1. Il welfare aziendale
territoriale per la
micro, piccola e media
impresa italiana
Un’indagine ricostruttiva
a cura di
Emmanuele Massagli
in collaborazione con
ADAPT
LABOUR STUDIES
e-Book series
n. 31
2. ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES
ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro
DIREZIONE
Michele Tiraboschi (direttore responsabile)
Roberta Caragnano
Lilli Casano
Maria Giovannone
Pietro Manzella (revisore linguistico)
Emmanuele Massagli
Flavia Pasquini
Pierluigi Rausei
Silvia Spattini
Davide Venturi
SEGRETERIA DI REDAZIONE
Gabriele Gamberini
Andrea Gatti Casati
Francesca Fazio
Laura Magni (coordinatore di redazione)
Maddalena Magni
Francesco Nespoli
Martina Ori
Giulia Rosolen
Francesco Seghezzi
Francesca Sperotti
Hanno collaborato a questo volume:
Andrea Cescon, Carmen Di Stani, Daniele Grandi (coordinatore), Filip-po
Pignatti Morano, Rosita Zucaro
@ADAPT_Press @adaptland @bollettinoADAPT
3. Il welfare aziendale
territoriale per la
micro, piccola e media
impresa italiana
Un’indagine ricostruttiva
a cura di
Emmanuele Massagli
in collaborazione con
5. ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES
ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro
1. P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma a metà del
guado, 2012
2. P. Rausei, M. Tiraboschi (a cura di), Lavoro: una riforma sbagliata,
2012
3. M. Tiraboschi, Labour Law and Industrial Relations in Recession-ary
Times, 2012
4. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2012, 2012
5. AA.VV., I programmi alla prova, 2013
6. U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo, Certificazione delle competen-ze,
2013
7. L. Casano (a cura di), La riforma francese del lavoro: dalla sécuri-sation
alla flexicurity europea?, 2013
8. F. Fazio, E. Massagli, M. Tiraboschi, Indice IPCA e contrattazione
collettiva, 2013
9. G. Zilio Grandi, M. Sferrazza, In attesa della nuova riforma: una
rilettura del lavoro a termine, 2013
10. M. Tiraboschi (a cura di), Interventi urgenti per la promozione
dell’occupazione, in particolare giovanile, e della coesione sociale,
2013
11. U. Buratti, Proposte per un lavoro pubblico non burocratico, 2013
12. A. Sánchez-Castañeda, C. Reynoso Castillo, B. Palli, Il subappalto:
un fenomeno globale, 2013
13. A. Maresca, V. Berti, E. Giorgi, L. Lama, R. Lama, A. Lepore, D.
Mezzacapo, F. Schiavetti, La RSA dopo la sentenza della Corte co-stituzionale
23 luglio 2013, n. 231, 2013
14. F. Carinci, Il diritto del lavoro in Italia: a proposito del rapporto
tra Scuole, Maestri e Allievi, 2013
15. G. Zilio Grandi, E. Massagli (a cura di), Dal decreto-legge n.
76/2013 alla legge n. 99/2013 e circolari “correttive”: schede di
sintesi, 2013
6. 16. G. Bertagna, U. Buratti, F. Fazio, M. Tiraboschi (a cura di), La rego-lazione
dei tirocini formativi in Italia dopo la legge Fornero, 2013
17. R. Zucaro (a cura di), I licenziamenti in Italia e Germania, 2013
18. Bollettinoadapt.it, Annuario del lavoro 2013, 2013
19. L. Mella Méndez, Violencia, riesgos psicosociales y salud en el tra-bajo,
2014
20. F. Carinci (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla
rappresentanza sindacale a Corte costituzionale n. 231/2013,
2014
21. Michele Tiraboschi (a cura di), Jobs Act - Le misure per favorire il
rilancio dell’occupazione, riformare il mercato del lavoro ed il si-stema
delle tutele, 2014
22. Michele Tiraboschi (a cura di), Decreto-legge 20 marzo 2014, n.
34. Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e
per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese -
Prime interpretazioni e valutazioni di sistema, 2014
23. G. Gamberini (a cura di), Progettare per modernizzare. Il Codice
semplificato del lavoro, 2014
24. U. Buratti, C. Piovesan, M. Tiraboschi (a cura di), Apprendistato:
quadro comparato e buone prassi, 2014
25. Michele Tiraboschi (a cura di), Jobs Act: il cantiere aperto delle ri-forme
del lavoro, 2014
26. Franco Carinci (a cura di), Il Testo Unico sulla rappresentanza 10
gennaio 2014, 2014
27. Simone Varva (a cura di), Malattie croniche e lavoro. Una prima
rassegna ragionata della letteratura di riferimento, ADAPT LA-BOUR
STUDIES e-Book series, n. 27
28. Roberta Scolastici, Scritti scelti di lavoro e relazioni industriali,
2014
29. Michele Tiraboschi (a cura di), Catastrofi naturali, disastri tecnolo-gici,
lavoro e welfare, 2014
30. Franco Carinci, Gaetano Zilio Grandi (a cura di), La politica del la-voro
del Governo Renzi - Atto I, 2014
9. INDICE
Prefazione di Giorgio Xoccato .............................................................................. XI
Executive summary – Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma pos-sibile
di Emmanuele Massagli ....................................................................... XIII
Parte I
QUADRO STORICO E CONTESTO SOCIO-ECONOMICO
Carmen Di Stani, Emmanuele Massagli, Dal welfare di Stato al welfare azien-dale
................................................................................................................ 3
Daniele Grandi, Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe
benefits ........................................................................................................... 6
Daniele Grandi, Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare
aziendale ........................................................................................................ 12
Parte II
AMBITI DI INTERESSE, PROFILI GIURIDICI,
PROBLEMATICHE FISCALI
Daniele Grandi, Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria
integrativa ...................................................................................................... 19
Rosita Zucaro, La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali ...................... 24
Daniele Grandi, Fringe benefits: normativa fiscale e orientamenti dell’Agenzia
delle entrate ................................................................................................... 41
Parte III
I VANTAGGI DEL WELFARE AZIENDALE
Daniele Grandi, Dati e numeri: il welfare nelle aziende in Italia ......................... 55
@ 2014 ADAPT University Press
10. X Indice
Filippo Pignatti Morano, Detassazione e decontribuzione del salario di produt-tività:
stato dell’arte ...................................................................................... 62
Daniele Grandi, Il valore generato dal welfare aziendale .................................... 68
Parte IV
WELFARE AZIENDALE E IMPRESA ITALIANA: PROSPETTIVE
Daniele Grandi, Emmanuele Massagli, Relazioni industriali e welfare aziendale 77
Daniele Grandi, Il welfare aziendale nella medio e grande impresa: esperienze
di successo ..................................................................................................... 90
Daniele Grandi, Emmanuele Massagli, Rosita Zucaro, Verso il welfare azienda-le
territoriale per le PMI: esempi e modelli .................................................. 111
Bibliografia essenziale .......................................................................................... 125
Indice delle aziende/esperienze citate ................................................................... 128
Appendice informatica ........................................................................................... 132
Notizie sugli autori ................................................................................................ 133
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11. @ 2014 ADAPT University Press
Prefazione
di Giorgio Xoccato
La pubblicazione del presente testo si inserisce all’interno di un più vasto pro-getto
formativo di Confindustria Vicenza per lo sviluppo delle conoscenze e
competenze nel campo delle relazioni industriali e sindacali con particolare ri-ferimento
all’universo delle PMI venete.
Se è vero che il futuro delle nostre imprese e del nostro sistema industriale si
va sempre più configurando come un incrocio virtuoso fra manifattura e tecno-logie
informatiche (c.d. manifattura digitale), è evidente che dobbiamo investi-re
nella valorizzazione delle risorse umane e nel loro coinvolgimento nella
mission aziendale per incrementare il livello di innovazione e competitività dei
nostri prodotti.
Ma è proprio la complessità del contesto competitivo globale, oltre alla carat-teristica
dimensione aziendale del tessuto produttivo veneto, a rendere sovente
difficoltosa l’applicazione di politiche attrattive e di retention a favore del per-sonale.
Da queste considerazioni è nato un forte interesse verso strumenti alternativi di
fidelizzazione e coinvolgimento del personale, che riescano a raggiungere gli
obiettivi desiderati, garantendo benefici reali per ciascuna delle parti coinvolte.
Il progetto “Welfare” di Confindustria Vicenza è un’iniziativa volta a dif-fondere
la cultura del welfare aziendale ed offrire alle aziende elementi e
strumenti per intraprendere percorsi di avvicinamento e facilitazione nella atti-vazione
di piani di welfare aziendale ed interaziendale connessi ad una rete di
servizi a cui ogni singola azienda potrà accedere in base alle proprie specifi-che
necessità.
In un contesto in cui le risorse per i servizi e il welfare pubblico sono sempre
meno e i bisogni della popolazione aumentano sempre di più, a fronte anche di
fenomeni di invecchiamento demografico, le imprese possono quindi svolgere
un ruolo cruciale anche sotto questo aspetto, integrando l’azione del pubblico.
12. XII Prefazione
Questo testo vuole fornire il necessario supporto informativo e teorico a questa
azione, effettuando un’indagine ricostruttiva sulla materia del welfare e riper-correndone
l’evoluzione normativa e applicativa.
Un particolare ringraziamento va alla associazione ADAPT, fondata nel 2000
dal professor Marco Biagi, che ha permesso la redazione di quest’opera, anche
attraverso le proprie esperienze e collaborazioni con numerose aziende italiane
innovatrici in tema di welfare.
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Giorgio Xoccato
Vicepresidente di Confindustria Vicenza con delega alle Relazioni Industriali
13. @ 2014 ADAPT University Press
Executive summary
Welfare aziendale e PMI:
un’esperienza difficile, ma possibile
di Emmanuele Massagli
È indubbio che il welfare aziendale stia conoscendo una stagione di straordina-rio
interesse tanto aziendale, quanto scientifico e mediatico.
La “miccia” della curiosità è stata accesa nel 2009 dal primo piano di welfare
attuato da Luxottica (si veda l’approfondimento nella parte IV di questo volu-me).
Da allora anche l’Italia ha scoperto l’attualità di quella particolarissima
politica di clima, produttività, incentivazione che tutti hanno imparato a chia-mare
in inglese, ma che in altre forme e con altre finalità era già conosciuta sul
nostro territorio dalla seconda metà dell’Ottocento (la ricostruzione storica è
contenuta nella parte I).
Non è casuale la conquista della celebrità proprio in questi anni di perdurante
crisi economica, difficili per l’economia nazionale come per quella delle sin-gole
aziende e delle famiglie. Le politiche di welfare aziendale (ma questo va-le
anche per il c.d. welfare contrattuale o negoziale, solitamente regolato nei
contratti collettivi nazionali di lavoro) hanno la peculiarità di essere validi
esempi di strategie win-win-win: vince l’impresa, che incrementa la produttivi-tà
del dipendente e la sua fidelizzazione societaria; vince il lavoratore, che ot-tiene
servizi di costoso accesso sul mercato senza subire la tagliola della inva-dente
tassazione; vince lo Stato, che “scarica” sulle imprese la responsabilità
(non certo l’obbligo) di fornire alla società (per il tramite dei propri dipenden-ti)
tutele previdenziali, assistenziali, sanitarie e culturali una volta prerogativa
dello stato sociale (si veda ancora la parte I del volume per un’analisi critica
più dettagliata).
Il mondo reale è sempre più complesso delle ricostruzioni dottrinali e i tanti
fari accessi sulla materia “welfare aziendale” stanno gradualmente permetten-
14. XIV Executive summary
do di cogliere le principali difficoltà a una diffusione capillare di politiche così
costruite.
Prima di qualsiasi ostacolo tecnico vengono i pregiudizi culturali. L’Italia ha
ereditato, in particolare dagli anni Settanta, una conformazione conflittuale e
politicizzata delle relazioni industriali (o, più correttamente, di lavoro). Corol-lario
di questa caratteristica è la diffidenza che lavoratori e sindacati ancora
nutrono verso l’impresa, in particolare quella grande (talvolta ancora “il pa-drone”)
e, viceversa, l’allergia imprenditoriale alla partecipazione dei lavora-tori
non solo alla gestione, ma anche ai risultati. Su queste basi è difficoltoso
(seppure non impossibile) affermare il valore di reciproche rinunce per godere
di proporzionali vantaggi. Questo comporta un piano di welfare aziendale,
quando non è solo elargitivo: meno “liquidi” in busta paga per il lavoratore,
ma più servizi; un costo ulteriore per il datore di lavoro, che non ci sarebbe
stato con un “semplice” taglio degli stipendi, ma comunque un risparmio a bi-lancio.
