentre infatti nel gruppo metalmeccanico ABB il fondo sanitario 
FAI è alimentato da versamenti pari a 33 euro annui da parte del datore di la-voro 
e dallo 0,55% della retribuzione lorda dal parte del lavoratore, nel fondo 
unificato del gruppo Intesa tali versamenti raggiungono i 900 euro e l’1% del-la 
retribuzione lorda. In secondo luogo, differenze rilevanti sono ravvisabili 
nei rimborsi assicurati per le prestazioni: per quel che concerne l’odontoiatria 
e prendendo in considerazione le stesse due realtà aziendali, si nota che il fon-do 
di ABB garantisce un massimale di spesa annuo fino a 1.800 euro, superio-re 
a quello di Intesa Sanpaolo, che è invece di 1.500 euro. Altro elemento di 
differenziazione riguarda il trattamento riservato ai dirigenti. Questi, infatti, in 
alcune aziende possono aderire a fondi o polizze assicurative separate e più 
ricche rispetto a quelle del resto dei dipendenti (come avviene per esempio in 
Angeli e nel gruppo San Benedetto). Un ultimo elemento riguarda i beneficia-ri 
delle prestazioni dei fondi o delle polizze. Oltre ai dipendenti delle aziende, 
infatti, la copertura non sempre si estende ai familiari. Spesso, infine, la coper-tura 
non viene conservata da parte dei lavoratori precedentemente iscritti in 
caso di mobilità e solo in alcuni casi (Atm in particolare) questa arriva a com-prendere 
addirittura i lavoratori pensionati. 
@ 2014 ADAPT University Press
La conciliazione vita-lavoro 
nei contesti aziendali 
@ 2014 ADAPT University Press 
di Rosita Zucaro 
La conciliazione in azienda 
Le misure di work-life balance, parte integrante di piani strutturati di welfare 
aziendale, costituiscono un asset strategico non solo per le politiche inerenti al 
mercato del lavoro, ma anche per affrontare questioni centrali nell’evoluzione 
dell’intero modello socio-economico: dallo sviluppo sostenibile, all’equilibrio 
demografico, fino alle questioni di riequilibrio di genere. 
All’interno di tale quadro, complice anche la crisi economica, le imprese stan-no 
assumendo un ruolo di crescente importanza, con conseguente spostamento 
dei luoghi della programmazione e di attuazione. Dai livelli centrali si assiste 
ad un maggior coinvolgimento di quelli periferici, e allo stesso tempo ad un 
allargamento delle reti di attori pubblici e privati che, in una prospettiva di 
welfare society, concorrono in maniera diffusa alla produzione di benessere. 
Inoltre, le aziende devono far fronte alle nuove esigenze conciliatorie di un 
numero crescente di lavoratrici e lavoratori con carichi familiari diversificati, 
dagli aspetti più legati alla genitorialità a quelli di cura di soggetti con handi-cap 
o anziani. 
L’ILO nell’ultimo rapporto sulla tutela della maternità e della paternità rileva 
che il diritto a un equilibrio tra famiglia e lavoro costituisce elemento fonda-mentale 
della qualità del lavoro. In quest’ottica l’azienda deve contribuire a 
diffondere più cultura di sostegno alle pratiche di conciliazione. 
L’aver raggiunto una soglia di longevità impensabile anche solo qualche de-cennio 
fa, se, da un lato, rappresenta un importante traguardo, dall’altro si con-figura 
come una sfida per la società nel suo complesso, che dovrà affrontare
La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 25 
cambiamenti importanti anche nell’ambito dell’organizzazione dei servizi, sia 
per gli anziani, che per le loro famiglie. 
Affrontare il tema “conciliazione” significa andare alla radice di questi pro-blemi, 
partendo dai meccanismi che regolano le società contemporanee e rico-noscendo, 
in primo luogo, che famiglia e lavoro non sono monadi separate, ma 
due entità legate da un insieme strutturato di interconnessioni, che si modifi-cano 
nel corso del tempo, con necessità di interventi di rimodulazione delle 
politiche connesse. 
Non a caso la Strategia europea definita nel vertice di Lisbona del 2000 ha 
espressamente sancito l’evoluzione degli interventi di work-life balance in 
strumento polivalente che va dalla funzione di promozione dell’accesso al 
mercato del lavoro e di garanzia di migliori condizioni per i lavoratori con re-sponsabilità 
familiari, a quella di strumento per la soluzione a macroproblemi 
quali il disequilibrio strutturale della popolazione. Le misure di conciliazione 
vanno, quindi, integrate e valutate all’interno di più ampia strategia, in cui si 
legano anche alle azioni aziendali inerenti alla responsabilità sociale 
d’impresa. 
È in atto un cambiamento che, velocizzato dalla particolare e difficile congiun-tura 
economica, sta imponendo una visione del lavoro e delle sue regole sem-pre 
più emancipata da un esclusivo legame a fattori economici. La crisi, infatti, 
sta dimostrando che il solo benessere economico non può essere al centro delle 
politiche di risanamento. 
Il piano d’azione nazionale sulla responsabilità sociale d’impresa 2012-2014, 
presentato il 16 aprile 2013 dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e 
dal Ministero del sviluppo economico (ripreso dall’accordo sottoscritto da 
ABI il 19 aprile 2013), evidenzia proprio l’importanza del ruolo dell’impresa 
nella società e nella gestione responsabile delle attività economiche quale vei-colo 
di creazione di valore, a mutuo vantaggio di imprese, cittadini e comuni-tà. 
Le aziende che loro sponte adottano “comportamenti” socialmente respon-sabili 
riescono per tale via ad acquisire un concreto vantaggio nei confronti dei 
competitors. 
La conciliazione vita-lavoro costituisce un ambito privilegiato al quale le stra-tegie 
d’impresa devono orientarsi. L’Università La Sapienza di Roma 
dall’intersezione tra conciliazione vita-lavoro e Total Reward System ha ideato 
un modello di organizzazione e gestione del rapporto di lavoro, che costituisce 
un sistema retributivo motivazionale che, oltre alla classica retribuzione, com-prende 
benefit e programmi di work-life balance. 
@ 2014 ADAPT University Press
26 Rosita Zucaro 
Al fine di sviluppare tali misure d’intervento, un’impresa può agire su quattro 
leve, tra loro complementari: organizzazione del lavoro, cultura aziendale, si-stema 
di retribuzione, servizi aziendali (si veda la figura 1). 
Figura 1 – Le leve della conciliazione vita-lavoro 
Fonte: Guida operativa Regione Lombardia. La conciliazione famiglia-lavoro. Un’opportunità per imprese 
e pubbliche amministrazioni, 2011 
Ulteriore conferma di tale processo evolutivo e dell’accresciuta importanza del 
ruolo primario che devono ricoprire le politiche di conciliazione si rinviene 
nell’adozione del Primo Rapporto sul benessere equo e sostenibile in Italia 
(Bes) dell’11 marzo 2013, predisposto dall’ISTAT in collaborazione con il 
CNEL, in cui viene presentato un nuovo indice, costruito proprio attraverso 
l’integrazione di misuratori economici con indicatori di carattere sociale, per 
valutare lo stato ed il progresso di una società. Il rapporto Bes misura, infatti, 
sia la partecipazione al mercato del lavoro che la qualità del lavoro, definendo 
i diversi asset dell’occupazione in ordine a vari aspetti fra cui stabilità, reddito, 
sicurezza sul lavoro e la conciliazione vita-lavoro. Sempre più centrale, quindi, 
diviene il valore che le persone assumono all’interno dei contesti aziendali. 
Alla luce di tale scenario, molte aziende a livello europeo stanno cercando di 
“tenere il passo” introducendo programmi di conciliazione aggiuntivi rispetto 
a quanto previsto dalla normativa nazionale o locale. Nonostante, però, si regi-stri 
in Europa un aumento del numero di imprese, che mettono a disposizione 
dei propri dipendenti dispositivi di conciliazione, una quota consistente di cit- 
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La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 27 
tadini europei (più del 50%) ancora incontra enormi difficoltà nel conciliare 
impegni di lavoro ed esigenze di vita e ciò si riscontra maggiormente nei Paesi 
dell’Europa meridionale ed orientale. La forza lavoro italiana registra difficol-tà 
maggiori nel bilanciare vita lavorativa e impegni extralavorativi rispetto alla 
media UE-27. Sono gli uomini a percepire in maniera leggermente superiore 
rispetto alle donne difficoltà di conciliazione, anche se diverse sono le esigen-ze 
maggiormente espresse: per i primi pesa la difficoltà a svolgere attività 
sportive e culturali, vita sociale e riposo; per le seconde la preoccupazione è 
per cura dei figli e degli interessi domestici. 
Figura 2 – Occupati con difficoltà di conciliazione vita-lavoro 
UE-27 
Italia 
Fonte: Eurofound, 5th European working conditions survey, 2012 
Alla luce del descritto quadro, il legislatore cerca di promuovere la concilia-zione 
vita-lavoro agendo, in particolare, sui seguenti fronti: 1) incidendo sulla 
disciplina del rapporto di lavoro; 2) favorendo l’attuazione di nuovi strumenti, 
quali ad esempio i piani territoriali degli orari; 3) incentivando e favorendo la 
creazione di una rete di servizi (servizi per l’infanzia, servizi di assistenza agli 
anziani, ecc.) finanziati o agevolati fiscalmente. 
Genitorialità e lavoro. Il quadro normativo 
Normativa fondamentale, in materia di tutela della maternità e della paternità, 
è la l. n. 53/2000, recante Disposizioni per il sostegno della maternità e della 
paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei 
@ 2014 ADAPT University Press 
5,0 
15,6 
2,9 
12,8 
6,1 
20,9 
3,4 
17,9 
Per niente bene Non molto bene Per niente bene Non molto bene 
Uomini Donne
28 Rosita Zucaro 
tempi delle città, con la quale sono stati introdotti i congedi parentali, 
nell’obiettivo di contribuire concretamente al riequilibrio dei ruoli genitoriali 
all’interno dei contesti famigliari. 
La citata legge costituisce, inoltre, un importante quadro di riferimento legisla-tivo 
in materia di work-life balance per due altri aspetti: da una parte per aver 
focalizzato l’attenzione degli enti territoriali sull’importanza strategica di rior-ganizzare 
i tempi delle città; dall’altra avendo promosso, tramite l’art. 9, la 
sperimentazione di azioni positive per la conciliazione vita-lavoro, attraverso 
la previsione di finanziamenti (rinnovabili ogni anno, nei limiti delle disponi-bilità 
delle risorse), in favore delle aziende che, con accordi sociali, predi-spongano 
progetti articolati per consentire ai dipendenti di usufruire di forme 
di flessibilità oraria e organizzativa (part-time reversibile, telelavoro, banca 
delle ore, flessibilità oraria o dell’organizzazione aziendale), o per agevolare il 
reinserimento lavorativo del genitore dopo un periodo di assenza di oltre 60 
giorni, ed, infine, per incentivare interventi innovativi in risposta alle esigenze 
di conciliazione vita-lavoro, anche attraverso l’attivazione di reti territoriali tra 
enti, aziende e parti sociali. 
Una prima riorganizzazione normativa della materia si è avuta nel Testo Unico 
introdotto con il d.lgs. n. 151/2001, il quale ha accorpato la disciplina origina-ria 
della l. n. 1204/1971 con quella della l. n. 53/2000. A questo decreto legi-slativo 
si devono importanti novità in merito alla ridefinizione dei requisiti og-gettivi 
e soggettivi, nonché dei criteri e delle modalità per la fruizione dei con-gedi, 
permessi e aspettative da parte di entrambi i genitori. Un numero signifi-cativo 
di interventi legislativi hanno riguardato anche l’assistenza dei soggetti 
portatori di handicap, sia figli, sia parenti (dall’art. 4 all’art. 7 del d.lgs. n. 
119/2011). Sempre il decreto del 2011 è intervenuto anche in materia di con-gedo 
per le cure dei lavoratori mutilati o invalidi civili che abbiano una ridu-zione 
della capacità lavorativa superiore al 50%. Alla riforma Fornero del 
2012 si deve invece l’affermazione di una tutela sempre più volta alla genito-rialità 
nel complesso, disancorata dalla protezione/difesa solo della madre e 
del nascituro. 
Il congedo obbligatorio di paternità, introdotto dall’art. 4, comma 24, della l. 
n. 92/2012 introduce l’affermazione del principio di uguaglianza tra la figura 
materna e paterna, in termini di riconoscimento e godimento dei diritti inerenti 
alla cura della prole. Inoltre tale previsione completa quel processo di riscrittu-ra 
delle norme in tema di tutela del lavoro femminile verso la prospettiva di 
una più affermata coscienza della funzione sociale della maternità e della con-corrente 
considerazione degli interessi del bambino. Sempre nell’obiettivo di 
promuovere norme a favore dell’inclusione delle donne nel mercato del lavoro 
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La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 29 
e tali da consentire, a entrambi i genitori, una migliore assistenza dei figli, il 
Legislatore del 2012 è intervenuto con l’introduzione di due misure sperimen-tali 
della durata di tre anni: il diritto per le neo-mamme di chiedere, nei limiti 
delle risorse disponibili, la corresponsione di voucher per la prestazione di 
servizi di baby-sitting, dal termine del periodo di congedo obbligatorio per la 
maternità e per gli 11 mesi successivi; la possibilità, per madri e padri italiani, 
di poter usufruire del congedo parentale “ad ore”. In materia di tutela della 
maternità è infine vigente anche la recentissima riforma sul lavoro adottata con 
il d.l. n. 34/2014, convertito con modificazioni in l. n. 78/2014, chiarendo che 
il congedo di maternità attivato nell’esecuzione di un contratto a termine pres-so 
la stessa azienda concorre a determinare il periodo di attività lavorativa uti-le 
a conseguire il diritto di precedenza all’assunzione. A queste lavoratrici è 
anche riconosciuto il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo determina-to 
effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi, con riferimento al-le 
mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine. 
Le nuove misure: il congedo di paternità, il congedo frazionato a ore e i 
voucher baby-sitting 
Le misure sperimentali di sostegno all’occupazione femminile previste dalla l. 
n. 92/2012 hanno ricevuto concreta attuazione con il decreto interministeriale 
del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Ministero dell’economia 
e delle finanze del 22 dicembre 2012. In merito ai criteri di accesso e alle mo-dalità 
di fruizione del congedo di paternità obbligatorio e di quello facoltativo, 
il decreto, stabilendo che la loro fruizione è possibile entro il quinto mese di 
vita del bambino, introduce una novità rispetto al passato in cui il padre poteva 
sì beneficiare del congedo, ma solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla 
legge, quali la morte o la grave infermità della madre. La misura in oggetto, 
sebbene rappresenti una “timida” apertura verso l’affermazione del principio 
di uguaglianza tra i genitori nella cura dei figli, risulta ancora lontana dalle 
previsioni legislative di alcuni Paesi europei, quali Svezia e Norvegia, in cui, 
oltre ai congedi di paternità, sono previsti anche i congedi parentali, usufruibili 
da entrambi i genitori anche in modo condiviso. 
Quanto all’ambito di applicazione, l’art. 1 del citato decreto, istituisce in favo-re 
del padre: 1) un congedo obbligatorio della durata di un giorno, aggiuntivo 
rispetto al congedo di maternità (e fruibile anche durante lo stesso); 2) il con-gedo 
facoltativo, della durata massima di due giorni (non necessariamente 
@ 2014 ADAPT University Press
30 Rosita Zucaro 
continuativi) e fruibili dal padre (anche adottivo e/o affidatario) in sostituzione 
del congedo obbligatorio della madre. 
Il trattamento economico e previdenziale è a carico dell’Inps nella misura del 
100% della retribuzione e in relazione al trattamento previdenziale del conge-do 
di maternità non è prevista alcuna anzianità contributiva pregressa ai fini 
dell’accreditamento dei contributi figurativi per il diritto alla pensione e per la 
determinazione della misura della stessa. 
Un nodo critico attiene alla modalità di fruizione del congedo di paternità. 