Perché lo scambio si realizzi, bisogna fidarsi della controparte. Non
sbaglia quindi chi identifica nel welfare aziendale indizio di clima partecipati-vo
nelle dinamiche sindacali interne all’azienda.
Quando superati i pregiudizi culturali, imprese e lavoratori si scontrano con le
contraddizioni normative. Il welfare aziendale è regolato dal Testo Unico delle
imposte sui redditi (TUIR) nelle parti relative a Redditi di impresa (titolo I,
capo IV) e Base imponibile società/enti commerciali residenti (titolo II, capo
II). L’aggiornamento degli articoli che più interessano gli esperti di welfare
aziendale (numeri 51 e 100) è fermo all’inizio degli anni Duemila e la delicata
situazione di bilancio dello Stato italiano non permette di trovare le coperture
per rendere più coerenti con l’attuale costo della vita quantomeno le soglie
economiche relative alle erogazioni liberali, ai beni o servizi ceduti a dipen-denti
e ai buoni pasto. Ai vincoli di natura economica si aggiungono quelli
tecnico-legislativi: quando è stato scritto il TUIR (1986) non si poteva imma-ginare
il successo di quelle politiche che ora ricomprendiamo nella materia
“welfare aziendale”. Le situazioni immaginate, le fattispecie che si volevano
regolare, sono obsolete e costringono gli operatori a forzature interpretative
per provare a replicare in Italia le buone pratiche internazionali. A questa ori-ginaria
incertezza, la tradizione nostrana di produrre diritto mediante circolari
e interpelli, che più volte sono intervenuti sulla materia, ha aggiunto ulteriori
complicazioni, evitabili solo con la scrittura di nuovi articoli legislativi, chiari
ed efficaci.
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15. Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma possibile XV
Un ulteriore nemico della diffusione di piani welfare aziendale nelle nostre
imprese è il conflitto tuttora vigente tra normativa fiscale e normativa lavori-stica.
Se la prima è piuttosto chiara nell’esigere la volontarietà datoriale nella
spesa per politiche di welfare, atto che non deve derivare da obblighi contrat-tuali
di alcun genere (è spiegato nella parte II di questo volume), la seconda,
quantomeno dal 2010, sta provando ad incentivare scambi contrattuali di se-condo
livello per incrementare la performance aziendale, condizionando il go-dimento
della defiscalizzazione e decontribuzione delle componenti di salario
legate ad incrementi di produttività alla sottoscrizione di quegli stessi accordi
che, se firmati, impediscono di beneficiare dei vantaggi del TUIR. Ecco che si
spiega anche l’apparente disinteresse delle parti sociali verso il welfare azien-dale
vero e proprio, a tutto vantaggio del meno innovativo welfare contrattuale
e dei più complessi accordi di secondo livello contenenti indicatori di misura-zione
della produttività per assolvere alle richieste del decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri 22 gennaio 2013 (confermato il 19 febbraio 2014, si
veda la parte III). La concezione ancora solo paternalistica del welfare che tra-spare
dal TUIR toglie dalla disponibilità di innovativi accordi sindacali la pre-disposizione
di servizi per tutti i dipendenti o categorie di essi, a meno di non
immaginare teorici accordi-quadro per mascherare dietro a propositi “di carta”
veri e propri obblighi contrattuali, che non devono risultare all’Agenzia delle
entrate.
Dietro a questo paradosso, tutt’altro che secondario, nonostante la sottovaluta-zione
della dottrina, se ne nasconde un altro altrettanto bizzarro. È indubbio
che l’esiguità delle somme esentate dal peso della tassazione renda poco van-taggiosa
la predisposizione di piani di welfare per la piccola e media impresa
che non possa contare su rilevanti economie di scala. Al contrario, la fornitura
di servizi può essere un intelligente forma di risparmio per la grande azienda.
Questa, però, a differenza della prima, ha uno scambio continuativo con le for-ze
sindacali e quindi non può permettersi operazioni unilaterali che possono
addirittura essere politicamente lette come provocatorie proprio rispetto ai sin-dacati,
che difficilmente rinunciano a partecipare alla costruzione del menù di
servizi per i lavoratori.
In sintesi, la situazione attuale è quella di una normativa arretrata e contraddi-toria,
che scoraggia la micro e piccola impresa in ragione degli scarsi vantaggi
a bilancio a fronte degli elevati costi di costruzione dei piani di welfare, ma al-lo
stesso tempo mette in difficoltà la grande che si trova a non poter coinvol-gere
le forze sindacali “alla luce del sole” per non incorrere in (per ora solo
teoriche, non si conoscono casi) sanzioni amministrative.
@ 2014 ADAPT University Press
16. XVI Executive summary
In attesa di un intervento legislativo risolutore, gli addetti ai lavori vanno sem-pre
più concentrandosi sulla costruzione di piani di welfare per la micro, pic-cola
e media impresa. I case studies classici individuano come modelli solo
importanti gruppi manifatturieri o di servizi (citati anche in questo volume,
parte IV), certamente interessanti, ma poco utili come benchmark da imitare
per il piccolo imprenditore veneto o lombardo o emiliano. È allora possibile
costruire schemi di welfare per il principale motore dell’economia italiana,
ovvero la micro e piccola impresa diffusa? Certamente sì, se si ha la pazienza
di superare la retorica mediatica attorno ai famosi casi di successo della grande
imprenditoria e si immagina un modello nuovo, ma altrettanto vantaggioso.
In Italia, ad oggi, paiono essere tre le possibilità di azione (parte IV), anche tra
loro sommabili.
Le imprese interessate alla costruzione di programmi di servizio per i propri
dipendenti possono associarsi in rete, moltiplicando il numero dei lavoratori
interessati e quindi creando le stesse economie di scala della grande impresa.
La regia dell’alleanza può ricadere su un solo soggetto o può essere anch’essa
condivisa mediante la creazione di una sorta di sovrastruttura che amministra
il piano di welfare per tutti i soggetti giuridici in rete.
Una dinamica simile può generarsi anche senza la creazione (più o meno for-malizzata)
di una vera e propria rete, ma affidandosi alla capacità di recluta-mento
di soggetti interessati da parte di un operatore specializzato del settore,
una società di servizi che abbia un evidente interesse economico diretto alla
creazione di un partecipato gruppo di piccole imprese disponibile a comprare
dall’operatore la costruzione (se non anche l’ideazione) del piano.
Di natura non commerciale, ma associativa, è invece la costruzione di un rag-gruppamento
di imprese governato dall’associazione datoriale alla quale que-ste
aderiscono, che si fa carico del perfezionamento, della gestione e del con-trollo
del piano di welfare condiviso tra tutte le aziende interessate a partecipa-re
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al programma.
Questa terza è forse la forma più efficace per rendere il welfare aziendale una
possibilità concreta e non solo una ipotetica per la micro e piccola impresa.
L’associazione datoriale conosce il settore, i bisogni delle proprie imprese, il
territorio certamente meglio di qualsiasi società di servizi, che comunque po-trebbe
essere coinvolta in seconda battuta per l’attuazione pratica del piano; la
cui regia è bene comunque rimanga in capo agli stessi imprenditori o alla loro
associazione di rappresentanza. È questo anche un modo per fare incontrare i
mondo delle relazioni di lavoro e il welfare aziendale. È infatti nelle capacità
17. Welfare aziendale e PMI: un’esperienza difficile, ma possibile XVII
di una associazione datoriale la condivisione col sindacato di accordi territo-riali
che sottraggano il welfare alla paternalistica generosità dell’imprenditore,
facendolo diventare occasione di partecipazione, senza incappare nelle sanzio-ni
dell’Agenzia delle entrate.
Gli anni a venire dimostreranno la reale volontà di imprenditori, lavoratori, as-sociazioni
datoriali, sindacati, nonché dello Stato, di costruire soluzioni capaci
di realizzare quel modello win-win-win che rende originale – e probabilmente
anche necessaria – l’esperienza del welfare aziendale.
@ 2014 ADAPT University Press
21. Dal welfare di Stato al welfare aziendale
di Carmen Di Stani, Emmanuele Massagli
Cos’è (davvero) il welfare aziendale? La chiarezza concettuale della nozione è
inversamente proporzionale alla sua capacità evocativa. Intorno al tema aleg-gia
una sensazione di indefinitezza giuridica paragonabile a quella che caratte-rizza
un altro item della modernità, tematicamente affine: quello della respon-sabilità
@ 2014 ADAPT University Press
sociale.
Tralasciando il mero formalismo definitorio, per intendere l’essenza del welfa-re
aziendale bisognerebbe indagare i fattori socio-economici che oggi giustifi-cano
la crescente attenzione di imprese, lavoratori, politica e dottrina verso
questo tema.
Il welfare aziendale è il tentativo di risposta al costante indebolimento dello
stato sociale (welfare state) in materia di previdenza, assistenza, istruzione e
sanità. I lavoratori, diffidenti della debole “macchina” pubblica, sempre più ri-chiedono
alle imprese di sostituirsi allo Stato in compiti prima ad esso asse-gnati,
per il tramite di politiche aziendali in grado di aumentare i livelli di pro-duttività
contemporaneamente fidelizzando i propri dipendenti. Così definito il
welfare aziendale si connota come uno strumento bivalente, benefico per
l’impresa, poiché potenzialmente capace di incrementare i risultati economici,
ma desiderabile anche per i dipendenti, poiché sostitutivo di servizi e forme di
tutela altrimenti assenti.
L’Italia, violentemente investita dalla prima crisi globale della storia moderna,
si è trovata ad affrontare il problema della difficile conciliazione fra l’esigenza
di contenere la spesa pubblica e di rendere sostenibile il sistema di welfare,
tradizionalmente piuttosto pervasivo. In uno dei Paesi europei con la maggiore
spesa pubblica il corto circuito è stato inevitabile: le istituzioni, anche sotto la
pressione dei “controllori” europei, hanno dovuto (e sempre più dovranno) ri-
22. 4 Carmen Di Stani, Emmanuele Massagli
durre la spesa, inevitabilmente indebolendo anche le politiche di protezione
sociale. In questo contesto le politiche di welfare aziendale possono essere un
portentoso strumento integrativo, sebbene certamente non sostitutivo, delle tu-tele
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del welfare state.
Per quanto sia molto cresciuta negli anni l’attenzione di politica, media, im-prese
e parti sociali, le esperienze di welfare aziendale in Italia sono ancora
limitate alle grandi imprese e sono sperimentate solo nel centro-nord. Proprio
per evitare che il welfare aziendale diventi un fenomeno di nicchia, sono sem-pre
più frequenti bandi regionali e piani nazionali di sostegno alla sperimenta-zione
di pratiche di welfare (si pensi agli stanziamenti di Italia Lavoro o ai
bandi dedicati di Regione Lombardia e Regione Veneto).
Sebbene la normativa fiscale e in particolare la vetustà delle norme del Testo
Unico delle imposte sui redditi sembrino significare il contrario, anche
l’amministrazione pubblica ha quindi interesse che si diffondano azioni di
welfare capaci di remunerare i lavoratori non solo in moneta liquida, ma anche
in benefit e servizi, che ben meno pesano sul cuneo fiscale e sul costo del la-voro
per unità di prodotto (CLUP). Uno dei vantaggi del welfare privato è, in-fatti,
proprio quello di offrire al dipendente, a parità di costo aziendale, un va-lore
in beni e servizi superiore a quella che sarebbe stata l’erogazione diretta in
busta paga. Per quanto il dipendente sia naturalmente propenso a preferire
l’erogazione monetaria, l’apprezzamento verso queste iniziative è crescente.