Nello specifico, si prevede l’onere, a carico del padre, di comunicare al datore 
di lavoro, con almeno 15 giorni di preavviso, possibilmente prima della nascita 
del bambino o della data presunta del parto, i giorni nei quali intende usufruire 
del congedo sia obbligatorio che facoltativo, nonché l’allegazione della dichia-razione 
della madre contente la rinuncia, da parte della stessa, alla fruizione di 
tanti giorni di congedo quanti saranno quelli utilizzati dal padre. Risulta evi-dente 
la farraginosità burocratica della norma e il considerevole lasso di tempo 
con cui il padre è costretto a dare il preavviso della sua assenza al datore di la-voro. 
Una migliore modulazione conciliatoria potrebbe essere realizzata anche 
attraverso strumenti più “flessibili”, che tengano in giusta considerazione 
l’eventualità che le necessità per cui un padre decida di assentarsi dal lavoro 
siano improvvise. 
Interessante in merito riportare che prima dell’introduzione del congedo di pa-ternità 
da parte del legislatore nazionale è intervenuta la contrattazione collet-tiva. 
Le buone prassi, in questo senso, sono ad esempio: l’art. 40-bis del Ccnl 
industria alimentari, che già prevedeva il congedo di paternità nella misura di 
2 giorni e il contratto aziendale di Sanpellegrino del 13 marzo 2012, che mi-gliora 
tale previsione, elevandolo a 4 giorni. Questo costituisce un riferimento 
importante di come la contrattazione collettiva possa e debba ricoprire un ruo-lo 
centrale nella definizione di tali politiche. 
Altra previsione significativa è la facoltà, concessa ai lavoratori padri e alle la-voratrici 
madri, di fruire del congedo parentale frazionandolo ad ore. Questa 
previsione è una conseguenza del recepimento, da parte della l. n. 228/2012, 
delle disposizioni del d.l. n. 216/2012 di attuazione della direttiva 2010/18/UE, 
che ha, appunto, ampliato la possibilità di utilizzo dei congedi parentali, anche 
a ore, secondo le disposizioni adottate dai contratti collettivi. Si tratta dei con-gedi 
che spettano a ciascun genitore lavoratore, nei primi 8 anni di vita del fi-glio, 
fino a un periodo massimo di 6 mesi di astensione (continuativo o frazio-nato). 
L’astensione complessiva di entrambi i genitori non può comunque su-perare 
i 10 mesi, salvo il caso in cui il padre lavoratore eserciti il diritto di 
astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 
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La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 31 
mesi: in questa ipotesi il limite complessivo dei congedi parentali dei genitori 
è elevato a 11 mesi. In secondo luogo, è stato precisato che la comunicazione 
con cui il lavoratore è tenuto a preavvisare il datore di lavoro sull’intenzione di 
fruire del periodo di congedo parentale (almeno 15 giorni prima) deve conte-nere 
anche l’indicazione dell’inizio e della fine del periodo di congedo. 
Il Ministero del lavoro, nell’interpello n. 25 del 22 luglio 2013 di Cgil, Cisl e 
Uil, ha precisato che le modalità di fruizione del congedo “orario” potranno 
essere disciplinate non solo dalla contrattazione collettiva di settore, ma anche 
da quella decentrata, che dovrà stabilirne le modalità di godimento su base 
oraria, i criteri di calcolo, l’equiparazione di un determinato monte ore alla 
singola giornata lavorativa. Lo spazio di manovra delle intese di secondo livel-lo 
è incondizionato, atteso che lo stesso non è stato circoscritto nemmeno da 
deleghe della contrattazione nazionale nei confronti del livello inferiore. 
Per quanto attiene al beneficio dei voucher, questi sono utilizzabili, alternati-vamente, 
per l’acquisto di servizi di baby-sitting o per assolvere agli oneri del-la 
rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi pubblici e/o privati ac-creditati. 
I “buoni” hanno un importo variabile, modulabile sulla base dei pa-rametri 
ISEE ed erogabile dall’Inps. L’importo medio previsto è pari a 300 eu-ro 
mensili per un massimo di 6 mesi. La decisione della mamma di usufruire 
dei voucher, in alternativa al congedo parentale, comporta, tuttavia, la conse-guenziale 
riduzione di un mese del periodo di congedo parentale, per ogni 
quota mensile richiesta. 
La sperimentazione dei voucher baby-sitting, che nasce con l’obiettivo di age-volare 
la conciliazione vita-lavoro, soprattutto per favorire il rientro della don-na 
dopo la maternità ed evitare ripercussioni alla carriera lavorativa, prevede 
delle limitazioni ed esclusioni. Sono escluse dal beneficio le madri totalmente 
esentate dal pagamento della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei ser-vizi 
privati convenzionati, nonché quelle che usufruiscono dei benefici di cui 
al Fondo per le politiche relative ai diritti e pari opportunità. Nella categoria 
degli esclusi rientrano anche le lavoratrici part-time, in ragione della ridotta 
entità della prestazione lavorativa, e le lavoratrici iscritte alla gestione separata 
Inps, sino ad un massimo di tre mesi. Tale misura ha ricevuto particolare ap-prezzamento 
da parte dell’ILO che l’ha ritenuta un esempio di «politica inno-vativa 
tesa a promuovere il ritorno delle donne sul posto di lavoro consentendo 
di soddisfare le responsabilità legate alla cura del bambino». 
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32 Rosita Zucaro 
Tabella 1 – Le novità legislative in materia di tutela della maternità e paternità 
Misure Disposizioni Sintesi dei contenuti 
Congedo di maternità Art. 1, d.l. 34/2014 convertito in 
legge, con modificazioni, n. 78, il 
15 maggio 2014 
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Se intervenuto nell’esecuzione di 
un contratto a termine presso stes-sa 
azienda, concorre a determi-nare 
il periodo di attività lavora-tiva 
utile a conseguire il diritto di 
precedenza all’assunzione. 
A queste lavoratrici è anche ri-conosciuto 
il diritto di preceden-za 
nelle assunzioni a tempo de-terminato, 
effettuate nei successivi 
12 mesi, con riferimento alle man-sioni 
già espletate in esecuzione 
dei precedenti rapporti a termine. 
Congedo di paternità Art. 4, comma 24, lett. a, della l. 
n. 92/2012 
Artt. da 1 a 3, d.m. 22 dicembre 
2012 (attuativo dell’art. 4, com-ma 
24, lett. a, l. n. 92/2012) 
Un giorno obbligatorio, aggiunti-vo 
rispetto al congedo di maternità 
(e fruibile anche durante lo stesso) 
e due giorni facoltativi (non ne-cessariamente 
continuativi) e fruibi-li 
dal padre (anche adottivo e/o af-fidatario) 
in “sostituzione” del con-gedo 
materno. 
Trattamento economico, norma-tivo 
e previdenziale: 
Indennità giornaliera a carico 
dell’Inps, pari al 100% della retribu-zione. 
Comunicazione al datore di lavo-ro 
con almeno 15 giorni di 
preavviso, del numero di giorni di 
congedo, allegando la dichiarazio-ne 
della madre con la rinuncia alla 
fruizione di tanti giorni di congedo 
quanti sono quelli fruiti dal padre. 
Congedo parentale fra-zionato 
ad ore 
L. n. 228/2012, recettiva delle 
disposizioni del d.l. n. 216/2012 
di attuazione della direttiva 
2010/18/UE 
Possono fruirne entrambi i geni-tori 
I Ccnl o i contratti collettivi de-centrati 
stabiliscono:
La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 33 
a) modalità di fruizione su base 
oraria; 
b) criteri di calcolo; 
c) equiparazione di un determinato 
monte ore alla singola giornata 
lavorativa. 
Durante il periodo, potranno an-che 
@ 2014 ADAPT University Press 
essere concordate adeguate 
misure di ripresa dell’attività la-vorativa, 
osservando quanto even-tualmente 
disposto dai contratti 
collettivi, anche decentrati. 
Voucher per acquisito di 
servizi baby-sitting o 
per pagamento degli 
oneri dei servizi pubblici 
e/o privati 
Artt. da 4 a 7, d.m. 22 dicembre 
2012 (attuativo dell’art. 4, com-ma 
24, lett. b, l. n. 92/2012) 
Le neomamme, al termine del 
congedo di maternità e per gli 11 
mesi successivi, in “alternativa” 
al congedo parentale possono 
avvalersi dei voucher: 
a) per acquisto di servizi di baby-sitting; 
b) per assolvere agli oneri della 
rete pubblica dei servizi per 
l’infanzia o dei servizi pubblici 
e/o privati accreditati. 
L’importo erogato dall’Inps è pa-ri 
a 300 euro mensili. 
Elaborazione ADAPT. Fonte: Elaborazione legge n. 92/2012, Decreto interministeriale, 22 dicembre 
2012 (attuativo dell'art. 4, comma 24, lett. b), l. n. 92/2012), legge n. 228/2012, recettiva delle disposi-zioni 
del decreto legge n. 216/2012 di attuazione della Direttiva 2010/18/UE.; D.L 34/2014 convertito in 
legge con modificazioni il 15 maggio 2014. Tabella a cura di Rosita Zucaro 
La flessibilità come strumento per bilanciare tempi di vita e lavoro 
Nell’attuale fase storico-economica, si assiste all’affermarsi generalizzato di 
una crescente, ma diversa, esigenza di flessibilità sia da parte dell’impresa che 
da parte del lavoratore. Intervenire sulla flessibilità del lavoro significa modu-lare 
la prestazione sulle specifiche esigenze della produzione, senza mettere a 
rischio la sicurezza dell’occupazione. La flessibilità costituisce, quindi, un 
possibile trait d’union tra emergenti esigenze aziendali e nuovi bisogni dei la-voratori, 
legandosi per tale via alle politiche di conciliazione vita-lavoro. La
34 Rosita Zucaro 
flessibilità temporale e spaziale rappresenta, infatti, uno dei principali stru-menti 
della conciliazione, intesa come l’insieme di quelle misure che consen-tono 
una migliore gestione dei tempi di vita e di lavoro. Le aziende in grado di 
gestire efficacemente l’evoluzione del rapporto con i lavoratori avranno, quin-di, 
con elevata probabilità, un maggior vantaggio competitivo rispetto alle al-tre, 
poiché la produttività è incentivata da modelli flessibili di lavoro, che si 
adattano alle peculiarità del caso. 
In questo processo, la contrattazione collettiva, in particolare quella territoriale 
e aziendale, ricopre un ruolo strategico, rappresentando uno degli strumenti 
concreti tramite i quali le aziende possono attivare adeguate politiche concilia-tive, 
creare sviluppo, occupazione, equità sociale, sistemi integrati di welfare. 
Anche L’ILO ha recentemente ricordato tra le strade da perseguire, per tutelare 
maggiormente la genitorialità, proprio la promozione della contrattazione col-lettiva, 
quale strumento attraverso cui lavoratori e datori di lavoro possono 
concordare una “flessibilità regolata”, che consenta ai primi di meglio bilan-ciare 
tempi di lavoro con responsabilità di cura, andando incontro allo stesso 
tempo alle esigenze produttive e organizzative dei secondi. 
Al livello nazionale, l’avviso comune Azioni a sostegno delle politiche di con-ciliazione 
tra famiglia e lavoro, sottoscritto il 7 marzo 2011 da Governo e par-ti 
sociali, si è posto proprio in quest’ottica, avendo quale obiettivo il favorire, 
attraverso una visione integrata, politiche sociali e contrattuali a sostegno della 
conciliazione per implementare soluzioni innovative, tanto di tipo normativo, 
che organizzativo. 
In virtù di tale avviso, è stato avviato un percorso tecnico volto ad introdurre 
nella contrattazione decentrata forme di flessibilità family-friendly e di work-life 
balance, con ad esempio orari rimodulati, lavoro a tempo parziale, forme 
di telelavoro e smartworking. 
La flessibilità, regolata in ottica di conciliazione vita-lavoro, può essere suddi-visa 
in due macro-aree d’intervento: temporale, caratterizzata da strumenti che 
permettono un’organizzazione flessibile dei tempi di lavoro (part-time, orario 
scorrevole, job sharing, ecc.); spaziale, costituita da misure che favoriscono 
una diversa organizzazione degli spazi lavorativi, permettendo alle organizza-zioni 
di superare i confini fisici dell’ente a favore di una maggiore libertà (te-lelavoro, 
smart working, lavoro agile, ecc.). 
www.bollettinoadapt.it
La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 35 
Modelli flessibili di organizzazione degli orari nelle politiche d’impresa 
Intervenire sulla flessibilità dell’orario consente un rapido adattamento 
dell’input di lavoro alle esigenze aziendali. 
È dimostrato empiricamente da diversi studi e ricerche nel settore, che da 
un’organizzazione flessibile del lavoro traggano benefici sia i datori di lavoro, 
che i lavoratori; come è altresì comprovata l’esistenza di un relazione tra fles-sibilità 
dell’orario di lavoro, miglioramento dell’equilibrio nei tempi di vita e 
di lavoro e accrescimento della motivazione, nonché delle condizioni psicoso-ciali. 
Pertanto è sempre più ricorrente l’uso modulato del tempo, che media tra 
l’evoluzione dell’organizzazione della produzione, da un lato, e la crescente 
attenzione dedicata al rapporto tra lavoro e sfera privata, dall’altro. 
Uno tra gli strumenti normativi che permette una flessibilità dei tempi di lavo-ro, 
modulabile in ottica di conciliazione, è il part-time di cui al d.lgs. 28 gen-naio 
2000, n. 61, che recepisce la direttiva europea 97/81/CE, che può assu-mente 
tre diverse configurazioni: orizzontale, con orario di lavoro corrispon-dente 
ad una parte della settimana di lavoro standard; verticale con prestazione 
a tempo pieno per un limitato periodo della settimana, del mese o dell’anno; 
mista, ovvero un mix tra le precedenti configurazioni. Tale istituto si pone 
come uno strumento di flessibilità molto utile per accudire i figli o gli anziani, 
e risulta, quindi, particolarmente utilizzato dalle donne, consentendo di mante-nere 
il contatto con il luogo di lavoro e di avere, allo stesso tempo, una elasti-cità 
di comportamento (e quindi di gestione dei tempi familiari) soddisfacente. 
Rappresenta, inoltre, uno strumento di flessibilità oraria particolarmente ap-prezzato 
anche da parte datoriale, in quanto determina un miglioramento delle 
performance aziendali, accrescendo al contempo la motivazione e riducendo il 
turnover. 
Altro strumento che garantisce la flessibilità dell’orario di lavoro in un’ottica 
di armonizzazione dei tempi è l’orario scorrevole (o elastico o flessibile), che 
consente al lavoratore di rimodulare l’orario di ingresso e/o di uscita o l’orario 
di inizio o di fine della pausa, garantendo la copertura del numero delle ore 
contrattualmente previste. L’orario scorrevole viene ampiamente utilizzato per 
mansioni che non prevedono un contatto diretto con il pubblico e che, pertan-to, 
non necessitano di orari fissi di apertura e chiusura. Misura analoga è la 
settimana concentrata, la quale consiste nel raggruppare l’orario settimanale al 
di sotto dei classici 5 giorni lavorativi, allungando la durata giornaliera com-plessiva. 
@ 2014 ADAPT University Press
36 Rosita Zucaro 
Tale logica è alla base anche della annualizzazione dell’orario, che prevede la 
fissazione da parte dell’azienda di un monte ore complessivo che il lavoratore 
deve sostenere durante l’anno, senza definirne in maniera rigida la sua distri-buzione 
www.bollettinoadapt.it 
temporale. 
Sempre in ottica di flessibilità temporale un altro istituto interessante è la ban-ca 
delle ore, che prevede la possibilità per il lavoratore di “depositare” su un 
conto virtuale le ore lavorate in più (straordinario) e poi, nel corso dell’anno, 
attingervi per godere di riposi compensativi secondo le modalità previste dalla 
contrattazione collettiva. Peculiarità di questa misura è, quindi, la mancata 
monetizzazione delle ore di straordinario, che vanno a formare un “credito di 
ore” dal quale attingere nel caso in cui si necessiti di permessi e riposi aggiun-tivi. 
Altro mezzo che può essere efficacemente volto a politiche di conciliazione 
vita-lavoro è il job sharing (o lavoro ripartito), che prevede l’assunzione in so-lido 
dell’adempimento di un’identica prestazione lavorativa da parte di due la-voratori, 
i quali gestiscono pertanto in maniera autonoma e discrezionale la ri-partizione 
dell’attività lavorativa e l’effettuazione di sostituzioni tra loro. Lo 
stipendio è calcolato sulle ore effettivamente prestate da ciascun lavoratore. 
Le cosiddette “isole di lavoro”, invece, consentono di conciliare le esigenze 
personali con quelle organizzative dell’azienda. Il citato strumento, presente in 
alcune realtà aziendali, come ad esempio il Gruppo Auchan o Ikea, si carat-terizza 
per la suddivisione dei lavoratori in gruppi (chiamati appunto “isole”) 
attraverso una logica di complementarietà, che necessita di una indagine e ana-lisi 
preventiva dei bisogni della popolazione aziendale interessata, al fine di 
fare il matching tra gli stessi (età, nucleo familiare, distanza dal luogo di lavo-ro, 
fattori sociali, ecc.). Il personale, nell’ambito della propria isola, si impe-gna 
ad osservare un orario individuale di lavoro (in termini di durata, giorni e 
fasce orarie) con un sistema di credito/debito da riportare annualmente a som-ma 
zero, nel rispetto della c.d. curva di carico di lavoro previsionale della 
azienda. I vantaggi sono: a livello aziendale l’adeguamento della presenza del 
personale al flusso cliente, nonché il miglioramento del clima aziendale, con 
conseguente riduzione dell’assenteismo; per il lavoratore una migliore gestio-ne 
dei propri tempi di vita. 
Nell’attuale contesto globalizzato la maggiore flessibilità lavorativa, quindi, è 
un fattore che comporta un vantaggio competitivo che si concretizza nella ca-pacità 
di attrarre e trattenere i lavoratori qualificati e di migliorare la produtti-vità, 
sia del singolo sia aziendale, nell’ottica del raggiungimento del benessere 
organizzativo che misura non solo la qualità dell’ambiente di lavoro, ma anche
2014 adapt welfare aziendale
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2014 adapt welfare aziendale

  • 1. Il welfare aziendale territoriale per la micro, piccola e media impresa italiana Un’indagine ricostruttiva a cura di Emmanuele Massagli in collaborazione con ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series n. 31
  • 2. ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro DIREZIONE Michele Tiraboschi (direttore responsabile) Roberta Caragnano Lilli Casano Maria Giovannone Pietro Manzella (revisore linguistico) Emmanuele Massagli Flavia Pasquini Pierluigi Rausei Silvia Spattini Davide Venturi SEGRETERIA DI REDAZIONE Gabriele Gamberini Andrea Gatti Casati Francesca Fazio Laura Magni (coordinatore di redazione) Maddalena Magni Francesco Nespoli Martina Ori Giulia Rosolen Francesco Seghezzi Francesca Sperotti Hanno collaborato a questo volume: Andrea Cescon, Carmen Di Stani, Daniele Grandi (coordinatore), Filip-po Pignatti Morano, Rosita Zucaro @ADAPT_Press @adaptland @bollettinoADAPT
  • 3. Il welfare aziendale territoriale per la micro, piccola e media impresa italiana Un’indagine ricostruttiva a cura di Emmanuele Massagli in collaborazione con
  • 4. ISBN 978-88-98652-33-4 © 2014 ADAPT University Press – Pubblicazione on-line della Collana ADAPT Registrazione n. 1609, 11 novembre 2001, Tribunale di Modena
  • 5. ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro 1. P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma a metà del guado, 2012 2. P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma sbagliata, 2012 3. M. Tiraboschi, Labour Law and Industrial Relations in Recession-ary Times, 2012 4. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2012, 2012 5. AA.VV., I programmi alla prova, 2013 6. U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo, Certificazione delle competen-ze, 2013 7. L. Casano (a cura di), La riforma francese del lavoro: dalla sécuri-sation alla flexicurity europea?, 2013 8. F. Fazio, E. Massagli, M. Tiraboschi, Indice IPCA e contrattazione collettiva, 2013 9. G. Zilio Grandi, M. Sferrazza, In attesa della nuova riforma: una rilettura del lavoro a termine, 2013 10. M. Tiraboschi (a cura di), Interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, e della coesione sociale, 2013 11. U. Buratti, Proposte per un lavoro pubblico non burocratico, 2013 12. A. Sánchez-Castañeda, C. Reynoso Castillo, B. Palli, Il subappalto: un fenomeno globale, 2013 13. A. Maresca, V. Berti, E. Giorgi, L. Lama, R. Lama, A. Lepore, D. Mezzacapo, F. Schiavetti, La RSA dopo la sentenza della Corte co-stituzionale 23 luglio 2013, n. 231, 2013 14. F. Carinci, Il diritto del lavoro in Italia: a proposito del rapporto tra Scuole, Maestri e Allievi, 2013 15. G. Zilio Grandi, E. Massagli (a cura di), Dal decreto-legge n. 76/2013 alla legge n. 99/2013 e circolari “correttive”: schede di sintesi, 2013
  • 6. 16. G. Bertagna, U. Buratti, F. Fazio, M. Tiraboschi (a cura di), La rego-lazione dei tirocini formativi in Italia dopo la legge Fornero, 2013 17. R. Zucaro (a cura di), I licenziamenti in Italia e Germania, 2013 18. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2013, 2013 19. L. Mella Méndez, Violencia, riesgos psicosociales y salud en el tra-bajo, 2014 20. F. Carinci (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla rappresentanza sindacale a Corte costituzionale n. 231/2013, 2014 21. Michele Tiraboschi (a cura di), Jobs Act - Le misure per favorire il rilancio dell’occupazione, riformare il mercato del lavoro ed il si-stema delle tutele, 2014 22. Michele Tiraboschi (a cura di), Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34. Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese - Prime interpretazioni e valutazioni di sistema, 2014 23. G. Gamberini (a cura di), Progettare per modernizzare. Il Codice semplificato del lavoro, 2014 24. U. Buratti, C. Piovesan, M. Tiraboschi (a cura di), Apprendistato: quadro comparato e buone prassi, 2014 25. Michele Tiraboschi (a cura di), Jobs Act: il cantiere aperto delle ri-forme del lavoro, 2014 26. Franco Carinci (a cura di), Il Testo Unico sulla rappresentanza 10 gennaio 2014, 2014 27. Simone Varva (a cura di), Malattie croniche e lavoro. Una prima rassegna ragionata della letteratura di riferimento, ADAPT LA-BOUR STUDIES e-Book series, n. 27 28. Roberta Scolastici, Scritti scelti di lavoro e relazioni industriali, 2014 29. Michele Tiraboschi (a cura di), Catastrofi naturali, disastri tecnolo-gici, lavoro e welfare, 2014 30. Franco Carinci, Gaetano Zilio Grandi (a cura di), La politica del la-voro del Governo Renzi - Atto I, 2014
  • 7. A Daniele Marrama, riconoscenti per l’amicizia e la stima
  • 8.
  • 9. INDICE Prefazione di Giorgio Xoccato .............................................................................. XI Executive summary – Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma pos-sibile di Emmanuele Massagli ....................................................................... XIII Parte I QUADRO STORICO E CONTESTO SOCIO-ECONOMICO Carmen Di Stani, Emmanuele Massagli, Dal welfare di Stato al welfare azien-dale ................................................................................................................ 3 Daniele Grandi, Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefits ........................................................................................................... 6 Daniele Grandi, Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare aziendale ........................................................................................................ 12 Parte II AMBITI DI INTERESSE, PROFILI GIURIDICI, PROBLEMATICHE FISCALI Daniele Grandi, Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa ...................................................................................................... 19 Rosita Zucaro, La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali ...................... 24 Daniele Grandi, Fringe benefits: normativa fiscale e orientamenti dell’Agenzia delle entrate ................................................................................................... 41 Parte III I VANTAGGI DEL WELFARE AZIENDALE Daniele Grandi, Dati e numeri: il welfare nelle aziende in Italia ......................... 55 @ 2014 ADAPT University Press
  • 10. X Indice Filippo Pignatti Morano, Detassazione e decontribuzione del salario di produt-tività: stato dell’arte ...................................................................................... 62 Daniele Grandi, Il valore generato dal welfare aziendale .................................... 68 Parte IV WELFARE AZIENDALE E IMPRESA ITALIANA: PROSPETTIVE Daniele Grandi, Emmanuele Massagli, Relazioni industriali e welfare aziendale 77 Daniele Grandi, Il welfare aziendale nella medio e grande impresa: esperienze di successo ..................................................................................................... 90 Daniele Grandi, Emmanuele Massagli, Rosita Zucaro, Verso il welfare azienda-le territoriale per le PMI: esempi e modelli .................................................. 111 Bibliografia essenziale .......................................................................................... 125 Indice delle aziende/esperienze citate ................................................................... 128 Appendice informatica ........................................................................................... 132 Notizie sugli autori ................................................................................................ 133 www.bollettinoadapt.it
  • 11. @ 2014 ADAPT University Press Prefazione di Giorgio Xoccato La pubblicazione del presente testo si inserisce all’interno di un più vasto pro-getto formativo di Confindustria Vicenza per lo sviluppo delle conoscenze e competenze nel campo delle relazioni industriali e sindacali con particolare ri-ferimento all’universo delle PMI venete. Se è vero che il futuro delle nostre imprese e del nostro sistema industriale si va sempre più configurando come un incrocio virtuoso fra manifattura e tecno-logie informatiche (c.d. manifattura digitale), è evidente che dobbiamo investi-re nella valorizzazione delle risorse umane e nel loro coinvolgimento nella mission aziendale per incrementare il livello di innovazione e competitività dei nostri prodotti. Ma è proprio la complessità del contesto competitivo globale, oltre alla carat-teristica dimensione aziendale del tessuto produttivo veneto, a rendere sovente difficoltosa l’applicazione di politiche attrattive e di retention a favore del per-sonale. Da queste considerazioni è nato un forte interesse verso strumenti alternativi di fidelizzazione e coinvolgimento del personale, che riescano a raggiungere gli obiettivi desiderati, garantendo benefici reali per ciascuna delle parti coinvolte. Il progetto “Welfare” di Confindustria Vicenza è un’iniziativa volta a dif-fondere la cultura del welfare aziendale ed offrire alle aziende elementi e strumenti per intraprendere percorsi di avvicinamento e facilitazione nella atti-vazione di piani di welfare aziendale ed interaziendale connessi ad una rete di servizi a cui ogni singola azienda potrà accedere in base alle proprie specifi-che necessità. In un contesto in cui le risorse per i servizi e il welfare pubblico sono sempre meno e i bisogni della popolazione aumentano sempre di più, a fronte anche di fenomeni di invecchiamento demografico, le imprese possono quindi svolgere un ruolo cruciale anche sotto questo aspetto, integrando l’azione del pubblico.
  • 12. XII Prefazione Questo testo vuole fornire il necessario supporto informativo e teorico a questa azione, effettuando un’indagine ricostruttiva sulla materia del welfare e riper-correndone l’evoluzione normativa e applicativa. Un particolare ringraziamento va alla associazione ADAPT, fondata nel 2000 dal professor Marco Biagi, che ha permesso la redazione di quest’opera, anche attraverso le proprie esperienze e collaborazioni con numerose aziende italiane innovatrici in tema di welfare. www.bollettinoadapt.it Giorgio Xoccato Vicepresidente di Confindustria Vicenza con delega alle Relazioni Industriali
  • 13. @ 2014 ADAPT University Press Executive summary Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma possibile di Emmanuele Massagli È indubbio che il welfare aziendale stia conoscendo una stagione di straordina-rio interesse tanto aziendale, quanto scientifico e mediatico. La “miccia” della curiosità è stata accesa nel 2009 dal primo piano di welfare attuato da Luxottica (si veda l’approfondimento nella parte IV di questo volu-me). Da allora anche l’Italia ha scoperto l’attualità di quella particolarissima politica di clima, produttività, incentivazione che tutti hanno imparato a chia-mare in inglese, ma che in altre forme e con altre finalità era già conosciuta sul nostro territorio dalla seconda metà dell’Ottocento (la ricostruzione storica è contenuta nella parte I). Non è casuale la conquista della celebrità proprio in questi anni di perdurante crisi economica, difficili per l’economia nazionale come per quella delle sin-gole aziende e delle famiglie. Le politiche di welfare aziendale (ma questo va-le anche per il c.d. welfare contrattuale o negoziale, solitamente regolato nei contratti collettivi nazionali di lavoro) hanno la peculiarità di essere validi esempi di strategie win-win-win: vince l’impresa, che incrementa la produttivi-tà del dipendente e la sua fidelizzazione societaria; vince il lavoratore, che ot-tiene servizi di costoso accesso sul mercato senza subire la tagliola della inva-dente tassazione; vince lo Stato, che “scarica” sulle imprese la responsabilità (non certo l’obbligo) di fornire alla società (per il tramite dei propri dipenden-ti) tutele previdenziali, assistenziali, sanitarie e culturali una volta prerogativa dello stato sociale (si veda ancora la parte I del volume per un’analisi critica più dettagliata). Il mondo reale è sempre più complesso delle ricostruzioni dottrinali e i tanti fari accessi sulla materia “welfare aziendale” stanno gradualmente permetten-
  • 14. XIV Executive summary do di cogliere le principali difficoltà a una diffusione capillare di politiche così costruite. Prima di qualsiasi ostacolo tecnico vengono i pregiudizi culturali. L’Italia ha ereditato, in particolare dagli anni Settanta, una conformazione conflittuale e politicizzata delle relazioni industriali (o, più correttamente, di lavoro). Corol-lario di questa caratteristica è la diffidenza che lavoratori e sindacati ancora nutrono verso l’impresa, in particolare quella grande (talvolta ancora “il pa-drone”) e, viceversa, l’allergia imprenditoriale alla partecipazione dei lavora-tori non solo alla gestione, ma anche ai risultati. Su queste basi è difficoltoso (seppure non impossibile) affermare il valore di reciproche rinunce per godere di proporzionali vantaggi. Questo comporta un piano di welfare aziendale, quando non è solo elargitivo: meno “liquidi” in busta paga per il lavoratore, ma più servizi; un costo ulteriore per il datore di lavoro, che non ci sarebbe stato con un “semplice” taglio degli stipendi, ma comunque un risparmio a bi-lancio. Perché lo scambio si realizzi, bisogna fidarsi della controparte. Non sbaglia quindi chi identifica nel welfare aziendale indizio di clima partecipati-vo nelle dinamiche sindacali interne all’azienda. Quando superati i pregiudizi culturali, imprese e lavoratori si scontrano con le contraddizioni normative. Il welfare aziendale è regolato dal Testo Unico delle imposte sui redditi (TUIR) nelle parti relative a Redditi di impresa (titolo I, capo IV) e Base imponibile società/enti commerciali residenti (titolo II, capo II). L’aggiornamento degli articoli che più interessano gli esperti di welfare aziendale (numeri 51 e 100) è fermo all’inizio degli anni Duemila e la delicata situazione di bilancio dello Stato italiano non permette di trovare le coperture per rendere più coerenti con l’attuale costo della vita quantomeno le soglie economiche relative alle erogazioni liberali, ai beni o servizi ceduti a dipen-denti e ai buoni pasto. Ai vincoli di natura economica si aggiungono quelli tecnico-legislativi: quando è stato scritto il TUIR (1986) non si poteva imma-ginare il successo di quelle politiche che ora ricomprendiamo nella materia “welfare aziendale”. Le situazioni immaginate, le fattispecie che si volevano regolare, sono obsolete e costringono gli operatori a forzature interpretative per provare a replicare in Italia le buone pratiche internazionali. A questa ori-ginaria incertezza, la tradizione nostrana di produrre diritto mediante circolari e interpelli, che più volte sono intervenuti sulla materia, ha aggiunto ulteriori complicazioni, evitabili solo con la scrittura di nuovi articoli legislativi, chiari ed efficaci. www.bollettinoadapt.it