Le ricerche economiche calcolano che il misuratore di impegno del lavoratore
(employee engagment index) aumenti del 30% quando il welfare viene intro-dotto
e del 15% quando un servizio già esistente viene migliorato. Per
l’impresa si tratta di un vero e proprio investimento: 150 euro impiegati in mi-sure
di welfare possono portare a un guadagno di 300 euro tra risparmio effet-tivo
e aumento di produttività (1). Le misure di welfare erogate nel rispetto del
quadro normativo vigente consentono la completa deducibilità dei costi per
l’azienda e non concorrono alla formazione di reddito di lavoro per il dipen-dente.
Anche grazie a questo trattamento fiscale di favore (per quanto meno
vantaggioso di come calcolato nel resto d’Europa) il welfare aziendale consen-te
di raggiungere tre obiettivi gestionali: 1) l’aumento della retribuzione reale
dei lavoratori, senza corrispettivo aggravio del costo del lavoro per unità di
prodotto; 2) il miglioramento del clima aziendale, del benessere dei lavoratori
e del loro potere d’acquisto, con effetti diretti sulla riduzione dell’assenteismo,
dei costi d’inefficienza e con un innalzamento dell’orgoglio di appartenenza;
(1) F. RIZZI, R. MARRACINO, L. TOIA, Il welfare sussidiario: un vantaggio per aziende e di-pendenti,
McKinsey & Company, 2013.
23. Dal welfare di stato al welfare aziendale 5
3) l’ottimizzazione dell’impatto fiscale e contributivo del compenso non mo-netario
sia per i lavoratori che per l’impresa.
Tenendo conto della struttura del sistema produttivo italiano, costituito in pre-valenza
da micro e piccole imprese, ancora molto modeste sono le quote di la-voratori
dipendenti che ricevono misure dirette di welfare aziendale. Senza ci-tare
pratiche evolute di welfare, basti ricordare che i buoni pasto sono ricevuti
solo dal 17,6% dei lavoratori, le mense aziendali fruite dall’8,4%, appena il
2,3% gode di servizi sanitari aggiuntivi e un microscopico 0,4% riceve il rim-borso
delle spese per l’asilo nido o per altri servizi di cura familiare (misure,
queste ultime, capaci di realizzare una migliore conciliazione famiglia-lavoro
per le donne lavoratrici). Se convintamente sostenuta, la diffusione del welfare
aziendale porterebbe indubbi benefici micro e macroeconomici:
dall’alleggerimento della pressione sul bilancio pubblico al rafforzamento dei
legami fra imprese e territori, dalla fidelizzazione dei dipendenti alla promo-zione
della nuova economia mista dei servizi, con effetti positivi anche sulla
crescita del PIL, sull’occupazione femminile e sulle abitudini familiari.
Se è positivo che oltre l’80% delle aziende presenti in Italia con più di 500 di-pendenti
abbia avviato una qualche iniziativa di welfare aziendale (ben il 43%
di esse offre almeno due tipologie di interventi di welfare) (2), è ora necessario
che questa particolare politica si diffonda anche alle imprese medio-piccole.
Perché questo avvenga è certamente necessario l’intervento dello Stato, so-prattutto
aggiornando il TUIR, ma non è sufficiente. È altrettanto indispensa-bile
la disponibilità degli imprenditori ad associarsi in rete per realizzare quel-le
economie di scala la cui assenza rende ben poco appetibile le politiche di
welfare aziendale. Perché si creino reti di questo genere è opportuno un mag-giore
coinvolgimento delle associazioni datoriali, già istituzionalmente deputa-te
ad essere registi di queste aggregazioni, per il bene del bilancio dei propri
associati, dell’economia del territorio e della competitività dello Stato.
Questa è una delle sfide dell’economia italiana nei prossimi anni.
(2) E. PAVOLINI, U. ASCOLI, M.L. MIRABILE, Tempi moderni. Il welfare nelle aziende in Italia,
il Mulino, 2012.
@ 2014 ADAPT University Press
24. Le origini del welfare aziendale:
dalle colonie operaie ai fringe benefits
@ 2014 ADAPT University Press
di Daniele Grandi
Le prime esperienze di intervento sociale da parte delle imprese prendono
forma nella lunga fase paleotecnica che precede lo sviluppo industriale
dell’Italia e nascono dalla particolare intraprendenza e dalla capacità innovati-va
di un singolo imprenditore, oppure da una specifica volontà di natura pub-blica.
Gli esempi più significativi di questo periodo (anni Quaranta e Cinquan-ta
dell’Ottocento) sono il villaggio di Larderello in Toscana e la colonia ope-raia
di San Leucio, nei pressi di Caserta.
Nello stesso periodo, dal lato delle associazioni di lavoratori, nascono le socie-tà
di mutuo soccorso (la prima a Pinerolo nel 1844 su iniziativa di un gruppo
di calzolai). La funzione essenziale di queste nuove realtà è costituita dalla
somministrazione gratuita di cure ai soci in caso di malattia, ma l’assistenza
progressivamente coprirà anche i casi di invalidità, vecchiaia e morte. Nel
1879 in Italia già esistono 1959 società che contano 327.173 soci effettivi.
Alla fine dell’Ottocento, mentre il fenomeno delle società di mutuo soccorso
va ulteriormente diffondendosi, grazie al riconoscimento legislativo e al soste-gno
proveniente dal mondo cattolico, anche il paternalismo italiano inizia a
configurarsi con caratteri organici, pur rimanendo legato alla figura carismati-ca
dell’imprenditore e riguardando quasi esclusivamente le industrie del tessile
(comparto economico che traina il primo vero sviluppo industriale italiano). I
casi più noti sono quelli di Cristoforo Benigni Crespi a Crespi d’Adda, di Na-poleone
Leumann a Collegno, di Gaetano Marzotto a Valdagno e di Alessan-dro
Rossi a Schio, nel vicentino. Nasce un fenomeno del tutto nuovo, ma de-stinato
a svilupparsi notevolmente negli anni a venire: molti imprenditori av-vertono
il dovere sociale di garantire un futuro ai propri lavoratori e alle relati-ve
famiglie.
25. Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefit 7
La realizzazione in quegli anni di villaggi e strutture accanto alle fabbriche per
alloggiare e assistere gli operai che provengono da località distanti non si deve
esclusivamente alla posizione marginale degli opifici, ma anche ad altre esi-genze
come il procedere ad un sostanziale distacco degli operai dal loro retro-terra
agricolo e sostenere il fattore lavoro nell’ambito del “nuovo” sistema di
fabbrica. In questo periodo, l’impegno sociale degli imprenditori, ascrivibile a
questa corrente di “paternalismo organico”, si configura dunque come una sor-ta
di compensazione, rispetto ai processi di meccanizzazione, ai tempi e ai rit-mi
di lavoro più incessanti imposti dalla nuova organizzazione delle attività
produttive in chiave industriale.
All’inizio del Novecento lo sviluppo di forme di welfare, pubblico e privato,
viene progressivamente imposto non solo dalle rivendicazioni dei lavoratori,
ma anche dall’obiettivo dei Governi di garantire la pace sociale in maniera non
repressiva e dall’interesse degli imprenditori più lungimiranti, di numero sem-pre
maggiore e sempre più impegnati nella promozione di azioni sociali
all’interno delle proprie imprese, ad attrarre e trattenere manodopera qualifica-ta.
È durante il fascismo che si afferma definitivamente il welfare aziendale come
strumento per aumentare la produttività e per contrastare la conflittualità ope-raia
(quindi in una logica più economicistica che paternalistica). All’interno
dell’economia corporativa promossa in quegli anni, il cui obiettivo dichiarato è
il superamento della contrapposizione tra capitale e lavoro, accanto all’Opera
nazionale dopolavoro, nata nel 1925 con il compito specifico di organizzare il
tempo libero delle masse popolari, viene chiesto alle aziende un impegno con-creto
nella stessa direzione. A tal fine, e vista anche la necessità del consenso
politico e di nuove procedure di controllo sugli operai da parte delle istituzioni
e dei grandi gruppi industriali, si arriva a una riscoperta, in chiave totalmente
nuova e più moderna, del paternalismo ottocentesco gettando le fondamenta di
quello che sarà il welfare aziendale italiano del XX secolo.
Un esempio di questo nuovo ciclo di azioni sociali da parte dell’impresa è
quello del villaggio di Torviscosa a Torre di Zuino realizzato nel 1938 dalla
Snia Viscosa, guidata da Franco Marinotti. All’interno del centro abitato ven-gono
ospitati oltre mille lavoratori e il controllo che l’imprenditore esercita
non solo sul tempo libero e la vita quotidiana di questi, ma anche sulle attività
produttive e l’insediamento in generale, è totale. Lo stesso fascismo è presente
solo in minima parte ed esclusivamente attraverso la mediazione di Marinotti.
L’ordine sociale si basa sulla famiglia, sulla stabilità della forza lavoro,
sull’assenza di conflittualità e sul forte attaccamento, da parte dei lavoratori,
alla fabbrica. Il paternalismo qui messo in atto riesce bene ad adattarsi alle lo-
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26. 8 Daniele Grandi
giche del fascismo e, grazie alla sua articolazione, anche ai diversi scenari po-litici
che si aprono dopo la sua caduta.
La Società Montecatini fornisce un altro esempio di costruzione del welfare
aziendale durante gli anni del fascismo. Dominante è l’autorevole figura
dell’imprenditore Guido Donegani, che in quegli anni, a fianco di una forte
politica espansionistica che lo porterà a diventare leader di una delle principali
industrie italiane attiva nei settori minerari e chimici, elabora un articolato
programma sociale e assistenziale, esteso a tutto il territorio nazionale, in quel-le
località dove sono situati i suoi stabilimenti (oltre cento). In riferimento alla
prevenzione degli infortuni e alla tutela della salute viene innanzitutto promos-sa
un’azione di tipo educativo che riguarda anche l’igiene personale. Viene
inoltre creato un apposito corpo di assistenti che diventerà un punto di riferi-mento
per l’operaio e la sua famiglia in base ad un rapporto costruito sulla fi-ducia,
sulla solidarietà e sull’armonia che deve caratterizzare, in ogni momen-to,
la vita aziendale. Per i bambini vengono creati asili, scuole e colonie. Parti-colare
attenzione viene rivolta agli interventi alimentari e alle attività ricreati-ve
e sportive: vengono a tal fine creati spacci, mense, refettori, campi da cal-cio,
teatri, cinema e biblioteche.
Statisticamente, nel 1944 in Italia i locali di residenza in assegnazione ai di-pendenti
delle società sono oltre 11.500, per un totale di circa mille edifici, ai
quali si devono aggiungere i fabbricati che ospitano i dopolavoro, le opere as-sistenziali
e ricreative e le mense.
Certamente da citare anche lo stabilimento della società Dalmine, al quale si
affianca un ampio e articolato villaggio operario, che durante il periodo fasci-sta
diventa un prototipo di company town capace di ospitare (anno 1941) oltre
7.300 abitanti. Come la Montecatini, anche la Dalmine offre ampio ventaglio
di servizi di welfare aziendale. Fra questi si sottolinea la scuola popolare ope-raia
dove si svolgono, fra il 1922 e il 1929, i primi corsi serali e professionali,
la scuola elementare istituita nel 1925 (anticipando di tre anni quella pubblica)
e una scuola apprendisti a partire dal 1937. Nel 1922 viene costituita una cassa
mutua per fornire aiuto ai soci malati e l’anno successivo viene attivata anche
una cassa di previdenza per gli impiegati. Nel 1935 nasce la Pro Dalmine, so-cietà
incaricata di gestire il patrimonio immobiliare non industriale della città e
tutte le opere sociali, ricreative, culturali e assistenziali destinate agli operai e
alle loro famiglie e di consegnare borse di studio, premi di fedeltà, nonché pre-stiti
ai dipendenti per l’acquisto della casa.
Nella congiuntura favorevole del secondo dopoguerra, determinata dalla forte
espansione delle economie occidentali e da un dialogo responsabile tre le parti
sociali sulle tematiche del lavoro, si apre una fase fondamentale per la costru-
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27. Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefit 9
zione dello stato sociale. È in questa fase che diverse aziende già attive in am-bito
sociale danno nuovo slancio al proprio impegno, costruendo nuovi alloggi
e rafforzando i propri apparati assistenziali incentrati sulle strutture del dopo-lavoro.
In tale contesto spicca il celebre modello di welfare aziendale ideato da Adria-no
Olivetti, che aveva l’ambizione di assistere i propri lavoratori in tutti gli
aspetti della vita, in azienda e in famiglia. La missione dell’impresa, lo stato
sociale, le costanti relazioni con il territorio e la dimensione culturale
dell’industria si fondono insieme per superare la visione strumentale ed eco-nomicistica
del welfare, molto (per Olivetti “troppo”) attenta ai livelli produt-tivi.
Le attività assistenziali e sociali della Olivetti, presenti già da tempo nella
cultura dell’impresa, vengono gestite a partire dal 1948 dal Consiglio di ge-stione,
un organismo che prevede il coinvolgimento diretto dei lavoratori nelle
scelte gestionali ed è su queste linee di cogestione che nel 1960, oltre alla rea-lizzazione
ad Ivrea di alcuni quartieri residenziali, in un complesso quadro di
attività culturali e di opere sociali e sanitarie, l’azienda istituisce anche il Fon-do
di solidarietà interna, che prevede numerosi interventi previdenziali e assi-stenziali,
compresi i trattamenti ospedalieri, integrativi di quelli pubblici. An-che
in questo caso l’iniziativa aziendale supplisce alle carenze del sistema
pubblico o ne anticipa le direttive finali, come accade per le scuole materne e
gli asili-nido, che precedono la nascita della scuola materna pubblica avvenuta
nel 1970.
Altro caso noto è quello della Larderello degli anni Cinquanta, presieduta da
Aldo Fascetti, esponente di spicco della DC. Tra il 1954 e il 1959, insieme
all’espansione delle attività produttive viene promossa anche la fondazione di
un nuovo villaggio operaio particolarmente attento alle dinamiche sociali e
comunitarie. Al centro di questo progetto, in maniera indicativa e con una pro-spettiva
totalmente nuova rispetto al welfare aziendale dei decenni precedenti,
non viene più collocata soltanto la fabbrica, con i suoi ritmi produttivi e le sue
gerarchie, ma la vita stessa degli operai. Quest’ultima, dunque, assume una
dimensione propria, capace di rompere la totale identificazione tra il lavoratore
e l’impresa, punto di forza sia del paternalismo ottocentesco, sia del welfare
aziendale degli anni Trenta (quello vocato a contenere la conflittualità degli
operai e a concorrere attivamente alla costruzione del consenso). Alla logica
del capitalismo e del profitto, gli imprenditori più illuminati provano ad af-fiancare
uno spazio sociale regolato dagli ideali della solidarietà, solitamente
di ispirazione cristiana.
Anche l’ENI è molto attiva nelle politiche sociali per esplicita volontà di Enri-co
Mattei di trasformare la gestione delle persone in un vantaggio competitivo,
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28. 10 Daniele Grandi
enfatizzando l’attenzione ai dipendenti e all’ambiente di lavoro. L’innovativo
progetto urbanistico di Metanopoli, villaggio residenziale per i lavoratori ENI
a San Donato Milanese (avviato nel 1953), è il segno compiuto di questo ap-proccio.
Case, laboratori di ricerca e uffici sono progettati per offrire ai dipen-denti
un ambiente di lavoro confortevole e all’avanguardia, immerso nel verde
e fornito di servizi collettivi tra cui un asilo, una scuola, un cinema e un centro
sportivo.
Questa corrente a favore dell’azione sociale dell’impresa sviluppatasi dal se-condo
dopoguerra agli anni Sessanta è destinata a diradarsi fortemente nei de-cenni
successivi, poiché parte del capitalismo italiano orienta la sua azione in
direzione del neoliberismo anglosassone e, contestualmente, lo Stato va sem-pre
più crescendo con le riforme previdenziali degli anni Sessanta e con la co-stituzione
del Servizio sanitario nazionale. Il modello perseguito è lo stato so-ciale
inteso come mix tra il modello corporativo di matrice bismarckiana, in
campo pensionistico, e le esperienze anglosassoni di welfare universalistico di
matrice beveridgiana per quel che concerne l’assistenza sanitaria.
C’è quindi sempre meno bisogno del welfare aziendale, che diventa sempre
più marginale e costoso, quantomeno indirettamente visto che cresce non poco
l’onerosità dei contributi sociali obbligatori a carico delle imprese destinate a
pagare il welfare pubblico, che nel contempo assorbe numerose casse, enti e
fondazioni di natura privatistica.
La progressiva emarginazione del welfare aziendale viene interrotta solo negli
anni Ottanta grazie allo sviluppo dei piani di fringe benefits per i lavoratori, in
particolare i più qualificati. Fenomeno tipico delle grandi multinazionali, che
conseguentemente in Italia incomincia ad osservarsi nelle filiali italiane delle
aziende statunitensi. Da un lato i programmi assistenziali e previdenziali di
matrice aziendale diventano sempre più ampi e sofisticati, dall’altro vengono
inserite voci retributive indirette sconosciute al welfare del secolo precedente
(stock options, auto aziendali, ecc.). Questo nuovo approccio al welfare azien-dale
prende la forma di una moderna politica retributiva per élite, limitata ai
manager e ai professionals delle filiali delle grandi società globalizzate.
È solo in seguito alla crisi degli ultimi anni e alla progressiva e conseguente
riduzione dello spazio d’intervento dello stato sociale che, a fronte della sem-pre
maggiore evidenza dei limiti di natura organizzativa ed economica
dell’intervento pubblico in materia assistenziale e previdenziale, questo orien-tamento
tende a mutare. Si assiste ormai da anni a un ripensamento del ruolo
del welfare aziendale da parte delle grandi aziende, le quali decidono di af-fiancare
a strumenti più tradizionali, sopravvissuti nel corso degli anni, anche
pratiche in grado di sfruttare tutti i vantaggi offerti dalla normativa fiscale e
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29. Le origini del welfare aziendale: dalle colonie operai ai fringe benefit 11
previdenziale, nonché azioni che vadano a incidere sulle modalità e sui tempi
di lavoro, per offrire a tutti i lavoratori risposte ai nuovi bisogni e ai nuovi ri-schi
sociali che vanno sorgendo e ai quali il welfare pubblico non riesce più a
far fronte.
Oggigiorno larga parte dell’offerta aziendale si orienta verso il bilanciamento
dei tempi di vita e lavoro e la tutela della genitorialità: la conciliazione vita-lavoro
è una delle principali aree di welfare aziendale. Ci sono poi l’assistenza
sanitaria e i contributi previdenziali, la tutela della salute, le misure di soste-gno
al reddito e gli interventi in tema di formazione e istruzione (queste ultime
solo recentemente riconosciute come benefit). Se infatti l’erogazione di for-mazione
non è di per sé pratica nuova per le imprese, oggi l’acquisizione e il
continuo sviluppo delle proprie competenze in un’ottica di life-long learning
sono elementi tanto cruciali per lo sviluppo professionale quanto difficili da
reperire in un mercato del lavoro in cui i datori di lavoro non sono incentivati a
sostenere i costi della formazione.
Il welfare aziendale è oggi definibile come «l’insieme dei benefit e servizi for-niti
dall’azienda ai propri dipendenti al fine di migliorarne la vita privata e la-vorativa,
che vanno dal sostegno al reddito familiare, allo studio, e alla genito-rialità,
alla tutela della salute e fino a proposte per il tempo libero e agevola-zioni
di carattere familiare» (1). È uno dei principali sostegni del welfare pub-blico
mediante ricchezza privata e per questo anche ad esso ci si riferisce par-lando
di “secondo welfare”, ovvero quel nuovo welfare mix caratterizzato
dall’ingresso nell’arena del welfare di soggetti, privati, che possono, grazie al
loro radicamento territoriale e in partnership con gli enti locali, contribuire a
dare risposte a vecchi e nuovi bisogni.
(1) La definizione di F. MAINO, G. MALLONE, Secondo Welfare e imprese: nesso e prospettive,
in La Rivista delle Politiche Sociali, 2012, n. 3, 195-207, completa quanto presentato nel capi-tolo
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precedente.
30. Redistribuzione e retribuzione:
le diverse funzioni del welfare aziendale
@ 2014 ADAPT University Press
di Daniele Grandi
Le questioni che il welfare aziendale oggi pone in quanto complemento del si-stema
pubblico sono diverse se viste da una prospettiva politologica o da una
prospettiva aziendalistico-organizzativa. Le diverse concezioni di benessere
che sottendono a tali due punti di vista introducono diversi ordini di istanze
che gli addetti ai lavori sono portati a considerare nel trattare l’argomento in
esame.
Da un punto di vista prettamente politologico assume importanza la correla-zione
tra il ridimensionamento del welfare state e l’impulso del welfare azien-dale.
In particolare, considerando il welfare come l’assetto delle condizioni di
vita degli individui, delle risorse e delle opportunità a loro disposizione lungo
le diverse fasi dell’esistenza, che una determinata comunità politica considera
legittima spettanza di cittadinanza sociale, e il welfare state come l’insieme
delle politiche pubbliche attraverso cui lo Stato fornisce ai propri cittadini pro-tezione
contro rischi e bisogni prestabiliti, sotto forma di assistenza, assicura-zione
o sicurezza sociale, allora il concetto di welfare implica l’idea di bisogni
non soddisfatti con il solo reddito da lavoro per ragioni quali-quantitative e il
concetto di welfare aziendale quello che tali bisogni siano almeno in parte
soddisfatti (o soddisfabili) direttamente dall’azienda, tramite strumenti assi-stenziali,
assicurativi, o di altro tipo, diversi comunque, per natura e intitola-zione
soggettiva, da quelli propri e tipici del welfare state.
In questo scenario, mentre il welfare state interviene tipicamente sul versante
quantitativo, ovvero quello dell’insufficienza delle risorse e della loro redistri-buzione,
il welfare aziendale, secondo una prospettiva politologica, interviene
sul versante qualitativo per sussidiare (in chiave integrativa o addirittura sosti-tutiva)
il welfare state affetto da crisi fiscale, ovvero per erogare beni che né il
31. Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare aziendale 13
reddito da lavoro, né il welfare state riescono ad assicurare ai lavoratori. Da
qui, il fatto che la relazione di lavoro debba includere anche il soddisfacimento
di tali esigenze non efficacemente soddisfatte dal compenso monetario diventa
presupposto implicito all’idea di welfare aziendale.
Da un punto di vista politologico, dunque, assumono rilevanza i bisogni del
lavoratore/cittadino. A tal proposito, infatti, mentre da un lato si ravvisa un
aumento delle grandi aziende, italiane e internazionali, che decidono, avendo
disponibilità di risorse, di offrire pacchetti di welfare ai propri dipendenti,
dall’altro si è in presenza di un tasso di disoccupazione che ha ormai superato
il 12%, di una disoccupazione giovanile che si attesta oltre il 40% e di una
quota di lavoratori occupati nelle PMI che nel 2010 raggiungeva l’80%. Cate-gorie,
queste, che vanno a formare un cluster molto numeroso di soggetti che
rimangono esclusi da tali politiche e che dunque non trovano risposta a quei
bisogni che esse si propongo di soddisfare. Circostanza che determina una di-scriminazione
non solo in base allo status di lavoratore occupato o disoccupa-to,
ma anche a seconda delle diverse dimensioni del luogo di lavoro, andando
a rafforzare ulteriormente quella distinzione tra c.d. insider e outsider che in
Italia è già drammaticamente accentuata.
In ambito economico il benessere può essere definito come il soddisfacimento
della funzione di utilità di un singolo individuo e/o la massimizzazione delle
funzioni di utilità degli individui che compongono una data collettività. Defi-nizione
questa che può essere ricompresa nella più ampia nozione di well-being,
lo stato di benessere fisico, mentale e sociale che è ben di più della
semplice assenza dello stato di malattia o di infermità.
Declinando tale definizione in ambito aziendale si può notare come la cura di
questa dimensione di benessere del lavoratore vada a formare quel rapporto tra
caring e control proposto dal welfare aziendale secondo una prospettiva pret-tamente
aziendalistico-organizzativa. Prospettiva, questa, in cui confluisce la
più recente evoluzione delle politiche aziendali di compensation & benfit in
una logica di total reward, che presuppone che il salario rappresenti certamen-te
un elemento importante della retribuzione, ma non l’unica componente. Per
le moderne politiche del personale lo scambio tipico della relazione lavoristica
deve arricchirsi di nuovi elementi qualificativi quali il work environment (qua-lità
del luogo di lavoro, clima organizzativo, sviluppo e carriera, ecc.), il com-pany
environment (bilancio sociale, valori, certificazioni ambientali, ecc.) e il
work-life balance (servizi per il benessere personale, servizi per la famiglia,
ecc.).