  • 15. Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma possibile XV Un ulteriore nemico della diffusione di piani welfare aziendale nelle nostre imprese è il conflitto tuttora vigente tra normativa fiscale e normativa lavori-stica. Se la prima è piuttosto chiara nell’esigere la volontarietà datoriale nella spesa per politiche di welfare, atto che non deve derivare da obblighi contrat-tuali di alcun genere (è spiegato nella parte II di questo volume), la seconda, quantomeno dal 2010, sta provando ad incentivare scambi contrattuali di se-condo livello per incrementare la performance aziendale, condizionando il go-dimento della defiscalizzazione e decontribuzione delle componenti di salario legate ad incrementi di produttività alla sottoscrizione di quegli stessi accordi che, se firmati, impediscono di beneficiare dei vantaggi del TUIR. Ecco che si spiega anche l’apparente disinteresse delle parti sociali verso il welfare azien-dale vero e proprio, a tutto vantaggio del meno innovativo welfare contrattuale e dei più complessi accordi di secondo livello contenenti indicatori di misura-zione della produttività per assolvere alle richieste del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 22 gennaio 2013 (confermato il 19 febbraio 2014, si veda la parte III). La concezione ancora solo paternalistica del welfare che tra-spare dal TUIR toglie dalla disponibilità di innovativi accordi sindacali la pre-disposizione di servizi per tutti i dipendenti o categorie di essi, a meno di non immaginare teorici accordi-quadro per mascherare dietro a propositi “di carta” veri e propri obblighi contrattuali, che non devono risultare all’Agenzia delle entrate. Dietro a questo paradosso, tutt’altro che secondario, nonostante la sottovaluta-zione della dottrina, se ne nasconde un altro altrettanto bizzarro. È indubbio che l’esiguità delle somme esentate dal peso della tassazione renda poco van-taggiosa la predisposizione di piani di welfare per la piccola e media impresa che non possa contare su rilevanti economie di scala. Al contrario, la fornitura di servizi può essere un intelligente forma di risparmio per la grande azienda. Questa, però, a differenza della prima, ha uno scambio continuativo con le for-ze sindacali e quindi non può permettersi operazioni unilaterali che possono addirittura essere politicamente lette come provocatorie proprio rispetto ai sin-dacati, che difficilmente rinunciano a partecipare alla costruzione del menù di servizi per i lavoratori. In sintesi, la situazione attuale è quella di una normativa arretrata e contraddi-toria, che scoraggia la micro e piccola impresa in ragione degli scarsi vantaggi a bilancio a fronte degli elevati costi di costruzione dei piani di welfare, ma al-lo stesso tempo mette in difficoltà la grande che si trova a non poter coinvol-gere le forze sindacali “alla luce del sole” per non incorrere in (per ora solo teoriche, non si conoscono casi) sanzioni amministrative. @ 2014 ADAPT University Press
  • 16. XVI Executive summary In attesa di un intervento legislativo risolutore, gli addetti ai lavori vanno sem-pre più concentrandosi sulla costruzione di piani di welfare per la micro, pic-cola e media impresa. I case studies classici individuano come modelli solo importanti gruppi manifatturieri o di servizi (citati anche in questo volume, parte IV), certamente interessanti, ma poco utili come benchmark da imitare per il piccolo imprenditore veneto o lombardo o emiliano. È allora possibile costruire schemi di welfare per il principale motore dell’economia italiana, ovvero la micro e piccola impresa diffusa? Certamente sì, se si ha la pazienza di superare la retorica mediatica attorno ai famosi casi di successo della grande imprenditoria e si immagina un modello nuovo, ma altrettanto vantaggioso. In Italia, ad oggi, paiono essere tre le possibilità di azione (parte IV), anche tra loro sommabili. Le imprese interessate alla costruzione di programmi di servizio per i propri dipendenti possono associarsi in rete, moltiplicando il numero dei lavoratori interessati e quindi creando le stesse economie di scala della grande impresa. La regia dell’alleanza può ricadere su un solo soggetto o può essere anch’essa condivisa mediante la creazione di una sorta di sovrastruttura che amministra il piano di welfare per tutti i soggetti giuridici in rete. Una dinamica simile può generarsi anche senza la creazione (più o meno for-malizzata) di una vera e propria rete, ma affidandosi alla capacità di recluta-mento di soggetti interessati da parte di un operatore specializzato del settore, una società di servizi che abbia un evidente interesse economico diretto alla creazione di un partecipato gruppo di piccole imprese disponibile a comprare dall’operatore la costruzione (se non anche l’ideazione) del piano. Di natura non commerciale, ma associativa, è invece la costruzione di un rag-gruppamento di imprese governato dall’associazione datoriale alla quale que-ste aderiscono, che si fa carico del perfezionamento, della gestione e del con-trollo del piano di welfare condiviso tra tutte le aziende interessate a partecipa-re www.bollettinoadapt.it al programma. Questa terza è forse la forma più efficace per rendere il welfare aziendale una possibilità concreta e non solo una ipotetica per la micro e piccola impresa. L’associazione datoriale conosce il settore, i bisogni delle proprie imprese, il territorio certamente meglio di qualsiasi società di servizi, che comunque po-trebbe essere coinvolta in seconda battuta per l’attuazione pratica del piano; la cui regia è bene comunque rimanga in capo agli stessi imprenditori o alla loro associazione di rappresentanza. È questo anche un modo per fare incontrare i mondo delle relazioni di lavoro e il welfare aziendale. È infatti nelle capacità
  • 17. Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma possibile XVII di una associazione datoriale la condivisione col sindacato di accordi territo-riali che sottraggano il welfare alla paternalistica generosità dell’imprenditore, facendolo diventare occasione di partecipazione, senza incappare nelle sanzio-ni dell’Agenzia delle entrate. Gli anni a venire dimostreranno la reale volontà di imprenditori, lavoratori, as-sociazioni datoriali, sindacati, nonché dello Stato, di costruire soluzioni capaci di realizzare quel modello win-win-win che rende originale – e probabilmente anche necessaria – l’esperienza del welfare aziendale. @ 2014 ADAPT University Press
  • 18.
  • 19. Parte I QUADRO STORICO E CONTESTO SOCIO-ECONOMICO
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  • 21. Dal welfare di Stato al welfare aziendale di Carmen Di Stani, Emmanuele Massagli Cos’è (davvero) il welfare aziendale? La chiarezza concettuale della nozione è inversamente proporzionale alla sua capacità evocativa. Intorno al tema aleg-gia una sensazione di indefinitezza giuridica paragonabile a quella che caratte-rizza un altro item della modernità, tematicamente affine: quello della respon-sabilità @ 2014 ADAPT University Press sociale. Tralasciando il mero formalismo definitorio, per intendere l’essenza del welfa-re aziendale bisognerebbe indagare i fattori socio-economici che oggi giustifi-cano la crescente attenzione di imprese, lavoratori, politica e dottrina verso questo tema. Il welfare aziendale è il tentativo di risposta al costante indebolimento dello stato sociale (welfare state) in materia di previdenza, assistenza, istruzione e sanità. I lavoratori, diffidenti della debole “macchina” pubblica, sempre più ri-chiedono alle imprese di sostituirsi allo Stato in compiti prima ad esso asse-gnati, per il tramite di politiche aziendali in grado di aumentare i livelli di pro-duttività contemporaneamente fidelizzando i propri dipendenti. Così definito il welfare aziendale si connota come uno strumento bivalente, benefico per l’impresa, poiché potenzialmente capace di incrementare i risultati economici, ma desiderabile anche per i dipendenti, poiché sostitutivo di servizi e forme di tutela altrimenti assenti. L’Italia, violentemente investita dalla prima crisi globale della storia moderna, si è trovata ad affrontare il problema della difficile conciliazione fra l’esigenza di contenere la spesa pubblica e di rendere sostenibile il sistema di welfare, tradizionalmente piuttosto pervasivo. In uno dei Paesi europei con la maggiore spesa pubblica il corto circuito è stato inevitabile: le istituzioni, anche sotto la pressione dei “controllori” europei, hanno dovuto (e sempre più dovranno) ri-
  • 22. 4 Carmen Di Stani, Emmanuele Massagli durre la spesa, inevitabilmente indebolendo anche le politiche di protezione sociale. In questo contesto le politiche di welfare aziendale possono essere un portentoso strumento integrativo, sebbene certamente non sostitutivo, delle tu-tele www.bollettinoadapt.it del welfare state. Per quanto sia molto cresciuta negli anni l’attenzione di politica, media, im-prese e parti sociali, le esperienze di welfare aziendale in Italia sono ancora limitate alle grandi imprese e sono sperimentate solo nel centro-nord. Proprio per evitare che il welfare aziendale diventi un fenomeno di nicchia, sono sem-pre più frequenti bandi regionali e piani nazionali di sostegno alla sperimenta-zione di pratiche di welfare (si pensi agli stanziamenti di Italia Lavoro o ai bandi dedicati di Regione Lombardia e Regione Veneto). Sebbene la normativa fiscale e in particolare la vetustà delle norme del Testo Unico delle imposte sui redditi sembrino significare il contrario, anche l’amministrazione pubblica ha quindi interesse che si diffondano azioni di welfare capaci di remunerare i lavoratori non solo in moneta liquida, ma anche in benefit e servizi, che ben meno pesano sul cuneo fiscale e sul costo del la-voro per unità di prodotto (CLUP). Uno dei vantaggi del welfare privato è, in-fatti, proprio quello di offrire al dipendente, a parità di costo aziendale, un va-lore in beni e servizi superiore a quella che sarebbe stata l’erogazione diretta in busta paga. Per quanto il dipendente sia naturalmente propenso a preferire l’erogazione monetaria, l’apprezzamento verso queste iniziative è crescente. Le ricerche economiche calcolano che il misuratore di impegno del lavoratore (employee engagment index) aumenti del 30% quando il welfare viene intro-dotto e del 15% quando un servizio già esistente viene migliorato. Per l’impresa si tratta di un vero e proprio investimento: 150 euro impiegati in mi-sure di welfare possono portare a un guadagno di 300 euro tra risparmio effet-tivo e aumento di produttività (1). Le misure di welfare erogate nel rispetto del quadro normativo vigente consentono la completa deducibilità dei costi per l’azienda e non concorrono alla formazione di reddito di lavoro per il dipen-dente. Anche grazie a questo trattamento fiscale di favore (per quanto meno vantaggioso di come calcolato nel resto d’Europa) il welfare aziendale consen-te di raggiungere tre obiettivi gestionali: 1) l’aumento della retribuzione reale dei lavoratori, senza corrispettivo aggravio del costo del lavoro per unità di prodotto; 2) il miglioramento del clima aziendale, del benessere dei lavoratori e del loro potere d’acquisto, con effetti diretti sulla riduzione dell’assenteismo, dei costi d’inefficienza e con un innalzamento dell’orgoglio di appartenenza; (1) F. RIZZI, R. MARRACINO, L. TOIA, Il welfare sussidiario: un vantaggio per aziende e di-pendenti, McKinsey & Company, 2013.
  • 23. Dal welfare di stato al welfare aziendale 5 3) l’ottimizzazione dell’impatto fiscale e contributivo del compenso non mo-netario sia per i lavoratori che per l’impresa. Tenendo conto della struttura del sistema produttivo italiano, costituito in pre-valenza da micro e piccole imprese, ancora molto modeste sono le quote di la-voratori dipendenti che ricevono misure dirette di welfare aziendale. Senza ci-tare pratiche evolute di welfare, basti ricordare che i buoni pasto sono ricevuti solo dal 17,6% dei lavoratori, le mense aziendali fruite dall’8,4%, appena il 2,3% gode di servizi sanitari aggiuntivi e un microscopico 0,4% riceve il rim-borso delle spese per l’asilo nido o per altri servizi di cura familiare (misure, queste ultime, capaci di realizzare una migliore conciliazione famiglia-lavoro per le donne lavoratrici). Se convintamente sostenuta, la diffusione del welfare aziendale porterebbe indubbi benefici micro e macroeconomici: dall’alleggerimento della pressione sul bilancio pubblico al rafforzamento dei legami fra imprese e territori, dalla fidelizzazione dei dipendenti alla promo-zione della nuova economia mista dei servizi, con effetti positivi anche sulla crescita del PIL, sull’occupazione femminile e sulle abitudini familiari. Se è positivo che oltre l’80% delle aziende presenti in Italia con più di 500 di-pendenti abbia avviato una qualche iniziativa di welfare aziendale (ben il 43% di esse offre almeno due tipologie di interventi di welfare) (2), è ora necessario che questa particolare politica si diffonda anche alle imprese medio-piccole. Perché questo avvenga è certamente necessario l’intervento dello Stato, so-prattutto aggiornando il TUIR, ma non è sufficiente. È altrettanto indispensa-bile la disponibilità degli imprenditori ad associarsi in rete per realizzare quel-le economie di scala la cui assenza rende ben poco appetibile le politiche di welfare aziendale. Perché si creino reti di questo genere è opportuno un mag-giore coinvolgimento delle associazioni datoriali, già istituzionalmente deputa-te ad essere registi di queste aggregazioni, per il bene del bilancio dei propri associati, dell’economia del territorio e della competitività dello Stato. Questa è una delle sfide dell’economia italiana nei prossimi anni. (2) E. PAVOLINI, U. ASCOLI, M.L. MIRABILE, Tempi moderni. Il welfare nelle aziende in Italia, il Mulino, 2012. @ 2014 ADAPT University Press
  • 24. Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operaie ai fringe benefits @ 2014 ADAPT University Press di Daniele Grandi Le prime esperienze di intervento sociale da parte delle imprese prendono forma nella lunga fase paleotecnica che precede lo sviluppo industriale dell’Italia e nascono dalla particolare intraprendenza e dalla capacità innovati-va di un singolo imprenditore, oppure da una specifica volontà di natura pub-blica. Gli esempi più significativi di questo periodo (anni Quaranta e Cinquan-ta dell’Ottocento) sono il villaggio di Larderello in Toscana e la colonia ope-raia di San Leucio, nei pressi di Caserta. Nello stesso periodo, dal lato delle associazioni di lavoratori, nascono le socie-tà di mutuo soccorso (la prima a Pinerolo nel 1844 su iniziativa di un gruppo di calzolai). La funzione essenziale di queste nuove realtà è costituita dalla somministrazione gratuita di cure ai soci in caso di malattia, ma l’assistenza progressivamente coprirà anche i casi di invalidità, vecchiaia e morte. Nel 1879 in Italia già esistono 1959 società che contano 327.173 soci effettivi. Alla fine dell’Ottocento, mentre il fenomeno delle società di mutuo soccorso va ulteriormente diffondendosi, grazie al riconoscimento legislativo e al soste-gno proveniente dal mondo cattolico, anche il paternalismo italiano inizia a configurarsi con caratteri organici, pur rimanendo legato alla figura carismati-ca dell’imprenditore e riguardando quasi esclusivamente le industrie del tessile (comparto economico che traina il primo vero sviluppo industriale italiano). I casi più noti sono quelli di Cristoforo Benigni Crespi a Crespi d’Adda, di Na-poleone Leumann a Collegno, di Gaetano Marzotto a Valdagno e di Alessan-dro Rossi a Schio, nel vicentino. Nasce un fenomeno del tutto nuovo, ma de-stinato a svilupparsi notevolmente negli anni a venire: molti imprenditori av-vertono il dovere sociale di garantire un futuro ai propri lavoratori e alle relati-ve famiglie.
  • 25. Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefit 7 La realizzazione in quegli anni di villaggi e strutture accanto alle fabbriche per alloggiare e assistere gli operai che provengono da località distanti non si deve esclusivamente alla posizione marginale degli opifici, ma anche ad altre esi-genze come il procedere ad un sostanziale distacco degli operai dal loro retro-terra agricolo e sostenere il fattore lavoro nell’ambito del “nuovo” sistema di fabbrica. In questo periodo, l’impegno sociale degli imprenditori, ascrivibile a questa corrente di “paternalismo organico”, si configura dunque come una sor-ta di compensazione, rispetto ai processi di meccanizzazione, ai tempi e ai rit-mi di lavoro più incessanti imposti dalla nuova organizzazione delle attività produttive in chiave industriale. All’inizio del Novecento lo sviluppo di forme di welfare, pubblico e privato, viene progressivamente imposto non solo dalle rivendicazioni dei lavoratori, ma anche dall’obiettivo dei Governi di garantire la pace sociale in maniera non repressiva e dall’interesse degli imprenditori più lungimiranti, di numero sem-pre maggiore e sempre più impegnati nella promozione di azioni sociali all’interno delle proprie imprese, ad attrarre e trattenere manodopera qualifica-ta. È durante il fascismo che si afferma definitivamente il welfare aziendale come strumento per aumentare la produttività e per contrastare la conflittualità ope-raia (quindi in una logica più economicistica che paternalistica). All’interno dell’economia corporativa promossa in quegli anni, il cui obiettivo dichiarato è il superamento della contrapposizione tra capitale e lavoro, accanto all’Opera nazionale dopolavoro, nata nel 1925 con il compito specifico di organizzare il tempo libero delle masse popolari, viene chiesto alle aziende un impegno con-creto nella stessa direzione. A tal fine, e vista anche la necessità del consenso politico e di nuove procedure di controllo sugli operai da parte delle istituzioni e dei grandi gruppi industriali, si arriva a una riscoperta, in chiave totalmente nuova e più moderna, del paternalismo ottocentesco gettando le fondamenta di quello che sarà il welfare aziendale italiano del XX secolo. Un esempio di questo nuovo ciclo di azioni sociali da parte dell’impresa è quello del villaggio di Torviscosa a Torre di Zuino realizzato nel 1938 dalla Snia Viscosa, guidata da Franco Marinotti. All’interno del centro abitato ven-gono ospitati oltre mille lavoratori e il controllo che l’imprenditore esercita non solo sul tempo libero e la vita quotidiana di questi, ma anche sulle attività produttive e l’insediamento in generale, è totale. Lo stesso fascismo è presente solo in minima parte ed esclusivamente attraverso la mediazione di Marinotti. L’ordine sociale si basa sulla famiglia, sulla stabilità della forza lavoro, sull’assenza di conflittualità e sul forte attaccamento, da parte dei lavoratori, alla fabbrica. Il paternalismo qui messo in atto riesce bene ad adattarsi alle lo- @ 2014 ADAPT University Press
  • 26. 8 Daniele Grandi giche del fascismo e, grazie alla sua articolazione, anche ai diversi scenari po-litici che si aprono dopo la sua caduta. La Società Montecatini fornisce un altro esempio di costruzione del welfare aziendale durante gli anni del fascismo. Dominante è l’autorevole figura dell’imprenditore Guido Donegani, che in quegli anni, a fianco di una forte politica espansionistica che lo porterà a diventare leader di una delle principali industrie italiane attiva nei settori minerari e chimici, elabora un articolato programma sociale e assistenziale, esteso a tutto il territorio nazionale, in quel-le località dove sono situati i suoi stabilimenti (oltre cento). In riferimento alla prevenzione degli infortuni e alla tutela della salute viene innanzitutto promos-sa un’azione di tipo educativo che riguarda anche l’igiene personale. Viene inoltre creato un apposito corpo di assistenti che diventerà un punto di riferi-mento per l’operaio e la sua famiglia in base ad un rapporto costruito sulla fi-ducia, sulla solidarietà e sull’armonia che deve caratterizzare, in ogni momen-to, la vita aziendale. Per i bambini vengono creati asili, scuole e colonie. Parti-colare attenzione viene rivolta agli interventi alimentari e alle attività ricreati-ve e sportive: vengono a tal fine creati spacci, mense, refettori, campi da cal-cio, teatri, cinema e biblioteche. Statisticamente, nel 1944 in Italia i locali di residenza in assegnazione ai di-pendenti delle società sono oltre 11.500, per un totale di circa mille edifici, ai quali si devono aggiungere i fabbricati che ospitano i dopolavoro, le opere as-sistenziali e ricreative e le mense. Certamente da citare anche lo stabilimento della società Dalmine, al quale si affianca un ampio e articolato villaggio operario, che durante il periodo fasci-sta diventa un prototipo di company town capace di ospitare (anno 1941) oltre 7.300 abitanti. Come la Montecatini, anche la Dalmine offre ampio ventaglio di servizi di welfare aziendale. Fra questi si sottolinea la scuola popolare ope-raia dove si svolgono, fra il 1922 e il 1929, i primi corsi serali e professionali, la scuola elementare istituita nel 1925 (anticipando di tre anni quella pubblica) e una scuola apprendisti a partire dal 1937. Nel 1922 viene costituita una cassa mutua per fornire aiuto ai soci malati e l’anno successivo viene attivata anche una cassa di previdenza per gli impiegati. Nel 1935 nasce la Pro Dalmine, so-cietà incaricata di gestire il patrimonio immobiliare non industriale della città e tutte le opere sociali, ricreative, culturali e assistenziali destinate agli operai e alle loro famiglie e di consegnare borse di studio, premi di fedeltà, nonché pre-stiti ai dipendenti per l’acquisto della casa. Nella congiuntura favorevole del secondo dopoguerra, determinata dalla forte espansione delle economie occidentali e da un dialogo responsabile tre le parti sociali sulle tematiche del lavoro, si apre una fase fondamentale per la costru- www.bollettinoadapt.it
  • 27. Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefit 9 zione dello stato sociale. È in questa fase che diverse aziende già attive in am-bito sociale danno nuovo slancio al proprio impegno, costruendo nuovi alloggi e rafforzando i propri apparati assistenziali incentrati sulle strutture del dopo-lavoro. In tale contesto spicca il celebre modello di welfare aziendale ideato da Adria-no Olivetti, che aveva l’ambizione di assistere i propri lavoratori in tutti gli aspetti della vita, in azienda e in famiglia. La missione dell’impresa, lo stato sociale, le costanti relazioni con il territorio e la dimensione culturale dell’industria si fondono insieme per superare la visione strumentale ed eco-nomicistica del welfare, molto (per Olivetti “troppo”) attenta ai livelli produt-tivi. Le attività assistenziali e sociali della Olivetti, presenti già da tempo nella cultura dell’impresa, vengono gestite a partire dal 1948 dal Consiglio di ge-stione, un organismo che prevede il coinvolgimento diretto dei lavoratori nelle scelte gestionali ed è su queste linee di cogestione che nel 1960, oltre alla rea-lizzazione ad Ivrea di alcuni quartieri residenziali, in un complesso quadro di attività culturali e di opere sociali e sanitarie, l’azienda istituisce anche il Fon-do di solidarietà interna, che prevede numerosi interventi previdenziali e assi-stenziali, compresi i trattamenti ospedalieri, integrativi di quelli pubblici. An-che in questo caso l’iniziativa aziendale supplisce alle carenze del sistema pubblico o ne anticipa le direttive finali, come accade per le scuole materne e gli asili-nido, che precedono la nascita della scuola materna pubblica avvenuta nel 1970. Altro caso noto è quello della Larderello degli anni Cinquanta, presieduta da Aldo Fascetti, esponente di spicco della DC. Tra il 1954 e il 1959, insieme all’espansione delle attività produttive viene promossa anche la fondazione di un nuovo villaggio operaio particolarmente attento alle dinamiche sociali e comunitarie. Al centro di questo progetto, in maniera indicativa e con una pro-spettiva totalmente nuova rispetto al welfare aziendale dei decenni precedenti, non viene più collocata soltanto la fabbrica, con i suoi ritmi produttivi e le sue gerarchie, ma la vita stessa degli operai. Quest’ultima, dunque, assume una dimensione propria, capace di rompere la totale identificazione tra il lavoratore e l’impresa, punto di forza sia del paternalismo ottocentesco, sia del welfare aziendale degli anni Trenta (quello vocato a contenere la conflittualità degli operai e a concorrere attivamente alla costruzione del consenso). Alla logica del capitalismo e del profitto, gli imprenditori più illuminati provano ad af-fiancare uno spazio sociale regolato dagli ideali della solidarietà, solitamente di ispirazione cristiana. Anche l’ENI è molto attiva nelle politiche sociali per esplicita volontà di Enri-co Mattei di trasformare la gestione delle persone in un vantaggio competitivo, @ 2014 ADAPT University Press
  • 28. 10 Daniele Grandi enfatizzando l’attenzione ai dipendenti e all’ambiente di lavoro. L’innovativo progetto urbanistico di Metanopoli, villaggio residenziale per i lavoratori ENI a San Donato Milanese (avviato nel 1953), è il segno compiuto di questo ap-proccio. Case, laboratori di ricerca e uffici sono progettati per offrire ai dipen-denti un ambiente di lavoro confortevole e all’avanguardia, immerso nel verde e fornito di servizi collettivi tra cui un asilo, una scuola, un cinema e un centro sportivo. Questa corrente a favore dell’azione sociale dell’impresa sviluppatasi dal se-condo dopoguerra agli anni Sessanta è destinata a diradarsi fortemente nei de-cenni successivi, poiché parte del capitalismo italiano orienta la sua azione in direzione del neoliberismo anglosassone e, contestualmente, lo Stato va sem-pre più crescendo con le riforme previdenziali degli anni Sessanta e con la co-stituzione del Servizio sanitario nazionale. Il modello perseguito è lo stato so-ciale inteso come mix tra il modello corporativo di matrice bismarckiana, in campo pensionistico, e le esperienze anglosassoni di welfare universalistico di matrice beveridgiana per quel che concerne l’assistenza sanitaria. C’è quindi sempre meno bisogno del welfare aziendale, che diventa sempre più marginale e costoso, quantomeno indirettamente visto che cresce non poco l’onerosità dei contributi sociali obbligatori a carico delle imprese destinate a pagare il welfare pubblico, che nel contempo assorbe numerose casse, enti e fondazioni di natura privatistica. La progressiva emarginazione del welfare aziendale viene interrotta solo negli anni Ottanta grazie allo sviluppo dei piani di fringe benefits per i lavoratori, in particolare i più qualificati. Fenomeno tipico delle grandi multinazionali, che conseguentemente in Italia incomincia ad osservarsi nelle filiali italiane delle aziende statunitensi. Da un lato i programmi assistenziali e previdenziali di matrice aziendale diventano sempre più ampi e sofisticati, dall’altro vengono inserite voci retributive indirette sconosciute al welfare del secolo precedente (stock options, auto aziendali, ecc.). Questo nuovo approccio al welfare azien-dale prende la forma di una moderna politica retributiva per élite, limitata ai manager e ai professionals delle filiali delle grandi società globalizzate. È solo in seguito alla crisi degli ultimi anni e alla progressiva e conseguente riduzione dello spazio d’intervento dello stato sociale che, a fronte della sem-pre maggiore evidenza dei limiti di natura organizzativa ed economica dell’intervento pubblico in materia assistenziale e previdenziale, questo orien-tamento tende a mutare. Si assiste ormai da anni a un ripensamento del ruolo del welfare aziendale da parte delle grandi aziende, le quali decidono di af-fiancare a strumenti più tradizionali, sopravvissuti nel corso degli anni, anche pratiche in grado di sfruttare tutti i vantaggi offerti dalla normativa fiscale e www.bollettinoadapt.it
  • 29. Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefit 11 previdenziale, nonché azioni che vadano a incidere sulle modalità e sui tempi di lavoro, per offrire a tutti i lavoratori risposte ai nuovi bisogni e ai nuovi ri-schi sociali che vanno sorgendo e ai quali il welfare pubblico non riesce più a far fronte. Oggigiorno larga parte dell’offerta aziendale si orienta verso il bilanciamento dei tempi di vita e lavoro e la tutela della genitorialità: la conciliazione vita-lavoro è una delle principali aree di welfare aziendale. Ci sono poi l’assistenza sanitaria e i contributi previdenziali, la tutela della salute, le misure di soste-gno al reddito e gli interventi in tema di formazione e istruzione (queste ultime solo recentemente riconosciute come benefit). Se infatti l’erogazione di for-mazione non è di per sé pratica nuova per le imprese, oggi l’acquisizione e il continuo sviluppo delle proprie competenze in un’ottica di life-long learning sono elementi tanto cruciali per lo sviluppo professionale quanto difficili da reperire in un mercato del lavoro in cui i datori di lavoro non sono incentivati a sostenere i costi della formazione. Il welfare aziendale è oggi definibile come «l’insieme dei benefit e servizi for-niti dall’azienda ai propri dipendenti al fine di migliorarne la vita privata e la-vorativa, che vanno dal sostegno al reddito familiare, allo studio, e alla genito-rialità, alla tutela della salute e fino a proposte per il tempo libero e agevola-zioni di carattere familiare» (1). È uno dei principali sostegni del welfare pub-blico mediante ricchezza privata e per questo anche ad esso ci si riferisce par-lando di “secondo welfare”, ovvero quel nuovo welfare mix caratterizzato dall’ingresso nell’arena del welfare di soggetti, privati, che possono, grazie al loro radicamento territoriale e in partnership con gli enti locali, contribuire a dare risposte a vecchi e nuovi bisogni. (1) La definizione di F. MAINO, G. MALLONE, Secondo Welfare e imprese: nesso e prospettive, in La Rivista delle Politiche Sociali, 2012, n. 3, 195-207, completa quanto presentato nel capi-tolo @ 2014 ADAPT University Press precedente.