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32. 14 Daniele Grandi
A sostegno del welfare aziendale quale forma di integrazione dei salari tesa
all’assicurazione di un certo livello di benessere è intervenuta anche una nuova
branca degli studi psicosociali, denominata “psicologia della felicità”. Non es-sendo
questa la sede adatta per una trattazione diffusa della disciplina ci si li-mita
a sottolineare come una delle acquisizioni più interessanti si trovi nella
documentazione che nei Paesi più industrializzati l’incremento marginale del
reddito non corrisponde all’incremento marginale della percezione soggettiva
della felicità. È stato rilevato che i fattori che determinano la percezione sog-gettiva
di felicità non sono limitati alle ricompense di natura economica (in
primis il tenore di vita materiale), ma ne includono molti altri (famiglia, stato
di salute, qualità del lavoro e delle relazioni di lavoro, ecc.). Il benessere sa-rebbe
quindi una funzione sia del tenore materiale della vita sia dei beni rela-zionali.
Se è così, è certamente importante, anche da un punto di vista econo-mico,
disegnare ogni tipo di organizzazione (anche quella lavorativa) in ma-niera
tale da coordinare armonicamente i bisogni della persona.
Così, nel tentativo di intercettare tali bisogni attivando uno scambio virtuoso
fra crescita della produzione e miglioramento del lavoro e della vita dei dipen-denti,
le aree in cui le imprese intervengono più diffusamente con politiche di
welfare aziendale sono: tutela pensionistica complementare e assistenza sani-taria
integrativa; servizi di assistenza alla persona; servizi per bambini e adole-scenti;
misure per la conciliazione fra lavoro e vita privata e per la condivisio-ne
dei ruoli nella famiglia; iniziative di sostegno all’istruzione e
all’educazione, sia per i giovani che per gli adulti; servizi di mobilità fra casa e
luogo di lavoro; servizi ricreativi culturali e sportivi; forme di sostegno al po-tere
d’acquisto dei lavoratori. Tali azioni testimoniano come l’eterogeneità dei
beni che il welfare aziendale mira ad assicurare si lasci difficilmente tradurre
in termini giuridico-contrattuali, spaziando infatti dal diritto corrispettivo
(forma indiretta di retribuzione) al diritto non corrispettivo (diritto al telelavo-ro,
al part-time, alla flessibilità oraria), dalle politiche retributive in senso
stretto alle politiche del lavoro (politiche di conciliazione vita-lavoro, politiche
di welfare familiare, ecc.).
Trovare un equilibrio fra diverse dimensioni è uno degli obiettivi dei policy
makers e degli addetti ai lavori nei prossimi anni. Conciliare la funzione redi-stributiva
del welfare pubblico con la funzione retributiva e incentivante dei
benefit aziendali non è operazione semplice e immediata. Al netto infatti della
facoltà delle imprese di scegliere come meglio incentivare i propri dipendenti
per implementare nuovi modelli organizzativi e incrementare la produttività,
sullo sfondo emerge un’evidente problematica di equità e discriminazione, per
quanto involontaria, tra occupati e disoccupati, dipendenti e autonomi, tipolo-
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33. Redistribuzione e retribuzione: le diverse funzioni del welfare aziendale 15
gie di dipendenti. Per andare verso un modello di welfare aziendale più inclu-sivo
e in grado di far fronte efficacemente alle istanze emergenti sarebbe ne-cessario
promuovere aggiornamenti normativi tesi a rendere il welfare azien-dale
più accessibile a tutte le imprese e allo stesso tempo incoraggiare un dia-logo
più strutturato fra istituzioni locali e attori socio-economici del territorio
(sindacati, associazioni datoriali, terzo settore) in modo da favorire la promo-zione
di partnership pubblico-privato e reti multistakeholder.
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34.
35. Parte II
AMBITI DI INTERESSE,
PROFILI GIURIDICI,
PROBLEMATICHE FISCALI
36.
37. Elementi di previdenza complementare
e assistenza sanitaria integrativa
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di Daniele Grandi
Previdenza sociale
La definizione “minimalistica” di previdenza è accantonamento di reddito da
lavoro attuale (contribuzione) al fine di soddisfare bisogni futuri, in presenza
di una duplice condizione: che sussista un vincolo eteronomo di indisponibilità
per i consumi (c.d. “vincolo di destinazione previdenziale”) e che sussista un
elemento solidaristico nell’ambito del gruppo tutelato.
È importante sottolineare come non sia coessenziale alla previdenza una natu-ra
legale/pubblicistica, essendo infatti costituzionalmente garantita anche la
previdenza privata (complementare/integrativa o sostitutiva), e dunque nego-ziale.
Ed è proprio nell’ambito di tale previdenza privata che negli anni No-vanta,
in concomitanza con le riforme delle pensioni pubbliche, accanto al si-stema
previdenziale tradizionale è nata o, in alcuni casi, è stata rilanciata, la
previdenza integrativa o complementare. Essa è costituita in primo luogo dai
fondi di categoria (o “negoziali”) chiusi, l’adesione ai quali è riservata ai
membri di una categoria produttiva o occupazionale. I fondi chiusi vengono
poi affiancati dai piani pensionistici individuali (PIP, piano individuale pen-sionistico
di tipo assicurativo), cui tutti i cittadini possono aderire tramite la
sottoscrizione di polizze assicurative, e dai fondi pensionistici “aperti”, a metà
fra i fondi chiusi e i piani individuali, cui possono egualmente iscriversi tutti i
cittadini.
In particolare, si può ascrivere alla previdenza complementare aggiuntivo-integrativa,
oltre a quella pensionistica tipicizzata dal d.lgs. n 252/2005, anche
l’intervento degli enti bilaterali a integrazione dell’assicurazione sociale per
l’impiego corrisposta ai lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionale,
38. 20 Daniele Grandi
prevista in via sperimentale per ciascuno degli anni 2013-2014-2015 dall’art.
3, comma 17, della recente l. n. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro
(legge Fornero), nonché le prestazioni integrative erogate ai sensi del comma
11 dell’art. 3 della predetta legge dai fondi di solidarietà bilaterali.
La previdenza complementare gode di un incoraggiante favore fiscale che si
concretizza nella permessa deducibilità dal reddito complessivo dei contributi
versati dal lavoratore e dal datore di lavoro alle forme di previdenza comple-mentare
per un importo non superiore di euro 5.164, 57 (art. 10, comma 1, lett.
e-bis, TUIR).
La realtà dominante nell’ambito del secondo ramo previdenziale è quella dei
fondi chiusi di origine negoziale, istituiti negli anni Novanta dalle parti sociali
(sindacati e associazioni datoriali o dagli stessi datori di lavoro) e da queste
gestiti in modo paritario negli organismi di governance interna. Si tratta di
fondi cui possono aderire i lavoratori appartenenti al settore produttivo “pro-prietario”,
regolati nei contratti collettivi di riferimento. Gli esempi più noti
sono il fondo Cometa per i metalmeccanici, Alifond per l’industria alimenta-re,
Fonchim per il settore chimico-farmaceutico. Accanto a tali fondi possono
coesistere fondi negoziali di carattere territoriale (in alcuni casi addirittura
dominanti rispetto a quelli di categoria) che raggruppano i lavoratori apparte-nenti
allo stesso ambito geografico e allo stesso settore merceologico (Previ-labor
per le aziende metalmeccaniche del bolognese) o anche a diversi settori
produttivi (Fondo Solidarietà Veneto).
La quota obbligatoria minima di versamento contributivo prevista dai contratti
nazionali di settore si aggira intorno al 3-4% della retribuzione, con quote va-riabili
e diverse per datori di lavoro e lavoratori e a seconda del livello di in-quadramento.
Occorre poi sottolineare come in più di un caso, all’interno delle più ampie po-litiche
di welfare aziendale, intervengano accordi aziendali che prevedono un
incremento delle risorse da destinare alla previdenza complementare. Ad
esempio, il gruppo ABB, aderente al fondo Cometa, in aggiunta a quanto con-cordato
dalla contrattazione nazionale di settore ha previsto un versamento an-nuale
di 100 euro da parte del datore di lavoro; nel gruppo Intesa Sanpaolo
nella cassa di previdenza del personale della Cassa di risparmio di Padova e
Rovigo (Cariparo) il datore di lavoro versa il 5% e i lavoratori posso versare
da un minimo dello 0,61% ad un massimo del 14% della retribuzione.
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39. Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa 21
Assistenza sociale e sanitaria
A differenza della previdenza, l’assistenza sociale eroga prestazioni monetarie
o di servizi per la soddisfazione di bisogni socialmente rilevanti, non soddi-sfatti
né dal reddito da lavoro, né da altri redditi (compresi quelli previdenzia-li).
Inoltre, sempre a differenza della previdenza, la struttura non assicurativa
la rende universalistica e gratuita, incardinata sullo status di cittadino anziché
di lavoratore.
L’assistenza, come la previdenza, può essere pubblica o privata. L’assistenza
privata in particolare comprende due tipi di istituti: i fondi sanitari integrativi,
sui quali verrà concentrata l’attenzione nei prossimi paragrafi vista la partico-lare
rilevanza nell’ambito delle politiche di welfare aziendale, e le assicurazio-ni
sanitarie commerciali. La differenza tra questi due istituti è ravvisabile in-nanzitutto
nella non finalità di lucro dei fondi (al contrario delle assicurazioni),
che forniscono prestazioni integrative rispetto al sistema pubblico con logiche
non orientate al profitto. In secondo luogo, mentre le assicurazioni operano
sulla base di principi attuariali secondo i quali i premi sono fondati su stime
probabilistiche relative alle frequenze e al costo dei sinistri, i fondi si basano
sulla solidarietà tra i gruppi aderenti.
Fondi sanitari integrativi
In base alla normativa vigente i fondi sanitari si configurano come forme di
mutualità volontaria di natura integrativa rispetto al Servizio sanitario naziona-le
(SSN). In particolare, come indicato nel d.lgs. n. 299/1999, essi possono co-prire:
«prestazioni aggiuntive, non comprese nei livelli essenziali e uniformi di
assistenza e con questi comunque integrate, erogate da professionisti e da
strutture accreditati»; prestazioni erogate dal SSN «comprese nei livelli uni-formi
ed essenziali di assistenza, per la sola quota posta a carico
dell’assistito», come i ticket, le prestazioni erogate in libera professione e i
servizi alberghieri (art. 9, comma 4, d.lgs. n. 299/1999). A queste indicazioni
di carattere generale, contenute nel già citato d.lgs. n. 299/1999, vanno ad ag-giungersi
le più specifiche indicazioni contenute nel “decreto Turco” che pre-cisano
e ampliano in maniera significativa gli ambiti di intervento, facendo in
particolare riferimento a: prestazioni socio-sanitarie in strutture accreditate re-sidenziali
e semiresidenziali o in forma domiciliare per la quota pagata dagli
assistiti; cure termali non a carico del SSN; medicina non convenzionale anche
se erogata da strutture non accreditate; assistenza odontoiatrica limitatamente
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40. 22 Daniele Grandi
alle prestazioni non a carico del SSN; assistenza ai non autosufficienti; presta-zioni
odontoiatriche non comprese nei livelli essenziali e uniformi di assisten-za
per la prevenzione, cura e riabilitazione di patologie odontoiatriche presso
strutture autorizzate, anche se non accreditate.
Il decreto del Ministero della salute del 31 marzo 2008 precisa che i fondi de-vono
destinare alle prestazioni socio-sanitarie non comprese nei livelli essen-ziali
e uniformi di assistenza e a quelle finalizzate al recupero della salute di
soggetti temporaneamente inabilitati da malattia o infortunio per la parte non
garantita dalla normativa vigente, nonché alle prestazioni di assistenza odon-toiatrica
non comprese nei livelli essenziali di assistenza per la prevenzione,
cura e riabilitazione di patologie odontoiatriche, una quota di risorse «non in-feriore
al 20% dell’ammontare complessivo delle risorse destinate alla coper-tura
di tutte le prestazioni garantite ai propri assistiti» (art. 1, decreto Ministero
della salute 31 marzo 2008). Una tale enfasi posta sul carattere di complemen-tarietà
dei fondi sanitari integrativi rispetto all’assistenza sanitaria pubblica
permette di capire come questi siano stati concepiti, ovvero come vero e pro-prio
“secondo pilastro” del sistema sanitario del Paese.
I fondi integrativi, che come i fondi pensione possono essere “chiusi” (iscri-zione
riservata agli appartenenti ad un settore produttivo, categoria professio-nale
o azienda) o “aperti” (iscrizioni aperte a tutti i cittadini), possono avere
una pluralità di fonti istitutive: contratti e accordi collettivi tra le parti sociali;
accordi tra lavoratori autonomi, liberi professionisti o loro associazioni; rego-lamenti
di Regioni, enti territoriali ed enti locali; delibere di organizzazioni
non lucrative operanti nei settori dell’assistenza socio-sanitaria o
dell’assistenza sanitaria; iniziativa di società di mutuo soccorso riconosciute
dallo Stato o da «altri soggetti pubblici e privati, a condizione che contengano
l’esplicita assunzione dell’obbligo di non adottare strategie e comportamenti di
selezione dei rischi o di discriminazione nei confronti di particolari gruppi di
soggetti» (art. 9, comma 3, lett. f, d.lgs. n. 229/1999). Si sottolinea inoltre che i
contributi di assistenza sanitaria versati ai fondi o ad enti e casse aventi esclu-sivamente
finalità assistenziale creati sulla base di accordi di categoria o
aziendale sono fiscalmente deducibili fino ad un importo massimo di 3.615,20
euro (art. 51, comma 2, lett. a, TUIR).
All’atto pratico è ravvisabile una forte diffusione dei fondi sanitari integrativi
aziendali, mentre più ridotti sono i casi in cui l’assistenza sanitaria integrativa
prende la forma di polizze sanitarie fornite dalle compagnie di assicurazione.
Mentre da un lato è ravvisabile la tendenza ad ampliare le prestazioni coperte
da tali strumenti (spese per visite specialistiche, prestazioni diagnostiche, rico-veri
ospedalieri, prestazioni oculistiche e odontoiatriche), dall’altro emerge
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41. Elementi di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa 23
ancora una limitata copertura della spesa per la non autosufficienza, nonostan-te
le chiare indicazioni della normativa.
In via di diffusione è la tendenza delle aziende, in sede di contrattazione inte-grativa,
a incrementare la quota di contribuzione ai fondi sanitari fissata dai
contratti nazionali, in sostituzione almeno parziale degli incrementi salariali.
Un esempio è dato dall’impresa farmaceutica Angelini, che nell’accordo
aziendale ha previsto per il 2011 una riduzione del premio di produttività, ri-spetto
al 2010, da 2.070 euro a 1.900 euro lordi, compensato però
dall’estensione ai familiari dei lavoratori della copertura sanitaria offerta dal
fondo di categoria Faschim, totalmente a carico dell’azienda.
A fianco degli orientamenti appena delineati vi sono però alcuni segnali che
denotano una forte eterogeneità tra le condizioni presenti nei diversi settori e
tra le categorie professionali. Tale eterogeneità riguarda innanzitutto la contri-buzione.
Mentre infatti nel gruppo metalmeccanico ABB il fondo sanitario
FAI è alimentato da versamenti pari a 33 euro annui da parte del datore di la-voro
e dallo 0,55% della retribuzione lorda dal parte del lavoratore, nel fondo
unificato del gruppo Intesa tali versamenti raggiungono i 900 euro e l’1% del-la
retribuzione lorda. In secondo luogo, differenze rilevanti sono ravvisabili
nei rimborsi assicurati per le prestazioni: per quel che concerne l’odontoiatria
e prendendo in considerazione le stesse due realtà aziendali, si nota che il fon-do
di ABB garantisce un massimale di spesa annuo fino a 1.800 euro, superio-re
a quello di Intesa Sanpaolo, che è invece di 1.500 euro. Altro elemento di
differenziazione riguarda il trattamento riservato ai dirigenti. Questi, infatti, in
alcune aziende possono aderire a fondi o polizze assicurative separate e più
ricche rispetto a quelle del resto dei dipendenti (come avviene per esempio in
Angeli e nel gruppo San Benedetto). Un ultimo elemento riguarda i beneficia-ri
delle prestazioni dei fondi o delle polizze. Oltre ai dipendenti delle aziende,
infatti, la copertura non sempre si estende ai familiari. Spesso, infine, la coper-tura
non viene conservata da parte dei lavoratori precedentemente iscritti in
caso di mobilità e solo in alcuni casi (Atm in particolare) questa arriva a com-prendere
addirittura i lavoratori pensionati.
@ 2014 ADAPT University Press
42. La conciliazione vita-lavoro
nei contesti aziendali
@ 2014 ADAPT University Press
di Rosita Zucaro
La conciliazione in azienda
Le misure di work-life balance, parte integrante di piani strutturati di welfare
aziendale, costituiscono un asset strategico non solo per le politiche inerenti al
mercato del lavoro, ma anche per affrontare questioni centrali nell’evoluzione
dell’intero modello socio-economico: dallo sviluppo sostenibile, all’equilibrio
demografico, fino alle questioni di riequilibrio di genere.
All’interno di tale quadro, complice anche la crisi economica, le imprese stan-no
assumendo un ruolo di crescente importanza, con conseguente spostamento
dei luoghi della programmazione e di attuazione. Dai livelli centrali si assiste
ad un maggior coinvolgimento di quelli periferici, e allo stesso tempo ad un
allargamento delle reti di attori pubblici e privati che, in una prospettiva di
welfare society, concorrono in maniera diffusa alla produzione di benessere.
Inoltre, le aziende devono far fronte alle nuove esigenze conciliatorie di un
numero crescente di lavoratrici e lavoratori con carichi familiari diversificati,
dagli aspetti più legati alla genitorialità a quelli di cura di soggetti con handi-cap
o anziani.
L’ILO nell’ultimo rapporto sulla tutela della maternità e della paternità rileva
che il diritto a un equilibrio tra famiglia e lavoro costituisce elemento fonda-mentale
della qualità del lavoro. In quest’ottica l’azienda deve contribuire a
diffondere più cultura di sostegno alle pratiche di conciliazione.
L’aver raggiunto una soglia di longevità impensabile anche solo qualche de-cennio
fa, se, da un lato, rappresenta un importante traguardo, dall’altro si con-figura
come una sfida per la società nel suo complesso, che dovrà affrontare
43. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 25
cambiamenti importanti anche nell’ambito dell’organizzazione dei servizi, sia
per gli anziani, che per le loro famiglie.
Affrontare il tema “conciliazione” significa andare alla radice di questi pro-blemi,
partendo dai meccanismi che regolano le società contemporanee e rico-noscendo,
in primo luogo, che famiglia e lavoro non sono monadi separate, ma
due entità legate da un insieme strutturato di interconnessioni, che si modifi-cano
nel corso del tempo, con necessità di interventi di rimodulazione delle
politiche connesse.
Non a caso la Strategia europea definita nel vertice di Lisbona del 2000 ha
espressamente sancito l’evoluzione degli interventi di work-life balance in
strumento polivalente che va dalla funzione di promozione dell’accesso al
mercato del lavoro e di garanzia di migliori condizioni per i lavoratori con re-sponsabilità
familiari, a quella di strumento per la soluzione a macroproblemi
quali il disequilibrio strutturale della popolazione. Le misure di conciliazione
vanno, quindi, integrate e valutate all’interno di più ampia strategia, in cui si
legano anche alle azioni aziendali inerenti alla responsabilità sociale
d’impresa.
È in atto un cambiamento che, velocizzato dalla particolare e difficile congiun-tura
economica, sta imponendo una visione del lavoro e delle sue regole sem-pre
più emancipata da un esclusivo legame a fattori economici. La crisi, infatti,
sta dimostrando che il solo benessere economico non può essere al centro delle
politiche di risanamento.
Il piano d’azione nazionale sulla responsabilità sociale d’impresa 2012-2014,
presentato il 16 aprile 2013 dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e
dal Ministero del sviluppo economico (ripreso dall’accordo sottoscritto da
ABI il 19 aprile 2013), evidenzia proprio l’importanza del ruolo dell’impresa
nella società e nella gestione responsabile delle attività economiche quale vei-colo
di creazione di valore, a mutuo vantaggio di imprese, cittadini e comuni-tà.
Le aziende che loro sponte adottano “comportamenti” socialmente respon-sabili
riescono per tale via ad acquisire un concreto vantaggio nei confronti dei
competitors.
La conciliazione vita-lavoro costituisce un ambito privilegiato al quale le stra-tegie
d’impresa devono orientarsi. L’Università La Sapienza di Roma
dall’intersezione tra conciliazione vita-lavoro e Total Reward System ha ideato
un modello di organizzazione e gestione del rapporto di lavoro, che costituisce
un sistema retributivo motivazionale che, oltre alla classica retribuzione, com-prende
benefit e programmi di work-life balance.
@ 2014 ADAPT University Press
44. 26 Rosita Zucaro
Al fine di sviluppare tali misure d’intervento, un’impresa può agire su quattro
leve, tra loro complementari: organizzazione del lavoro, cultura aziendale, si-stema
di retribuzione, servizi aziendali (si veda la figura 1).
Figura 1 – Le leve della conciliazione vita-lavoro
Fonte: Guida operativa Regione Lombardia. La conciliazione famiglia-lavoro. Un’opportunità per imprese
e pubbliche amministrazioni, 2011
Ulteriore conferma di tale processo evolutivo e dell’accresciuta importanza del
ruolo primario che devono ricoprire le politiche di conciliazione si rinviene
nell’adozione del Primo Rapporto sul benessere equo e sostenibile in Italia
(Bes) dell’11 marzo 2013, predisposto dall’ISTAT in collaborazione con il
CNEL, in cui viene presentato un nuovo indice, costruito proprio attraverso
l’integrazione di misuratori economici con indicatori di carattere sociale, per
valutare lo stato ed il progresso di una società. Il rapporto Bes misura, infatti,
sia la partecipazione al mercato del lavoro che la qualità del lavoro, definendo
i diversi asset dell’occupazione in ordine a vari aspetti fra cui stabilità, reddito,
sicurezza sul lavoro e la conciliazione vita-lavoro. Sempre più centrale, quindi,
diviene il valore che le persone assumono all’interno dei contesti aziendali.
Alla luce di tale scenario, molte aziende a livello europeo stanno cercando di
“tenere il passo” introducendo programmi di conciliazione aggiuntivi rispetto
a quanto previsto dalla normativa nazionale o locale. Nonostante, però, si regi-stri
in Europa un aumento del numero di imprese, che mettono a disposizione
dei propri dipendenti dispositivi di conciliazione, una quota consistente di cit-
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45. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 27
tadini europei (più del 50%) ancora incontra enormi difficoltà nel conciliare
impegni di lavoro ed esigenze di vita e ciò si riscontra maggiormente nei Paesi
dell’Europa meridionale ed orientale. La forza lavoro italiana registra difficol-tà
maggiori nel bilanciare vita lavorativa e impegni extralavorativi rispetto alla
media UE-27. Sono gli uomini a percepire in maniera leggermente superiore
rispetto alle donne difficoltà di conciliazione, anche se diverse sono le esigen-ze
maggiormente espresse: per i primi pesa la difficoltà a svolgere attività
sportive e culturali, vita sociale e riposo; per le seconde la preoccupazione è
per cura dei figli e degli interessi domestici.
Figura 2 – Occupati con difficoltà di conciliazione vita-lavoro
UE-27
Italia
Fonte: Eurofound, 5th European working conditions survey, 2012
Alla luce del descritto quadro, il legislatore cerca di promuovere la concilia-zione
vita-lavoro agendo, in particolare, sui seguenti fronti: 1) incidendo sulla
disciplina del rapporto di lavoro; 2) favorendo l’attuazione di nuovi strumenti,
quali ad esempio i piani territoriali degli orari; 3) incentivando e favorendo la
creazione di una rete di servizi (servizi per l’infanzia, servizi di assistenza agli
anziani, ecc.) finanziati o agevolati fiscalmente.