  • 30. Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare aziendale @ 2014 ADAPT University Press di Daniele Grandi Le questioni che il welfare aziendale oggi pone in quanto complemento del si-stema pubblico sono diverse se viste da una prospettiva politologica o da una prospettiva aziendalistico-organizzativa. Le diverse concezioni di benessere che sottendono a tali due punti di vista introducono diversi ordini di istanze che gli addetti ai lavori sono portati a considerare nel trattare l’argomento in esame. Da un punto di vista prettamente politologico assume importanza la correla-zione tra il ridimensionamento del welfare state e l’impulso del welfare azien-dale. In particolare, considerando il welfare come l’assetto delle condizioni di vita degli individui, delle risorse e delle opportunità a loro disposizione lungo le diverse fasi dell’esistenza, che una determinata comunità politica considera legittima spettanza di cittadinanza sociale, e il welfare state come l’insieme delle politiche pubbliche attraverso cui lo Stato fornisce ai propri cittadini pro-tezione contro rischi e bisogni prestabiliti, sotto forma di assistenza, assicura-zione o sicurezza sociale, allora il concetto di welfare implica l’idea di bisogni non soddisfatti con il solo reddito da lavoro per ragioni quali-quantitative e il concetto di welfare aziendale quello che tali bisogni siano almeno in parte soddisfatti (o soddisfabili) direttamente dall’azienda, tramite strumenti assi-stenziali, assicurativi, o di altro tipo, diversi comunque, per natura e intitola-zione soggettiva, da quelli propri e tipici del welfare state. In questo scenario, mentre il welfare state interviene tipicamente sul versante quantitativo, ovvero quello dell’insufficienza delle risorse e della loro redistri-buzione, il welfare aziendale, secondo una prospettiva politologica, interviene sul versante qualitativo per sussidiare (in chiave integrativa o addirittura sosti-tutiva) il welfare state affetto da crisi fiscale, ovvero per erogare beni che né il
  • 31. Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare aziendale 13 reddito da lavoro, né il welfare state riescono ad assicurare ai lavoratori. Da qui, il fatto che la relazione di lavoro debba includere anche il soddisfacimento di tali esigenze non efficacemente soddisfatte dal compenso monetario diventa presupposto implicito all’idea di welfare aziendale. Da un punto di vista politologico, dunque, assumono rilevanza i bisogni del lavoratore/cittadino. A tal proposito, infatti, mentre da un lato si ravvisa un aumento delle grandi aziende, italiane e internazionali, che decidono, avendo disponibilità di risorse, di offrire pacchetti di welfare ai propri dipendenti, dall’altro si è in presenza di un tasso di disoccupazione che ha ormai superato il 12%, di una disoccupazione giovanile che si attesta oltre il 40% e di una quota di lavoratori occupati nelle PMI che nel 2010 raggiungeva l’80%. Cate-gorie, queste, che vanno a formare un cluster molto numeroso di soggetti che rimangono esclusi da tali politiche e che dunque non trovano risposta a quei bisogni che esse si propongo di soddisfare. Circostanza che determina una di-scriminazione non solo in base allo status di lavoratore occupato o disoccupa-to, ma anche a seconda delle diverse dimensioni del luogo di lavoro, andando a rafforzare ulteriormente quella distinzione tra c.d. insider e outsider che in Italia è già drammaticamente accentuata. In ambito economico il benessere può essere definito come il soddisfacimento della funzione di utilità di un singolo individuo e/o la massimizzazione delle funzioni di utilità degli individui che compongono una data collettività. Defi-nizione questa che può essere ricompresa nella più ampia nozione di well-being, lo stato di benessere fisico, mentale e sociale che è ben di più della semplice assenza dello stato di malattia o di infermità. Declinando tale definizione in ambito aziendale si può notare come la cura di questa dimensione di benessere del lavoratore vada a formare quel rapporto tra caring e control proposto dal welfare aziendale secondo una prospettiva pret-tamente aziendalistico-organizzativa. Prospettiva, questa, in cui confluisce la più recente evoluzione delle politiche aziendali di compensation & benfit in una logica di total reward, che presuppone che il salario rappresenti certamen-te un elemento importante della retribuzione, ma non l’unica componente. Per le moderne politiche del personale lo scambio tipico della relazione lavoristica deve arricchirsi di nuovi elementi qualificativi quali il work environment (qua-lità del luogo di lavoro, clima organizzativo, sviluppo e carriera, ecc.), il com-pany environment (bilancio sociale, valori, certificazioni ambientali, ecc.) e il work-life balance (servizi per il benessere personale, servizi per la famiglia, ecc.). @ 2014 ADAPT University Press
  • 32. 14 Daniele Grandi A sostegno del welfare aziendale quale forma di integrazione dei salari tesa all’assicurazione di un certo livello di benessere è intervenuta anche una nuova branca degli studi psicosociali, denominata “psicologia della felicità”. Non es-sendo questa la sede adatta per una trattazione diffusa della disciplina ci si li-mita a sottolineare come una delle acquisizioni più interessanti si trovi nella documentazione che nei Paesi più industrializzati l’incremento marginale del reddito non corrisponde all’incremento marginale della percezione soggettiva della felicità. È stato rilevato che i fattori che determinano la percezione sog-gettiva di felicità non sono limitati alle ricompense di natura economica (in primis il tenore di vita materiale), ma ne includono molti altri (famiglia, stato di salute, qualità del lavoro e delle relazioni di lavoro, ecc.). Il benessere sa-rebbe quindi una funzione sia del tenore materiale della vita sia dei beni rela-zionali. Se è così, è certamente importante, anche da un punto di vista econo-mico, disegnare ogni tipo di organizzazione (anche quella lavorativa) in ma-niera tale da coordinare armonicamente i bisogni della persona. Così, nel tentativo di intercettare tali bisogni attivando uno scambio virtuoso fra crescita della produzione e miglioramento del lavoro e della vita dei dipen-denti, le aree in cui le imprese intervengono più diffusamente con politiche di welfare aziendale sono: tutela pensionistica complementare e assistenza sani-taria integrativa; servizi di assistenza alla persona; servizi per bambini e adole-scenti; misure per la conciliazione fra lavoro e vita privata e per la condivisio-ne dei ruoli nella famiglia; iniziative di sostegno all’istruzione e all’educazione, sia per i giovani che per gli adulti; servizi di mobilità fra casa e luogo di lavoro; servizi ricreativi culturali e sportivi; forme di sostegno al po-tere d’acquisto dei lavoratori. Tali azioni testimoniano come l’eterogeneità dei beni che il welfare aziendale mira ad assicurare si lasci difficilmente tradurre in termini giuridico-contrattuali, spaziando infatti dal diritto corrispettivo (forma indiretta di retribuzione) al diritto non corrispettivo (diritto al telelavo-ro, al part-time, alla flessibilità oraria), dalle politiche retributive in senso stretto alle politiche del lavoro (politiche di conciliazione vita-lavoro, politiche di welfare familiare, ecc.). Trovare un equilibrio fra diverse dimensioni è uno degli obiettivi dei policy makers e degli addetti ai lavori nei prossimi anni. Conciliare la funzione redi-stributiva del welfare pubblico con la funzione retributiva e incentivante dei benefit aziendali non è operazione semplice e immediata. Al netto infatti della facoltà delle imprese di scegliere come meglio incentivare i propri dipendenti per implementare nuovi modelli organizzativi e incrementare la produttività, sullo sfondo emerge un’evidente problematica di equità e discriminazione, per quanto involontaria, tra occupati e disoccupati, dipendenti e autonomi, tipolo- www.bollettinoadapt.it
  • 33. Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare aziendale 15 gie di dipendenti. Per andare verso un modello di welfare aziendale più inclu-sivo e in grado di far fronte efficacemente alle istanze emergenti sarebbe ne-cessario promuovere aggiornamenti normativi tesi a rendere il welfare azien-dale più accessibile a tutte le imprese e allo stesso tempo incoraggiare un dia-logo più strutturato fra istituzioni locali e attori socio-economici del territorio (sindacati, associazioni datoriali, terzo settore) in modo da favorire la promo-zione di partnership pubblico-privato e reti multistakeholder. @ 2014 ADAPT University Press
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  • 35. Parte II AMBITI DI INTERESSE, PROFILI GIURIDICI, PROBLEMATICHE FISCALI
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  • 37. Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa @ 2014 ADAPT University Press di Daniele Grandi Previdenza sociale La definizione “minimalistica” di previdenza è accantonamento di reddito da lavoro attuale (contribuzione) al fine di soddisfare bisogni futuri, in presenza di una duplice condizione: che sussista un vincolo eteronomo di indisponibilità per i consumi (c.d. “vincolo di destinazione previdenziale”) e che sussista un elemento solidaristico nell’ambito del gruppo tutelato. È importante sottolineare come non sia coessenziale alla previdenza una natu-ra legale/pubblicistica, essendo infatti costituzionalmente garantita anche la previdenza privata (complementare/integrativa o sostitutiva), e dunque nego-ziale. Ed è proprio nell’ambito di tale previdenza privata che negli anni No-vanta, in concomitanza con le riforme delle pensioni pubbliche, accanto al si-stema previdenziale tradizionale è nata o, in alcuni casi, è stata rilanciata, la previdenza integrativa o complementare. Essa è costituita in primo luogo dai fondi di categoria (o “negoziali”) chiusi, l’adesione ai quali è riservata ai membri di una categoria produttiva o occupazionale. I fondi chiusi vengono poi affiancati dai piani pensionistici individuali (PIP, piano individuale pen-sionistico di tipo assicurativo), cui tutti i cittadini possono aderire tramite la sottoscrizione di polizze assicurative, e dai fondi pensionistici “aperti”, a metà fra i fondi chiusi e i piani individuali, cui possono egualmente iscriversi tutti i cittadini. In particolare, si può ascrivere alla previdenza complementare aggiuntivo-integrativa, oltre a quella pensionistica tipicizzata dal d.lgs. n 252/2005, anche l’intervento degli enti bilaterali a integrazione dell’assicurazione sociale per l’impiego corrisposta ai lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionale,
  • 38. 20 Daniele Grandi prevista in via sperimentale per ciascuno degli anni 2013-2014-2015 dall’art. 3, comma 17, della recente l. n. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro (legge Fornero), nonché le prestazioni integrative erogate ai sensi del comma 11 dell’art. 3 della predetta legge dai fondi di solidarietà bilaterali. La previdenza complementare gode di un incoraggiante favore fiscale che si concretizza nella permessa deducibilità dal reddito complessivo dei contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro alle forme di previdenza comple-mentare per un importo non superiore di euro 5.164, 57 (art. 10, comma 1, lett. e-bis, TUIR). La realtà dominante nell’ambito del secondo ramo previdenziale è quella dei fondi chiusi di origine negoziale, istituiti negli anni Novanta dalle parti sociali (sindacati e associazioni datoriali o dagli stessi datori di lavoro) e da queste gestiti in modo paritario negli organismi di governance interna. Si tratta di fondi cui possono aderire i lavoratori appartenenti al settore produttivo “pro-prietario”, regolati nei contratti collettivi di riferimento. Gli esempi più noti sono il fondo Cometa per i metalmeccanici, Alifond per l’industria alimenta-re, Fonchim per il settore chimico-farmaceutico. Accanto a tali fondi possono coesistere fondi negoziali di carattere territoriale (in alcuni casi addirittura dominanti rispetto a quelli di categoria) che raggruppano i lavoratori apparte-nenti allo stesso ambito geografico e allo stesso settore merceologico (Previ-labor per le aziende metalmeccaniche del bolognese) o anche a diversi settori produttivi (Fondo Solidarietà Veneto). La quota obbligatoria minima di versamento contributivo prevista dai contratti nazionali di settore si aggira intorno al 3-4% della retribuzione, con quote va-riabili e diverse per datori di lavoro e lavoratori e a seconda del livello di in-quadramento. Occorre poi sottolineare come in più di un caso, all’interno delle più ampie po-litiche di welfare aziendale, intervengano accordi aziendali che prevedono un incremento delle risorse da destinare alla previdenza complementare. Ad esempio, il gruppo ABB, aderente al fondo Cometa, in aggiunta a quanto con-cordato dalla contrattazione nazionale di settore ha previsto un versamento an-nuale di 100 euro da parte del datore di lavoro; nel gruppo Intesa Sanpaolo nella cassa di previdenza del personale della Cassa di risparmio di Padova e Rovigo (Cariparo) il datore di lavoro versa il 5% e i lavoratori posso versare da un minimo dello 0,61% ad un massimo del 14% della retribuzione. www.bollettinoadapt.it
  • 39. Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa 21 Assistenza sociale e sanitaria A differenza della previdenza, l’assistenza sociale eroga prestazioni monetarie o di servizi per la soddisfazione di bisogni socialmente rilevanti, non soddi-sfatti né dal reddito da lavoro, né da altri redditi (compresi quelli previdenzia-li). Inoltre, sempre a differenza della previdenza, la struttura non assicurativa la rende universalistica e gratuita, incardinata sullo status di cittadino anziché di lavoratore. L’assistenza, come la previdenza, può essere pubblica o privata. L’assistenza privata in particolare comprende due tipi di istituti: i fondi sanitari integrativi, sui quali verrà concentrata l’attenzione nei prossimi paragrafi vista la partico-lare rilevanza nell’ambito delle politiche di welfare aziendale, e le assicurazio-ni sanitarie commerciali. La differenza tra questi due istituti è ravvisabile in-nanzitutto nella non finalità di lucro dei fondi (al contrario delle assicurazioni), che forniscono prestazioni integrative rispetto al sistema pubblico con logiche non orientate al profitto. In secondo luogo, mentre le assicurazioni operano sulla base di principi attuariali secondo i quali i premi sono fondati su stime probabilistiche relative alle frequenze e al costo dei sinistri, i fondi si basano sulla solidarietà tra i gruppi aderenti. Fondi sanitari integrativi In base alla normativa vigente i fondi sanitari si configurano come forme di mutualità volontaria di natura integrativa rispetto al Servizio sanitario naziona-le (SSN). In particolare, come indicato nel d.lgs. n. 299/1999, essi possono co-prire: «prestazioni aggiuntive, non comprese nei livelli essenziali e uniformi di assistenza e con questi comunque integrate, erogate da professionisti e da strutture accreditati»; prestazioni erogate dal SSN «comprese nei livelli uni-formi ed essenziali di assistenza, per la sola quota posta a carico dell’assistito», come i ticket, le prestazioni erogate in libera professione e i servizi alberghieri (art. 9, comma 4, d.lgs. n. 299/1999). A queste indicazioni di carattere generale, contenute nel già citato d.lgs. n. 299/1999, vanno ad ag-giungersi le più specifiche indicazioni contenute nel “decreto Turco” che pre-cisano e ampliano in maniera significativa gli ambiti di intervento, facendo in particolare riferimento a: prestazioni socio-sanitarie in strutture accreditate re-sidenziali e semiresidenziali o in forma domiciliare per la quota pagata dagli assistiti; cure termali non a carico del SSN; medicina non convenzionale anche se erogata da strutture non accreditate; assistenza odontoiatrica limitatamente @ 2014 ADAPT University Press
  • 40. 22 Daniele Grandi alle prestazioni non a carico del SSN; assistenza ai non autosufficienti; presta-zioni odontoiatriche non comprese nei livelli essenziali e uniformi di assisten-za per la prevenzione, cura e riabilitazione di patologie odontoiatriche presso strutture autorizzate, anche se non accreditate. Il decreto del Ministero della salute del 31 marzo 2008 precisa che i fondi de-vono destinare alle prestazioni socio-sanitarie non comprese nei livelli essen-ziali e uniformi di assistenza e a quelle finalizzate al recupero della salute di soggetti temporaneamente inabilitati da malattia o infortunio per la parte non garantita dalla normativa vigente, nonché alle prestazioni di assistenza odon-toiatrica non comprese nei livelli essenziali di assistenza per la prevenzione, cura e riabilitazione di patologie odontoiatriche, una quota di risorse «non in-feriore al 20% dell’ammontare complessivo delle risorse destinate alla coper-tura di tutte le prestazioni garantite ai propri assistiti» (art. 1, decreto Ministero della salute 31 marzo 2008). Una tale enfasi posta sul carattere di complemen-tarietà dei fondi sanitari integrativi rispetto all’assistenza sanitaria pubblica permette di capire come questi siano stati concepiti, ovvero come vero e pro-prio “secondo pilastro” del sistema sanitario del Paese. I fondi integrativi, che come i fondi pensione possono essere “chiusi” (iscri-zione riservata agli appartenenti ad un settore produttivo, categoria professio-nale o azienda) o “aperti” (iscrizioni aperte a tutti i cittadini), possono avere una pluralità di fonti istitutive: contratti e accordi collettivi tra le parti sociali; accordi tra lavoratori autonomi, liberi professionisti o loro associazioni; rego-lamenti di Regioni, enti territoriali ed enti locali; delibere di organizzazioni non lucrative operanti nei settori dell’assistenza socio-sanitaria o dell’assistenza sanitaria; iniziativa di società di mutuo soccorso riconosciute dallo Stato o da «altri soggetti pubblici e privati, a condizione che contengano l’esplicita assunzione dell’obbligo di non adottare strategie e comportamenti di selezione dei rischi o di discriminazione nei confronti di particolari gruppi di soggetti» (art. 9, comma 3, lett. f, d.lgs. n. 229/1999). Si sottolinea inoltre che i contributi di assistenza sanitaria versati ai fondi o ad enti e casse aventi esclu-sivamente finalità assistenziale creati sulla base di accordi di categoria o aziendale sono fiscalmente deducibili fino ad un importo massimo di 3.615,20 euro (art. 51, comma 2, lett. a, TUIR). All’atto pratico è ravvisabile una forte diffusione dei fondi sanitari integrativi aziendali, mentre più ridotti sono i casi in cui l’assistenza sanitaria integrativa prende la forma di polizze sanitarie fornite dalle compagnie di assicurazione. Mentre da un lato è ravvisabile la tendenza ad ampliare le prestazioni coperte da tali strumenti (spese per visite specialistiche, prestazioni diagnostiche, rico-veri ospedalieri, prestazioni oculistiche e odontoiatriche), dall’altro emerge www.bollettinoadapt.it