Genitorialità e lavoro. Il quadro normativo
Normativa fondamentale, in materia di tutela della maternità e della paternità,
è la l. n. 53/2000, recante Disposizioni per il sostegno della maternità e della
paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei
@ 2014 ADAPT University Press
5,0
15,6
2,9
12,8
6,1
20,9
3,4
17,9
Per niente bene Non molto bene Per niente bene Non molto bene
Uomini Donne
46. 28 Rosita Zucaro
tempi delle città, con la quale sono stati introdotti i congedi parentali,
nell’obiettivo di contribuire concretamente al riequilibrio dei ruoli genitoriali
all’interno dei contesti famigliari.
La citata legge costituisce, inoltre, un importante quadro di riferimento legisla-tivo
in materia di work-life balance per due altri aspetti: da una parte per aver
focalizzato l’attenzione degli enti territoriali sull’importanza strategica di rior-ganizzare
i tempi delle città; dall’altra avendo promosso, tramite l’art. 9, la
sperimentazione di azioni positive per la conciliazione vita-lavoro, attraverso
la previsione di finanziamenti (rinnovabili ogni anno, nei limiti delle disponi-bilità
delle risorse), in favore delle aziende che, con accordi sociali, predi-spongano
progetti articolati per consentire ai dipendenti di usufruire di forme
di flessibilità oraria e organizzativa (part-time reversibile, telelavoro, banca
delle ore, flessibilità oraria o dell’organizzazione aziendale), o per agevolare il
reinserimento lavorativo del genitore dopo un periodo di assenza di oltre 60
giorni, ed, infine, per incentivare interventi innovativi in risposta alle esigenze
di conciliazione vita-lavoro, anche attraverso l’attivazione di reti territoriali tra
enti, aziende e parti sociali.
Una prima riorganizzazione normativa della materia si è avuta nel Testo Unico
introdotto con il d.lgs. n. 151/2001, il quale ha accorpato la disciplina origina-ria
della l. n. 1204/1971 con quella della l. n. 53/2000. A questo decreto legi-slativo
si devono importanti novità in merito alla ridefinizione dei requisiti og-gettivi
e soggettivi, nonché dei criteri e delle modalità per la fruizione dei con-gedi,
permessi e aspettative da parte di entrambi i genitori. Un numero signifi-cativo
di interventi legislativi hanno riguardato anche l’assistenza dei soggetti
portatori di handicap, sia figli, sia parenti (dall’art. 4 all’art. 7 del d.lgs. n.
119/2011). Sempre il decreto del 2011 è intervenuto anche in materia di con-gedo
per le cure dei lavoratori mutilati o invalidi civili che abbiano una ridu-zione
della capacità lavorativa superiore al 50%. Alla riforma Fornero del
2012 si deve invece l’affermazione di una tutela sempre più volta alla genito-rialità
nel complesso, disancorata dalla protezione/difesa solo della madre e
del nascituro.
Il congedo obbligatorio di paternità, introdotto dall’art. 4, comma 24, della l.
n. 92/2012 introduce l’affermazione del principio di uguaglianza tra la figura
materna e paterna, in termini di riconoscimento e godimento dei diritti inerenti
alla cura della prole. Inoltre tale previsione completa quel processo di riscrittu-ra
delle norme in tema di tutela del lavoro femminile verso la prospettiva di
una più affermata coscienza della funzione sociale della maternità e della con-corrente
considerazione degli interessi del bambino. Sempre nell’obiettivo di
promuovere norme a favore dell’inclusione delle donne nel mercato del lavoro
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47. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 29
e tali da consentire, a entrambi i genitori, una migliore assistenza dei figli, il
Legislatore del 2012 è intervenuto con l’introduzione di due misure sperimen-tali
della durata di tre anni: il diritto per le neo-mamme di chiedere, nei limiti
delle risorse disponibili, la corresponsione di voucher per la prestazione di
servizi di baby-sitting, dal termine del periodo di congedo obbligatorio per la
maternità e per gli 11 mesi successivi; la possibilità, per madri e padri italiani,
di poter usufruire del congedo parentale “ad ore”. In materia di tutela della
maternità è infine vigente anche la recentissima riforma sul lavoro adottata con
il d.l. n. 34/2014, convertito con modificazioni in l. n. 78/2014, chiarendo che
il congedo di maternità attivato nell’esecuzione di un contratto a termine pres-so
la stessa azienda concorre a determinare il periodo di attività lavorativa uti-le
a conseguire il diritto di precedenza all’assunzione. A queste lavoratrici è
anche riconosciuto il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo determina-to
effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi, con riferimento al-le
mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine.
Le nuove misure: il congedo di paternità, il congedo frazionato a ore e i
voucher baby-sitting
Le misure sperimentali di sostegno all’occupazione femminile previste dalla l.
n. 92/2012 hanno ricevuto concreta attuazione con il decreto interministeriale
del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Ministero dell’economia
e delle finanze del 22 dicembre 2012. In merito ai criteri di accesso e alle mo-dalità
di fruizione del congedo di paternità obbligatorio e di quello facoltativo,
il decreto, stabilendo che la loro fruizione è possibile entro il quinto mese di
vita del bambino, introduce una novità rispetto al passato in cui il padre poteva
sì beneficiare del congedo, ma solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla
legge, quali la morte o la grave infermità della madre. La misura in oggetto,
sebbene rappresenti una “timida” apertura verso l’affermazione del principio
di uguaglianza tra i genitori nella cura dei figli, risulta ancora lontana dalle
previsioni legislative di alcuni Paesi europei, quali Svezia e Norvegia, in cui,
oltre ai congedi di paternità, sono previsti anche i congedi parentali, usufruibili
da entrambi i genitori anche in modo condiviso.
Quanto all’ambito di applicazione, l’art. 1 del citato decreto, istituisce in favo-re
del padre: 1) un congedo obbligatorio della durata di un giorno, aggiuntivo
rispetto al congedo di maternità (e fruibile anche durante lo stesso); 2) il con-gedo
facoltativo, della durata massima di due giorni (non necessariamente
@ 2014 ADAPT University Press
48. 30 Rosita Zucaro
continuativi) e fruibili dal padre (anche adottivo e/o affidatario) in sostituzione
del congedo obbligatorio della madre.
Il trattamento economico e previdenziale è a carico dell’Inps nella misura del
100% della retribuzione e in relazione al trattamento previdenziale del conge-do
di maternità non è prevista alcuna anzianità contributiva pregressa ai fini
dell’accreditamento dei contributi figurativi per il diritto alla pensione e per la
determinazione della misura della stessa.
Un nodo critico attiene alla modalità di fruizione del congedo di paternità.
Nello specifico, si prevede l’onere, a carico del padre, di comunicare al datore
di lavoro, con almeno 15 giorni di preavviso, possibilmente prima della nascita
del bambino o della data presunta del parto, i giorni nei quali intende usufruire
del congedo sia obbligatorio che facoltativo, nonché l’allegazione della dichia-razione
della madre contente la rinuncia, da parte della stessa, alla fruizione di
tanti giorni di congedo quanti saranno quelli utilizzati dal padre. Risulta evi-dente
la farraginosità burocratica della norma e il considerevole lasso di tempo
con cui il padre è costretto a dare il preavviso della sua assenza al datore di la-voro.
Una migliore modulazione conciliatoria potrebbe essere realizzata anche
attraverso strumenti più “flessibili”, che tengano in giusta considerazione
l’eventualità che le necessità per cui un padre decida di assentarsi dal lavoro
siano improvvise.
Interessante in merito riportare che prima dell’introduzione del congedo di pa-ternità
da parte del legislatore nazionale è intervenuta la contrattazione collet-tiva.
Le buone prassi, in questo senso, sono ad esempio: l’art. 40-bis del Ccnl
industria alimentari, che già prevedeva il congedo di paternità nella misura di
2 giorni e il contratto aziendale di Sanpellegrino del 13 marzo 2012, che mi-gliora
tale previsione, elevandolo a 4 giorni. Questo costituisce un riferimento
importante di come la contrattazione collettiva possa e debba ricoprire un ruo-lo
centrale nella definizione di tali politiche.
Altra previsione significativa è la facoltà, concessa ai lavoratori padri e alle la-voratrici
madri, di fruire del congedo parentale frazionandolo ad ore. Questa
previsione è una conseguenza del recepimento, da parte della l. n. 228/2012,
delle disposizioni del d.l. n. 216/2012 di attuazione della direttiva 2010/18/UE,
che ha, appunto, ampliato la possibilità di utilizzo dei congedi parentali, anche
a ore, secondo le disposizioni adottate dai contratti collettivi. Si tratta dei con-gedi
che spettano a ciascun genitore lavoratore, nei primi 8 anni di vita del fi-glio,
fino a un periodo massimo di 6 mesi di astensione (continuativo o frazio-nato).
L’astensione complessiva di entrambi i genitori non può comunque su-perare
i 10 mesi, salvo il caso in cui il padre lavoratore eserciti il diritto di
astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3
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49. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 31
mesi: in questa ipotesi il limite complessivo dei congedi parentali dei genitori
è elevato a 11 mesi. In secondo luogo, è stato precisato che la comunicazione
con cui il lavoratore è tenuto a preavvisare il datore di lavoro sull’intenzione di
fruire del periodo di congedo parentale (almeno 15 giorni prima) deve conte-nere
anche l’indicazione dell’inizio e della fine del periodo di congedo.
Il Ministero del lavoro, nell’interpello n. 25 del 22 luglio 2013 di Cgil, Cisl e
Uil, ha precisato che le modalità di fruizione del congedo “orario” potranno
essere disciplinate non solo dalla contrattazione collettiva di settore, ma anche
da quella decentrata, che dovrà stabilirne le modalità di godimento su base
oraria, i criteri di calcolo, l’equiparazione di un determinato monte ore alla
singola giornata lavorativa. Lo spazio di manovra delle intese di secondo livel-lo
è incondizionato, atteso che lo stesso non è stato circoscritto nemmeno da
deleghe della contrattazione nazionale nei confronti del livello inferiore.
Per quanto attiene al beneficio dei voucher, questi sono utilizzabili, alternati-vamente,
per l’acquisto di servizi di baby-sitting o per assolvere agli oneri del-la
rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi pubblici e/o privati ac-creditati.
I “buoni” hanno un importo variabile, modulabile sulla base dei pa-rametri
ISEE ed erogabile dall’Inps. L’importo medio previsto è pari a 300 eu-ro
mensili per un massimo di 6 mesi. La decisione della mamma di usufruire
dei voucher, in alternativa al congedo parentale, comporta, tuttavia, la conse-guenziale
riduzione di un mese del periodo di congedo parentale, per ogni
quota mensile richiesta.
La sperimentazione dei voucher baby-sitting, che nasce con l’obiettivo di age-volare
la conciliazione vita-lavoro, soprattutto per favorire il rientro della don-na
dopo la maternità ed evitare ripercussioni alla carriera lavorativa, prevede
delle limitazioni ed esclusioni. Sono escluse dal beneficio le madri totalmente
esentate dal pagamento della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei ser-vizi
privati convenzionati, nonché quelle che usufruiscono dei benefici di cui
al Fondo per le politiche relative ai diritti e pari opportunità. Nella categoria
degli esclusi rientrano anche le lavoratrici part-time, in ragione della ridotta
entità della prestazione lavorativa, e le lavoratrici iscritte alla gestione separata
Inps, sino ad un massimo di tre mesi. Tale misura ha ricevuto particolare ap-prezzamento
da parte dell’ILO che l’ha ritenuta un esempio di «politica inno-vativa
tesa a promuovere il ritorno delle donne sul posto di lavoro consentendo
di soddisfare le responsabilità legate alla cura del bambino».
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50. 32 Rosita Zucaro
Tabella 1 – Le novità legislative in materia di tutela della maternità e paternità
Misure Disposizioni Sintesi dei contenuti
Congedo di maternità Art. 1, d.l. 34/2014 convertito in
legge, con modificazioni, n. 78, il
15 maggio 2014
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Se intervenuto nell’esecuzione di
un contratto a termine presso stes-sa
azienda, concorre a determi-nare
il periodo di attività lavora-tiva
utile a conseguire il diritto di
precedenza all’assunzione.