  • 41. Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa 23 ancora una limitata copertura della spesa per la non autosufficienza, nonostan-te le chiare indicazioni della normativa. In via di diffusione è la tendenza delle aziende, in sede di contrattazione inte-grativa, a incrementare la quota di contribuzione ai fondi sanitari fissata dai contratti nazionali, in sostituzione almeno parziale degli incrementi salariali. Un esempio è dato dall’impresa farmaceutica Angelini, che nell’accordo aziendale ha previsto per il 2011 una riduzione del premio di produttività, ri-spetto al 2010, da 2.070 euro a 1.900 euro lordi, compensato però dall’estensione ai familiari dei lavoratori della copertura sanitaria offerta dal fondo di categoria Faschim, totalmente a carico dell’azienda. A fianco degli orientamenti appena delineati vi sono però alcuni segnali che denotano una forte eterogeneità tra le condizioni presenti nei diversi settori e tra le categorie professionali. Tale eterogeneità riguarda innanzitutto la contri-buzione. Mentre infatti nel gruppo metalmeccanico ABB il fondo sanitario FAI è alimentato da versamenti pari a 33 euro annui da parte del datore di la-voro e dallo 0,55% della retribuzione lorda dal parte del lavoratore, nel fondo unificato del gruppo Intesa tali versamenti raggiungono i 900 euro e l’1% del-la retribuzione lorda. In secondo luogo, differenze rilevanti sono ravvisabili nei rimborsi assicurati per le prestazioni: per quel che concerne l’odontoiatria e prendendo in considerazione le stesse due realtà aziendali, si nota che il fon-do di ABB garantisce un massimale di spesa annuo fino a 1.800 euro, superio-re a quello di Intesa Sanpaolo, che è invece di 1.500 euro. Altro elemento di differenziazione riguarda il trattamento riservato ai dirigenti. Questi, infatti, in alcune aziende possono aderire a fondi o polizze assicurative separate e più ricche rispetto a quelle del resto dei dipendenti (come avviene per esempio in Angeli e nel gruppo San Benedetto). Un ultimo elemento riguarda i beneficia-ri delle prestazioni dei fondi o delle polizze. Oltre ai dipendenti delle aziende, infatti, la copertura non sempre si estende ai familiari. Spesso, infine, la coper-tura non viene conservata da parte dei lavoratori precedentemente iscritti in caso di mobilità e solo in alcuni casi (Atm in particolare) questa arriva a com-prendere addirittura i lavoratori pensionati. @ 2014 ADAPT University Press
  • 42. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali @ 2014 ADAPT University Press di Rosita Zucaro La conciliazione in azienda Le misure di work-life balance, parte integrante di piani strutturati di welfare aziendale, costituiscono un asset strategico non solo per le politiche inerenti al mercato del lavoro, ma anche per affrontare questioni centrali nell’evoluzione dell’intero modello socio-economico: dallo sviluppo sostenibile, all’equilibrio demografico, fino alle questioni di riequilibrio di genere. All’interno di tale quadro, complice anche la crisi economica, le imprese stan-no assumendo un ruolo di crescente importanza, con conseguente spostamento dei luoghi della programmazione e di attuazione. Dai livelli centrali si assiste ad un maggior coinvolgimento di quelli periferici, e allo stesso tempo ad un allargamento delle reti di attori pubblici e privati che, in una prospettiva di welfare society, concorrono in maniera diffusa alla produzione di benessere. Inoltre, le aziende devono far fronte alle nuove esigenze conciliatorie di un numero crescente di lavoratrici e lavoratori con carichi familiari diversificati, dagli aspetti più legati alla genitorialità a quelli di cura di soggetti con handi-cap o anziani. L’ILO nell’ultimo rapporto sulla tutela della maternità e della paternità rileva che il diritto a un equilibrio tra famiglia e lavoro costituisce elemento fonda-mentale della qualità del lavoro. In quest’ottica l’azienda deve contribuire a diffondere più cultura di sostegno alle pratiche di conciliazione. L’aver raggiunto una soglia di longevità impensabile anche solo qualche de-cennio fa, se, da un lato, rappresenta un importante traguardo, dall’altro si con-figura come una sfida per la società nel suo complesso, che dovrà affrontare
  • 43. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 25 cambiamenti importanti anche nell’ambito dell’organizzazione dei servizi, sia per gli anziani, che per le loro famiglie. Affrontare il tema “conciliazione” significa andare alla radice di questi pro-blemi, partendo dai meccanismi che regolano le società contemporanee e rico-noscendo, in primo luogo, che famiglia e lavoro non sono monadi separate, ma due entità legate da un insieme strutturato di interconnessioni, che si modifi-cano nel corso del tempo, con necessità di interventi di rimodulazione delle politiche connesse. Non a caso la Strategia europea definita nel vertice di Lisbona del 2000 ha espressamente sancito l’evoluzione degli interventi di work-life balance in strumento polivalente che va dalla funzione di promozione dell’accesso al mercato del lavoro e di garanzia di migliori condizioni per i lavoratori con re-sponsabilità familiari, a quella di strumento per la soluzione a macroproblemi quali il disequilibrio strutturale della popolazione. Le misure di conciliazione vanno, quindi, integrate e valutate all’interno di più ampia strategia, in cui si legano anche alle azioni aziendali inerenti alla responsabilità sociale d’impresa. È in atto un cambiamento che, velocizzato dalla particolare e difficile congiun-tura economica, sta imponendo una visione del lavoro e delle sue regole sem-pre più emancipata da un esclusivo legame a fattori economici. La crisi, infatti, sta dimostrando che il solo benessere economico non può essere al centro delle politiche di risanamento. Il piano d’azione nazionale sulla responsabilità sociale d’impresa 2012-2014, presentato il 16 aprile 2013 dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dal Ministero del sviluppo economico (ripreso dall’accordo sottoscritto da ABI il 19 aprile 2013), evidenzia proprio l’importanza del ruolo dell’impresa nella società e nella gestione responsabile delle attività economiche quale vei-colo di creazione di valore, a mutuo vantaggio di imprese, cittadini e comuni-tà. Le aziende che loro sponte adottano “comportamenti” socialmente respon-sabili riescono per tale via ad acquisire un concreto vantaggio nei confronti dei competitors. La conciliazione vita-lavoro costituisce un ambito privilegiato al quale le stra-tegie d’impresa devono orientarsi. L’Università La Sapienza di Roma dall’intersezione tra conciliazione vita-lavoro e Total Reward System ha ideato un modello di organizzazione e gestione del rapporto di lavoro, che costituisce un sistema retributivo motivazionale che, oltre alla classica retribuzione, com-prende benefit e programmi di work-life balance. @ 2014 ADAPT University Press
  • 44. 26 Rosita Zucaro Al fine di sviluppare tali misure d’intervento, un’impresa può agire su quattro leve, tra loro complementari: organizzazione del lavoro, cultura aziendale, si-stema di retribuzione, servizi aziendali (si veda la figura 1). Figura 1 – Le leve della conciliazione vita-lavoro Fonte: Guida operativa Regione Lombardia. La conciliazione famiglia-lavoro. Un’opportunità per imprese e pubbliche amministrazioni, 2011 Ulteriore conferma di tale processo evolutivo e dell’accresciuta importanza del ruolo primario che devono ricoprire le politiche di conciliazione si rinviene nell’adozione del Primo Rapporto sul benessere equo e sostenibile in Italia (Bes) dell’11 marzo 2013, predisposto dall’ISTAT in collaborazione con il CNEL, in cui viene presentato un nuovo indice, costruito proprio attraverso l’integrazione di misuratori economici con indicatori di carattere sociale, per valutare lo stato ed il progresso di una società. Il rapporto Bes misura, infatti, sia la partecipazione al mercato del lavoro che la qualità del lavoro, definendo i diversi asset dell’occupazione in ordine a vari aspetti fra cui stabilità, reddito, sicurezza sul lavoro e la conciliazione vita-lavoro. Sempre più centrale, quindi, diviene il valore che le persone assumono all’interno dei contesti aziendali. Alla luce di tale scenario, molte aziende a livello europeo stanno cercando di “tenere il passo” introducendo programmi di conciliazione aggiuntivi rispetto a quanto previsto dalla normativa nazionale o locale. Nonostante, però, si regi-stri in Europa un aumento del numero di imprese, che mettono a disposizione dei propri dipendenti dispositivi di conciliazione, una quota consistente di cit- www.bollettinoadapt.it
  • 45. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 27 tadini europei (più del 50%) ancora incontra enormi difficoltà nel conciliare impegni di lavoro ed esigenze di vita e ciò si riscontra maggiormente nei Paesi dell’Europa meridionale ed orientale. La forza lavoro italiana registra difficol-tà maggiori nel bilanciare vita lavorativa e impegni extralavorativi rispetto alla media UE-27. Sono gli uomini a percepire in maniera leggermente superiore rispetto alle donne difficoltà di conciliazione, anche se diverse sono le esigen-ze maggiormente espresse: per i primi pesa la difficoltà a svolgere attività sportive e culturali, vita sociale e riposo; per le seconde la preoccupazione è per cura dei figli e degli interessi domestici. Figura 2 – Occupati con difficoltà di conciliazione vita-lavoro UE-27 Italia Fonte: Eurofound, 5th European working conditions survey, 2012 Alla luce del descritto quadro, il legislatore cerca di promuovere la concilia-zione vita-lavoro agendo, in particolare, sui seguenti fronti: 1) incidendo sulla disciplina del rapporto di lavoro; 2) favorendo l’attuazione di nuovi strumenti, quali ad esempio i piani territoriali degli orari; 3) incentivando e favorendo la creazione di una rete di servizi (servizi per l’infanzia, servizi di assistenza agli anziani, ecc.) finanziati o agevolati fiscalmente. Genitorialità e lavoro. Il quadro normativo Normativa fondamentale, in materia di tutela della maternità e della paternità, è la l. n. 53/2000, recante Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei @ 2014 ADAPT University Press 5,0 15,6 2,9 12,8 6,1 20,9 3,4 17,9 Per niente bene Non molto bene Per niente bene Non molto bene Uomini Donne
  • 46. 28 Rosita Zucaro tempi delle città, con la quale sono stati introdotti i congedi parentali, nell’obiettivo di contribuire concretamente al riequilibrio dei ruoli genitoriali all’interno dei contesti famigliari. La citata legge costituisce, inoltre, un importante quadro di riferimento legisla-tivo in materia di work-life balance per due altri aspetti: da una parte per aver focalizzato l’attenzione degli enti territoriali sull’importanza strategica di rior-ganizzare i tempi delle città; dall’altra avendo promosso, tramite l’art. 9, la sperimentazione di azioni positive per la conciliazione vita-lavoro, attraverso la previsione di finanziamenti (rinnovabili ogni anno, nei limiti delle disponi-bilità delle risorse), in favore delle aziende che, con accordi sociali, predi-spongano progetti articolati per consentire ai dipendenti di usufruire di forme di flessibilità oraria e organizzativa (part-time reversibile, telelavoro, banca delle ore, flessibilità oraria o dell’organizzazione aziendale), o per agevolare il reinserimento lavorativo del genitore dopo un periodo di assenza di oltre 60 giorni, ed, infine, per incentivare interventi innovativi in risposta alle esigenze di conciliazione vita-lavoro, anche attraverso l’attivazione di reti territoriali tra enti, aziende e parti sociali. Una prima riorganizzazione normativa della materia si è avuta nel Testo Unico introdotto con il d.lgs. n. 151/2001, il quale ha accorpato la disciplina origina-ria della l. n. 1204/1971 con quella della l. n. 53/2000. A questo decreto legi-slativo si devono importanti novità in merito alla ridefinizione dei requisiti og-gettivi e soggettivi, nonché dei criteri e delle modalità per la fruizione dei con-gedi, permessi e aspettative da parte di entrambi i genitori. Un numero signifi-cativo di interventi legislativi hanno riguardato anche l’assistenza dei soggetti portatori di handicap, sia figli, sia parenti (dall’art. 4 all’art. 7 del d.lgs. n. 119/2011). Sempre il decreto del 2011 è intervenuto anche in materia di con-gedo per le cure dei lavoratori mutilati o invalidi civili che abbiano una ridu-zione della capacità lavorativa superiore al 50%. Alla riforma Fornero del 2012 si deve invece l’affermazione di una tutela sempre più volta alla genito-rialità nel complesso, disancorata dalla protezione/difesa solo della madre e del nascituro. Il congedo obbligatorio di paternità, introdotto dall’art. 4, comma 24, della l. n. 92/2012 introduce l’affermazione del principio di uguaglianza tra la figura materna e paterna, in termini di riconoscimento e godimento dei diritti inerenti alla cura della prole. Inoltre tale previsione completa quel processo di riscrittu-ra delle norme in tema di tutela del lavoro femminile verso la prospettiva di una più affermata coscienza della funzione sociale della maternità e della con-corrente considerazione degli interessi del bambino. Sempre nell’obiettivo di promuovere norme a favore dell’inclusione delle donne nel mercato del lavoro www.bollettinoadapt.it
  • 47. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 29 e tali da consentire, a entrambi i genitori, una migliore assistenza dei figli, il Legislatore del 2012 è intervenuto con l’introduzione di due misure sperimen-tali della durata di tre anni: il diritto per le neo-mamme di chiedere, nei limiti delle risorse disponibili, la corresponsione di voucher per la prestazione di servizi di baby-sitting, dal termine del periodo di congedo obbligatorio per la maternità e per gli 11 mesi successivi; la possibilità, per madri e padri italiani, di poter usufruire del congedo parentale “ad ore”. In materia di tutela della maternità è infine vigente anche la recentissima riforma sul lavoro adottata con il d.l. n. 34/2014, convertito con modificazioni in l. n. 78/2014, chiarendo che il congedo di maternità attivato nell’esecuzione di un contratto a termine pres-so la stessa azienda concorre a determinare il periodo di attività lavorativa uti-le a conseguire il diritto di precedenza all’assunzione. A queste lavoratrici è anche riconosciuto il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo determina-to effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi, con riferimento al-le mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine. Le nuove misure: il congedo di paternità, il congedo frazionato a ore e i voucher baby-sitting Le misure sperimentali di sostegno all’occupazione femminile previste dalla l. n. 92/2012 hanno ricevuto concreta attuazione con il decreto interministeriale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Ministero dell’economia e delle finanze del 22 dicembre 2012. In merito ai criteri di accesso e alle mo-dalità di fruizione del congedo di paternità obbligatorio e di quello facoltativo, il decreto, stabilendo che la loro fruizione è possibile entro il quinto mese di vita del bambino, introduce una novità rispetto al passato in cui il padre poteva sì beneficiare del congedo, ma solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge, quali la morte o la grave infermità della madre. La misura in oggetto, sebbene rappresenti una “timida” apertura verso l’affermazione del principio di uguaglianza tra i genitori nella cura dei figli, risulta ancora lontana dalle previsioni legislative di alcuni Paesi europei, quali Svezia e Norvegia, in cui, oltre ai congedi di paternità, sono previsti anche i congedi parentali, usufruibili da entrambi i genitori anche in modo condiviso. Quanto all’ambito di applicazione, l’art. 1 del citato decreto, istituisce in favo-re del padre: 1) un congedo obbligatorio della durata di un giorno, aggiuntivo rispetto al congedo di maternità (e fruibile anche durante lo stesso); 2) il con-gedo facoltativo, della durata massima di due giorni (non necessariamente @ 2014 ADAPT University Press