A queste lavoratrici è anche ri-conosciuto
il diritto di preceden-za
nelle assunzioni a tempo de-terminato,
effettuate nei successivi
12 mesi, con riferimento alle man-sioni
già espletate in esecuzione
dei precedenti rapporti a termine.
Congedo di paternità Art. 4, comma 24, lett. a, della l.
n. 92/2012
Artt. da 1 a 3, d.m. 22 dicembre
2012 (attuativo dell’art. 4, com-ma
24, lett. a, l. n. 92/2012)
Un giorno obbligatorio, aggiunti-vo
rispetto al congedo di maternità
(e fruibile anche durante lo stesso)
e due giorni facoltativi (non ne-cessariamente
continuativi) e fruibi-li
dal padre (anche adottivo e/o af-fidatario)
in “sostituzione” del con-gedo
materno.
Trattamento economico, norma-tivo
e previdenziale:
Indennità giornaliera a carico
dell’Inps, pari al 100% della retribu-zione.
Comunicazione al datore di lavo-ro
con almeno 15 giorni di
preavviso, del numero di giorni di
congedo, allegando la dichiarazio-ne
della madre con la rinuncia alla
fruizione di tanti giorni di congedo
quanti sono quelli fruiti dal padre.
Congedo parentale fra-zionato
ad ore
L. n. 228/2012, recettiva delle
disposizioni del d.l. n. 216/2012
di attuazione della direttiva
2010/18/UE
Possono fruirne entrambi i geni-tori
I Ccnl o i contratti collettivi de-centrati
stabiliscono:
51. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 33
a) modalità di fruizione su base
oraria;
b) criteri di calcolo;
c) equiparazione di un determinato
monte ore alla singola giornata
lavorativa.
Durante il periodo, potranno an-che
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essere concordate adeguate
misure di ripresa dell’attività la-vorativa,
osservando quanto even-tualmente
disposto dai contratti
collettivi, anche decentrati.
Voucher per acquisito di
servizi baby-sitting o
per pagamento degli
oneri dei servizi pubblici
e/o privati
Artt. da 4 a 7, d.m. 22 dicembre
2012 (attuativo dell’art. 4, com-ma
24, lett. b, l. n. 92/2012)
Le neomamme, al termine del
congedo di maternità e per gli 11
mesi successivi, in “alternativa”
al congedo parentale possono
avvalersi dei voucher:
a) per acquisto di servizi di baby-sitting;
b) per assolvere agli oneri della
rete pubblica dei servizi per
l’infanzia o dei servizi pubblici
e/o privati accreditati.
L’importo erogato dall’Inps è pa-ri
a 300 euro mensili.
Elaborazione ADAPT. Fonte: Elaborazione legge n. 92/2012, Decreto interministeriale, 22 dicembre
2012 (attuativo dell'art. 4, comma 24, lett. b), l. n. 92/2012), legge n. 228/2012, recettiva delle disposi-zioni
del decreto legge n. 216/2012 di attuazione della Direttiva 2010/18/UE.; D.L 34/2014 convertito in
legge con modificazioni il 15 maggio 2014. Tabella a cura di Rosita Zucaro
La flessibilità come strumento per bilanciare tempi di vita e lavoro
Nell’attuale fase storico-economica, si assiste all’affermarsi generalizzato di
una crescente, ma diversa, esigenza di flessibilità sia da parte dell’impresa che
da parte del lavoratore. Intervenire sulla flessibilità del lavoro significa modu-lare
la prestazione sulle specifiche esigenze della produzione, senza mettere a
rischio la sicurezza dell’occupazione. La flessibilità costituisce, quindi, un
possibile trait d’union tra emergenti esigenze aziendali e nuovi bisogni dei la-voratori,
legandosi per tale via alle politiche di conciliazione vita-lavoro. La
52. 34 Rosita Zucaro
flessibilità temporale e spaziale rappresenta, infatti, uno dei principali stru-menti
della conciliazione, intesa come l’insieme di quelle misure che consen-tono
una migliore gestione dei tempi di vita e di lavoro. Le aziende in grado di
gestire efficacemente l’evoluzione del rapporto con i lavoratori avranno, quin-di,
con elevata probabilità, un maggior vantaggio competitivo rispetto alle al-tre,
poiché la produttività è incentivata da modelli flessibili di lavoro, che si
adattano alle peculiarità del caso.
In questo processo, la contrattazione collettiva, in particolare quella territoriale
e aziendale, ricopre un ruolo strategico, rappresentando uno degli strumenti
concreti tramite i quali le aziende possono attivare adeguate politiche concilia-tive,
creare sviluppo, occupazione, equità sociale, sistemi integrati di welfare.
Anche L’ILO ha recentemente ricordato tra le strade da perseguire, per tutelare
maggiormente la genitorialità, proprio la promozione della contrattazione col-lettiva,
quale strumento attraverso cui lavoratori e datori di lavoro possono
concordare una “flessibilità regolata”, che consenta ai primi di meglio bilan-ciare
tempi di lavoro con responsabilità di cura, andando incontro allo stesso
tempo alle esigenze produttive e organizzative dei secondi.
Al livello nazionale, l’avviso comune Azioni a sostegno delle politiche di con-ciliazione
tra famiglia e lavoro, sottoscritto il 7 marzo 2011 da Governo e par-ti
sociali, si è posto proprio in quest’ottica, avendo quale obiettivo il favorire,
attraverso una visione integrata, politiche sociali e contrattuali a sostegno della
conciliazione per implementare soluzioni innovative, tanto di tipo normativo,
che organizzativo.
In virtù di tale avviso, è stato avviato un percorso tecnico volto ad introdurre
nella contrattazione decentrata forme di flessibilità family-friendly e di work-life
balance, con ad esempio orari rimodulati, lavoro a tempo parziale, forme
di telelavoro e smartworking.
La flessibilità, regolata in ottica di conciliazione vita-lavoro, può essere suddi-visa
in due macro-aree d’intervento: temporale, caratterizzata da strumenti che
permettono un’organizzazione flessibile dei tempi di lavoro (part-time, orario
scorrevole, job sharing, ecc.); spaziale, costituita da misure che favoriscono
una diversa organizzazione degli spazi lavorativi, permettendo alle organizza-zioni
di superare i confini fisici dell’ente a favore di una maggiore libertà (te-lelavoro,
smart working, lavoro agile, ecc.).
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53. La conciliazione vita-lavoro nei contesti aziendali 35
Modelli flessibili di organizzazione degli orari nelle politiche d’impresa
Intervenire sulla flessibilità dell’orario consente un rapido adattamento
dell’input di lavoro alle esigenze aziendali.
È dimostrato empiricamente da diversi studi e ricerche nel settore, che da
un’organizzazione flessibile del lavoro traggano benefici sia i datori di lavoro,
che i lavoratori; come è altresì comprovata l’esistenza di un relazione tra fles-sibilità
dell’orario di lavoro, miglioramento dell’equilibrio nei tempi di vita e
di lavoro e accrescimento della motivazione, nonché delle condizioni psicoso-ciali.
Pertanto è sempre più ricorrente l’uso modulato del tempo, che media tra
l’evoluzione dell’organizzazione della produzione, da un lato, e la crescente
attenzione dedicata al rapporto tra lavoro e sfera privata, dall’altro.
Uno tra gli strumenti normativi che permette una flessibilità dei tempi di lavo-ro,
modulabile in ottica di conciliazione, è il part-time di cui al d.lgs. 28 gen-naio
2000, n. 61, che recepisce la direttiva europea 97/81/CE, che può assu-mente
tre diverse configurazioni: orizzontale, con orario di lavoro corrispon-dente
ad una parte della settimana di lavoro standard; verticale con prestazione
a tempo pieno per un limitato periodo della settimana, del mese o dell’anno;
mista, ovvero un mix tra le precedenti configurazioni. Tale istituto si pone
come uno strumento di flessibilità molto utile per accudire i figli o gli anziani,
e risulta, quindi, particolarmente utilizzato dalle donne, consentendo di mante-nere
il contatto con il luogo di lavoro e di avere, allo stesso tempo, una elasti-cità
di comportamento (e quindi di gestione dei tempi familiari) soddisfacente.
Rappresenta, inoltre, uno strumento di flessibilità oraria particolarmente ap-prezzato
anche da parte datoriale, in quanto determina un miglioramento delle
performance aziendali, accrescendo al contempo la motivazione e riducendo il
turnover.
Altro strumento che garantisce la flessibilità dell’orario di lavoro in un’ottica
di armonizzazione dei tempi è l’orario scorrevole (o elastico o flessibile), che
consente al lavoratore di rimodulare l’orario di ingresso e/o di uscita o l’orario
di inizio o di fine della pausa, garantendo la copertura del numero delle ore
contrattualmente previste. L’orario scorrevole viene ampiamente utilizzato per
mansioni che non prevedono un contatto diretto con il pubblico e che, pertan-to,
non necessitano di orari fissi di apertura e chiusura. Misura analoga è la
settimana concentrata, la quale consiste nel raggruppare l’orario settimanale al
di sotto dei classici 5 giorni lavorativi, allungando la durata giornaliera com-plessiva.
@ 2014 ADAPT University Press
54. 36 Rosita Zucaro
Tale logica è alla base anche della annualizzazione dell’orario, che prevede la
fissazione da parte dell’azienda di un monte ore complessivo che il lavoratore
deve sostenere durante l’anno, senza definirne in maniera rigida la sua distri-buzione
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temporale.
Sempre in ottica di flessibilità temporale un altro istituto interessante è la ban-ca
delle ore, che prevede la possibilità per il lavoratore di “depositare” su un
conto virtuale le ore lavorate in più (straordinario) e poi, nel corso dell’anno,
attingervi per godere di riposi compensativi secondo le modalità previste dalla
contrattazione collettiva. Peculiarità di questa misura è, quindi, la mancata
monetizzazione delle ore di straordinario, che vanno a formare un “credito di
ore” dal quale attingere nel caso in cui si necessiti di permessi e riposi aggiun-tivi.
Altro mezzo che può essere efficacemente volto a politiche di conciliazione
vita-lavoro è il job sharing (o lavoro ripartito), che prevede l’assunzione in so-lido
dell’adempimento di un’identica prestazione lavorativa da parte di due la-voratori,
i quali gestiscono pertanto in maniera autonoma e discrezionale la ri-partizione
dell’attività lavorativa e l’effettuazione di sostituzioni tra loro. Lo
stipendio è calcolato sulle ore effettivamente prestate da ciascun lavoratore.
Le cosiddette “isole di lavoro”, invece, consentono di conciliare le esigenze
personali con quelle organizzative dell’azienda. Il citato strumento, presente in
alcune realtà aziendali, come ad esempio il Gruppo Auchan o Ikea, si carat-terizza
per la suddivisione dei lavoratori in gruppi (chiamati appunto “isole”)
attraverso una logica di complementarietà, che necessita di una indagine e ana-lisi
preventiva dei bisogni della popolazione aziendale interessata, al fine di
fare il matching tra gli stessi (età, nucleo familiare, distanza dal luogo di lavo-ro,
fattori sociali, ecc.). Il personale, nell’ambito della propria isola, si impe-gna
ad osservare un orario individuale di lavoro (in termini di durata, giorni e
fasce orarie) con un sistema di credito/debito da riportare annualmente a som-ma
zero, nel rispetto della c.d. curva di carico di lavoro previsionale della
azienda. I vantaggi sono: a livello aziendale l’adeguamento della presenza del
personale al flusso cliente, nonché il miglioramento del clima aziendale, con
conseguente riduzione dell’assenteismo; per il lavoratore una migliore gestio-ne
dei propri tempi di vita.
Nell’attuale contesto globalizzato la maggiore flessibilità lavorativa, quindi, è
un fattore che comporta un vantaggio competitivo che si concretizza nella ca-pacità
di attrarre e trattenere i lavoratori qualificati e di migliorare la produtti-vità,
sia del singolo sia aziendale, nell’ottica del raggiungimento del benessere
organizzativo che misura non solo la qualità dell’ambiente di lavoro, ma anche