  • 48. 30 Rosita Zucaro continuativi) e fruibili dal padre (anche adottivo e/o affidatario) in sostituzione del congedo obbligatorio della madre. Il trattamento economico e previdenziale è a carico dell’Inps nella misura del 100% della retribuzione e in relazione al trattamento previdenziale del conge-do di maternità non è prevista alcuna anzianità contributiva pregressa ai fini dell’accreditamento dei contributi figurativi per il diritto alla pensione e per la determinazione della misura della stessa. Un nodo critico attiene alla modalità di fruizione del congedo di paternità. Nello specifico, si prevede l’onere, a carico del padre, di comunicare al datore di lavoro, con almeno 15 giorni di preavviso, possibilmente prima della nascita del bambino o della data presunta del parto, i giorni nei quali intende usufruire del congedo sia obbligatorio che facoltativo, nonché l’allegazione della dichia-razione della madre contente la rinuncia, da parte della stessa, alla fruizione di tanti giorni di congedo quanti saranno quelli utilizzati dal padre. Risulta evi-dente la farraginosità burocratica della norma e il considerevole lasso di tempo con cui il padre è costretto a dare il preavviso della sua assenza al datore di la-voro. Una migliore modulazione conciliatoria potrebbe essere realizzata anche attraverso strumenti più “flessibili”, che tengano in giusta considerazione l’eventualità che le necessità per cui un padre decida di assentarsi dal lavoro siano improvvise. Interessante in merito riportare che prima dell’introduzione del congedo di pa-ternità da parte del legislatore nazionale è intervenuta la contrattazione collet-tiva. Le buone prassi, in questo senso, sono ad esempio: l’art. 40-bis del Ccnl industria alimentari, che già prevedeva il congedo di paternità nella misura di 2 giorni e il contratto aziendale di Sanpellegrino del 13 marzo 2012, che mi-gliora tale previsione, elevandolo a 4 giorni. Questo costituisce un riferimento importante di come la contrattazione collettiva possa e debba ricoprire un ruo-lo centrale nella definizione di tali politiche. Altra previsione significativa è la facoltà, concessa ai lavoratori padri e alle la-voratrici madri, di fruire del congedo parentale frazionandolo ad ore. Questa previsione è una conseguenza del recepimento, da parte della l. n. 228/2012, delle disposizioni del d.l. n. 216/2012 di attuazione della direttiva 2010/18/UE, che ha, appunto, ampliato la possibilità di utilizzo dei congedi parentali, anche a ore, secondo le disposizioni adottate dai contratti collettivi. Si tratta dei con-gedi che spettano a ciascun genitore lavoratore, nei primi 8 anni di vita del fi-glio, fino a un periodo massimo di 6 mesi di astensione (continuativo o frazio-nato). L’astensione complessiva di entrambi i genitori non può comunque su-perare i 10 mesi, salvo il caso in cui il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 www.bollettinoadapt.it
  • 49. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 31 mesi: in questa ipotesi il limite complessivo dei congedi parentali dei genitori è elevato a 11 mesi. In secondo luogo, è stato precisato che la comunicazione con cui il lavoratore è tenuto a preavvisare il datore di lavoro sull’intenzione di fruire del periodo di congedo parentale (almeno 15 giorni prima) deve conte-nere anche l’indicazione dell’inizio e della fine del periodo di congedo. Il Ministero del lavoro, nell’interpello n. 25 del 22 luglio 2013 di Cgil, Cisl e Uil, ha precisato che le modalità di fruizione del congedo “orario” potranno essere disciplinate non solo dalla contrattazione collettiva di settore, ma anche da quella decentrata, che dovrà stabilirne le modalità di godimento su base oraria, i criteri di calcolo, l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa. Lo spazio di manovra delle intese di secondo livel-lo è incondizionato, atteso che lo stesso non è stato circoscritto nemmeno da deleghe della contrattazione nazionale nei confronti del livello inferiore. Per quanto attiene al beneficio dei voucher, questi sono utilizzabili, alternati-vamente, per l’acquisto di servizi di baby-sitting o per assolvere agli oneri del-la rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi pubblici e/o privati ac-creditati. I “buoni” hanno un importo variabile, modulabile sulla base dei pa-rametri ISEE ed erogabile dall’Inps. L’importo medio previsto è pari a 300 eu-ro mensili per un massimo di 6 mesi. La decisione della mamma di usufruire dei voucher, in alternativa al congedo parentale, comporta, tuttavia, la conse-guenziale riduzione di un mese del periodo di congedo parentale, per ogni quota mensile richiesta. La sperimentazione dei voucher baby-sitting, che nasce con l’obiettivo di age-volare la conciliazione vita-lavoro, soprattutto per favorire il rientro della don-na dopo la maternità ed evitare ripercussioni alla carriera lavorativa, prevede delle limitazioni ed esclusioni. Sono escluse dal beneficio le madri totalmente esentate dal pagamento della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei ser-vizi privati convenzionati, nonché quelle che usufruiscono dei benefici di cui al Fondo per le politiche relative ai diritti e pari opportunità. Nella categoria degli esclusi rientrano anche le lavoratrici part-time, in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa, e le lavoratrici iscritte alla gestione separata Inps, sino ad un massimo di tre mesi. Tale misura ha ricevuto particolare ap-prezzamento da parte dell’ILO che l’ha ritenuta un esempio di «politica inno-vativa tesa a promuovere il ritorno delle donne sul posto di lavoro consentendo di soddisfare le responsabilità legate alla cura del bambino». @ 2014 ADAPT University Press
  • 50. 32 Rosita Zucaro Tabella 1 – Le novità legislative in materia di tutela della maternità e paternità Misure Disposizioni Sintesi dei contenuti Congedo di maternità Art. 1, d.l. 34/2014 convertito in legge, con modificazioni, n. 78, il 15 maggio 2014 www.bollettinoadapt.it Se intervenuto nell’esecuzione di un contratto a termine presso stes-sa azienda, concorre a determi-nare il periodo di attività lavora-tiva utile a conseguire il diritto di precedenza all’assunzione. A queste lavoratrici è anche ri-conosciuto il diritto di preceden-za nelle assunzioni a tempo de-terminato, effettuate nei successivi 12 mesi, con riferimento alle man-sioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine. Congedo di paternità Art. 4, comma 24, lett. a, della l. n. 92/2012 Artt. da 1 a 3, d.m. 22 dicembre 2012 (attuativo dell’art. 4, com-ma 24, lett. a, l. n. 92/2012) Un giorno obbligatorio, aggiunti-vo rispetto al congedo di maternità (e fruibile anche durante lo stesso) e due giorni facoltativi (non ne-cessariamente continuativi) e fruibi-li dal padre (anche adottivo e/o af-fidatario) in “sostituzione” del con-gedo materno. Trattamento economico, norma-tivo e previdenziale: Indennità giornaliera a carico dell’Inps, pari al 100% della retribu-zione. Comunicazione al datore di lavo-ro con almeno 15 giorni di preavviso, del numero di giorni di congedo, allegando la dichiarazio-ne della madre con la rinuncia alla fruizione di tanti giorni di congedo quanti sono quelli fruiti dal padre. Congedo parentale fra-zionato ad ore L. n. 228/2012, recettiva delle disposizioni del d.l. n. 216/2012 di attuazione della direttiva 2010/18/UE Possono fruirne entrambi i geni-tori I Ccnl o i contratti collettivi de-centrati stabiliscono:
  • 51. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 33 a) modalità di fruizione su base oraria; b) criteri di calcolo; c) equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa. Durante il periodo, potranno an-che @ 2014 ADAPT University Press essere concordate adeguate misure di ripresa dell’attività la-vorativa, osservando quanto even-tualmente disposto dai contratti collettivi, anche decentrati. Voucher per acquisito di servizi baby-sitting o per pagamento degli oneri dei servizi pubblici e/o privati Artt. da 4 a 7, d.m. 22 dicembre 2012 (attuativo dell’art. 4, com-ma 24, lett. b, l. n. 92/2012) Le neomamme, al termine del congedo di maternità e per gli 11 mesi successivi, in “alternativa” al congedo parentale possono avvalersi dei voucher: a) per acquisto di servizi di baby-sitting; b) per assolvere agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi pubblici e/o privati accreditati. L’importo erogato dall’Inps è pa-ri a 300 euro mensili. Elaborazione ADAPT. Fonte: Elaborazione legge n. 92/2012, Decreto interministeriale, 22 dicembre 2012 (attuativo dell'art. 4, comma 24, lett. b), l. n. 92/2012), legge n. 228/2012, recettiva delle disposi-zioni del decreto legge n. 216/2012 di attuazione della Direttiva 2010/18/UE.; D.L 34/2014 convertito in legge con modificazioni il 15 maggio 2014. Tabella a cura di Rosita Zucaro La flessibilità come strumento per bilanciare tempi di vita e lavoro Nell’attuale fase storico-economica, si assiste all’affermarsi generalizzato di una crescente, ma diversa, esigenza di flessibilità sia da parte dell’impresa che da parte del lavoratore. Intervenire sulla flessibilità del lavoro significa modu-lare la prestazione sulle specifiche esigenze della produzione, senza mettere a rischio la sicurezza dell’occupazione. La flessibilità costituisce, quindi, un possibile trait d’union tra emergenti esigenze aziendali e nuovi bisogni dei la-voratori, legandosi per tale via alle politiche di conciliazione vita-lavoro. La
  • 52. 34 Rosita Zucaro flessibilità temporale e spaziale rappresenta, infatti, uno dei principali stru-menti della conciliazione, intesa come l’insieme di quelle misure che consen-tono una migliore gestione dei tempi di vita e di lavoro. Le aziende in grado di gestire efficacemente l’evoluzione del rapporto con i lavoratori avranno, quin-di, con elevata probabilità, un maggior vantaggio competitivo rispetto alle al-tre, poiché la produttività è incentivata da modelli flessibili di lavoro, che si adattano alle peculiarità del caso. In questo processo, la contrattazione collettiva, in particolare quella territoriale e aziendale, ricopre un ruolo strategico, rappresentando uno degli strumenti concreti tramite i quali le aziende possono attivare adeguate politiche concilia-tive, creare sviluppo, occupazione, equità sociale, sistemi integrati di welfare. Anche L’ILO ha recentemente ricordato tra le strade da perseguire, per tutelare maggiormente la genitorialità, proprio la promozione della contrattazione col-lettiva, quale strumento attraverso cui lavoratori e datori di lavoro possono concordare una “flessibilità regolata”, che consenta ai primi di meglio bilan-ciare tempi di lavoro con responsabilità di cura, andando incontro allo stesso tempo alle esigenze produttive e organizzative dei secondi. Al livello nazionale, l’avviso comune Azioni a sostegno delle politiche di con-ciliazione tra famiglia e lavoro, sottoscritto il 7 marzo 2011 da Governo e par-ti sociali, si è posto proprio in quest’ottica, avendo quale obiettivo il favorire, attraverso una visione integrata, politiche sociali e contrattuali a sostegno della conciliazione per implementare soluzioni innovative, tanto di tipo normativo, che organizzativo. In virtù di tale avviso, è stato avviato un percorso tecnico volto ad introdurre nella contrattazione decentrata forme di flessibilità family-friendly e di work-life balance, con ad esempio orari rimodulati, lavoro a tempo parziale, forme di telelavoro e smartworking. La flessibilità, regolata in ottica di conciliazione vita-lavoro, può essere suddi-visa in due macro-aree d’intervento: temporale, caratterizzata da strumenti che permettono un’organizzazione flessibile dei tempi di lavoro (part-time, orario scorrevole, job sharing, ecc.); spaziale, costituita da misure che favoriscono una diversa organizzazione degli spazi lavorativi, permettendo alle organizza-zioni di superare i confini fisici dell’ente a favore di una maggiore libertà (te-lelavoro, smart working, lavoro agile, ecc.). www.bollettinoadapt.it
  • 53. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 35 Modelli flessibili di organizzazione degli orari nelle politiche d’impresa Intervenire sulla flessibilità dell’orario consente un rapido adattamento dell’input di lavoro alle esigenze aziendali. È dimostrato empiricamente da diversi studi e ricerche nel settore, che da un’organizzazione flessibile del lavoro traggano benefici sia i datori di lavoro, che i lavoratori; come è altresì comprovata l’esistenza di un relazione tra fles-sibilità dell’orario di lavoro, miglioramento dell’equilibrio nei tempi di vita e di lavoro e accrescimento della motivazione, nonché delle condizioni psicoso-ciali. Pertanto è sempre più ricorrente l’uso modulato del tempo, che media tra l’evoluzione dell’organizzazione della produzione, da un lato, e la crescente attenzione dedicata al rapporto tra lavoro e sfera privata, dall’altro. Uno tra gli strumenti normativi che permette una flessibilità dei tempi di lavo-ro, modulabile in ottica di conciliazione, è il part-time di cui al d.lgs. 28 gen-naio 2000, n. 61, che recepisce la direttiva europea 97/81/CE, che può assu-mente tre diverse configurazioni: orizzontale, con orario di lavoro corrispon-dente ad una parte della settimana di lavoro standard; verticale con prestazione a tempo pieno per un limitato periodo della settimana, del mese o dell’anno; mista, ovvero un mix tra le precedenti configurazioni. Tale istituto si pone come uno strumento di flessibilità molto utile per accudire i figli o gli anziani, e risulta, quindi, particolarmente utilizzato dalle donne, consentendo di mante-nere il contatto con il luogo di lavoro e di avere, allo stesso tempo, una elasti-cità di comportamento (e quindi di gestione dei tempi familiari) soddisfacente. Rappresenta, inoltre, uno strumento di flessibilità oraria particolarmente ap-prezzato anche da parte datoriale, in quanto determina un miglioramento delle performance aziendali, accrescendo al contempo la motivazione e riducendo il turnover. Altro strumento che garantisce la flessibilità dell’orario di lavoro in un’ottica di armonizzazione dei tempi è l’orario scorrevole (o elastico o flessibile), che consente al lavoratore di rimodulare l’orario di ingresso e/o di uscita o l’orario di inizio o di fine della pausa, garantendo la copertura del numero delle ore contrattualmente previste. L’orario scorrevole viene ampiamente utilizzato per mansioni che non prevedono un contatto diretto con il pubblico e che, pertan-to, non necessitano di orari fissi di apertura e chiusura. Misura analoga è la settimana concentrata, la quale consiste nel raggruppare l’orario settimanale al di sotto dei classici 5 giorni lavorativi, allungando la durata giornaliera com-plessiva. @ 2014 ADAPT University Press
  • 54. 36 Rosita Zucaro Tale logica è alla base anche della annualizzazione dell’orario, che prevede la fissazione da parte dell’azienda di un monte ore complessivo che il lavoratore deve sostenere durante l’anno, senza definirne in maniera rigida la sua distri-buzione www.bollettinoadapt.it temporale. Sempre in ottica di flessibilità temporale un altro istituto interessante è la ban-ca delle ore, che prevede la possibilità per il lavoratore di “depositare” su un conto virtuale le ore lavorate in più (straordinario) e poi, nel corso dell’anno, attingervi per godere di riposi compensativi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva. Peculiarità di questa misura è, quindi, la mancata monetizzazione delle ore di straordinario, che vanno a formare un “credito di ore” dal quale attingere nel caso in cui si necessiti di permessi e riposi aggiun-tivi. Altro mezzo che può essere efficacemente volto a politiche di conciliazione vita-lavoro è il job sharing (o lavoro ripartito), che prevede l’assunzione in so-lido dell’adempimento di un’identica prestazione lavorativa da parte di due la-voratori, i quali gestiscono pertanto in maniera autonoma e discrezionale la ri-partizione dell’attività lavorativa e l’effettuazione di sostituzioni tra loro. Lo stipendio è calcolato sulle ore effettivamente prestate da ciascun lavoratore. Le cosiddette “isole di lavoro”, invece, consentono di conciliare le esigenze personali con quelle organizzative dell’azienda. Il citato strumento, presente in alcune realtà aziendali, come ad esempio il Gruppo Auchan o Ikea, si carat-terizza per la suddivisione dei lavoratori in gruppi (chiamati appunto “isole”) attraverso una logica di complementarietà, che necessita di una indagine e ana-lisi preventiva dei bisogni della popolazione aziendale interessata, al fine di fare il matching tra gli stessi (età, nucleo familiare, distanza dal luogo di lavo-ro, fattori sociali, ecc.). Il personale, nell’ambito della propria isola, si impe-gna ad osservare un orario individuale di lavoro (in termini di durata, giorni e fasce orarie) con un sistema di credito/debito da riportare annualmente a som-ma zero, nel rispetto della c.d. curva di carico di lavoro previsionale della azienda. I vantaggi sono: a livello aziendale l’adeguamento della presenza del personale al flusso cliente, nonché il miglioramento del clima aziendale, con conseguente riduzione dell’assenteismo; per il lavoratore una migliore gestio-ne dei propri tempi di vita. Nell’attuale contesto globalizzato la maggiore flessibilità lavorativa, quindi, è un fattore che comporta un vantaggio competitivo che si concretizza nella ca-pacità di attrarre e trattenere i lavoratori qualificati e di migliorare la produtti-vità, sia del singolo sia aziendale, nell’ottica del raggiungimento del benessere organizzativo che misura non solo la qualità dell’ambiente di lavoro, ma anche